Il suo nome è Nina – come la Santa Patrona della Georgia, morta martire nel 354 d.C. e cristianizzatrice di quella terra – il cognome Kauchtschischwili, italianizzato, più semplicemente, in Kaucisvili. Ottantasette anni di splendido vigore intellettivo e brio esistenziale ha Nina, nata a Berlino il 20 agosto 1919, da padre georgiano, Michele, e madre russa, Elena. Cinque lingue parlate correntemente nel suo bagaglio – italiano, russo, francese, inglese, tedesco, oltre a un po’ di georgiano, lingua caucasica e dall’alfabeto proprio, ben lontana dal cirillico –, un centinaio di pubblicazioni come russista, docente di letteratura e lingua russa presso vari atenei, autrice di tanti libri, Nina lavora ancora con entusiasmo offrendo consulenze e scrivendo articoli e interventi per convegni. Prima di acquisire la cittadinanza italiana ha conosciuto anche la dura vita da apolide, vivendo però sempre con una mentalità cosmopolita.
«La mia famiglia, preceduta dal papà» apre il baule dei ricordi, «è arrivata a Milano nella primavera del ‘40, fuggendo la guerra scatenata dalla Germania. Non sapevamo una parola d’italiano. Io ho ripreso però subito gli studi laureandomi alla “Cattolica” in Filologia Romanza».
«La Germania hitleriana» prosegue «era terribile, impressionante. Le posso raccontare della “Notte dei cristalli”, con le vetrine dei negozi degli ebrei tutte infrante e la gente che saccheggiava impunemente, mentre in lontananza si scorgeva la Sinagoga principale di Berlino bruciare. Persino mio padre fu arrestato dalla Gestapo e rilasciato solo perché la Siemens, di cui era un importante ingegnere, aveva fatto pressioni affinché fosse liberato. Ogni mattina, a scuola, con gli occhi cercavamo fra i banchi sperando che ci fossero le nostre compagne ebree. C’erano folle oceaniche che attendevano il passaggio di Hitler e che io e i miei amici, tutti antinazisti, e tanti di loro erano tedeschi, cercavamo di evitare».
Scampata alla follia della vita quotidiana nel Terzo Reich e giunta in Italia, non poté tuttavia Nina Kaucisvili evitare la guerra...
«Quando Mussolini il 10 giugno 1940 fece la dichiarazione di guerra, ero in Piazza Cavour, dove gli altoparlanti ce la rimandarono. Tutti erano avviliti e spaventatissimi».
Il grande conflitto infine cessò. L’Italia rinacque dalle macerie. Anche con il contributo della famiglia Kaucisvili. Il fratello Giorgio sarebbe divenuto un famoso gerontologo e Nina avrebbe insegnato per oltre trent’anni in svariate Università, dalla “Cattolica” di Milano a Bari e Bergamo, tenendo sempre, però, la residenza a Milano.
«Si sta bene a Milano» confessa, «a parte le strade un po’ malmesse. È una città viva, animata, che ha rapporti con tutto il mondo, e la Basilica di S. Ambrogio è unica, con il suo straordinario mosaico absidale e il ciborio. Sa che tanti russi passavano di qui per venire a trovare Silvio Pellico, l’autore de Le mie prigioni, simbolo di libertà e molto amato in Russia, e il Manzoni?»
L’italiano della Professoressa Kaucisvili è fluente e forbito, pur con l’accento lasciatole dal russo, idioma da lei praticato per tutta la vita. Signora Nina, in che lingua pensa o sogna?
«Una bella domanda. Non lo so. Sono molto legata all’identità georgiana: un Paese oppresso prima dagli Zar poi dai Sovietici, coraggioso, con una tradizione culturale molto ricca. Dico sempre tuttavia che sogno nella lingua con cui ho pronunciato le mie ultime parole prima di addormentarmi».
Da lungo tempo Nina svolge azione di volontariato presso la Casa di Reclusione di Milano Opera contribuendo alla riuscita del “Laboratorio di lettura e scrittura creativa” che vi si tiene all’interno. «Ci sono andata la prima volta un po’ per caso per sostituire un caro amico che era morto e che avrebbe dovuto parlare di un volume di poesie dei detenuti. Mi sono accalorata nel ricordo e nella presentazione del libro e sono subito piaciuta ai miei uditori. Sono circondata di affetto e tenerezza: mi chiamano Zia Nina e dicono che porto tanta cultura. E tanto cioccolato!»
«È una bellissima esperienza» prosegue, «la mia vecchiaia è evidentemente ancora in grado di dare qualcosa e io ho ricevuto un nuovo significato. Non rinuncerei mai a quest’appuntamento, in alcun modo».
Alberto Figliolia
(da 'l Gazetin, ottobre 2007)