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In versi d’amore: la scelta di Giacomo Cerrai. A cura di Alivento (4)
Johnn Reinhard Weguelin: Lesbia
Johnn Reinhard Weguelin: Lesbia 
29 Ottobre 2007
 

Giungo con Giacomo Cerrai alla quarta presentazione di poesie d’amore selezionate e commentate per Tellusfolio da parte di poeti contemporanei miei amici e stavolta introduco questa scelta con la convinzione di proporre qualcosa che riluce riflessione, maturità, consapevolezza poetica.

Chi scrive traduce sempre sé nel suo dettato, ecco perché signorilità, limpidezza di pensiero, preparazione e passione traspaiono in ogni riga dello scritto di Giacomo Cerrai.

Già l’impostazione della misura è data dalla scelta del testo: un classico, un modello di perfezione poetica, certamente noto a tutti coloro che abbiano affrontato lo studio del latino; una di quelle poesie che dicono così bene l’amore che solo un innamorato può pensare di dire ancora meglio e scrivere d’amore, un innamorato di altro essere umano o anche soltanto delle parole. Del resto lo stesso Cerrai evidenzia come la poesia sia qualcosa che mai cessa d’essere prodotto per le infinite possibilità di comporre le parole in architetture mirabili, armoniche e sempre diverse.

Nella poesia prescelta Catullo ama Lesbia ed in intima confidenza l’esorta a condividere il segreto d’amore, delinea quella comunione fisica e psichica che unisce gli amanti in un legame che esclude gli altri, e li fa valere ben poca cosa, impastata di moralismi piccola e meschina, niente di fronte alla grandezza del desiderio, all’impetuosa esplosione del sentimento. Bellissima scelta d’antiche parole vive ancora oggi nel pensiero, nel sogno di trascorrere un’eterna notte d’amore, godendo la pienezza di una passione che si moltiplica nel bacio, segno tangibile di quel trasporto carnale che esalta e congiunge gli amanti.

Bello anche il commento di Giacomo imperniato su quella capacità rara di condensare la conoscenza in excursus rapidi di collegamenti spazio temporali che s’inanellano nella storia della poesia dal tempo degli egizi, passando per il cantico delle creature, fino al secolo attuale nel quale si registra una flessione del tema d’amore.

Per conoscere di più Giacomo Cerrai, le sue poesie la sua competenza in materia poetica invito a visitare il sito da lui gestito Imperfetta Ellisse, (vedi anche in Poesia & Blog, Tellusfolio-Critica della Cultura, 20 marzo 2007) per saggiare la sua creatività rinvio a questo mio post, per ascoltarlo in letture di testi di cui è autore rimando a questo link dove è possibile leggere una breve biografia.

 

Alivento

 

 

IN VERSI D’AMORE: LA SCELTA DI GIACOMO CERRAI

 

 

Potremmo dire che il rapporto tra la poesia e l'amore è identico a quello tra la poesia e se stessa, o il mondo, o la vita. Ovvero il cocciuto rifiuto di ammettere l'impossibilità di dare una lettura soddisfacente a qualcosa che è totalmente universale e sfuggente e insieme privato, fin dalla notte dei tempi. Per quanto tutto sia già stato detto, niente sarà mai detto del tutto, per la straordinaria capacità combinatoria e polisemica che il linguaggio, sia esso quello delle parole o della musica o dell'arte, possiede. E ogni poeta prima o poi vorrà provarci. E perciò non c'è da stupirsi se da tempo immemorabile l'amore (insieme a altre due o tre cosette fondamentali, la nascita, la morte, la guerra) sia intimamente legato alla necessità di “cantare”, così tanto da essere corredato, finché le religioni monoteistiche non hanno fatto piazza pulita, da uno specifico patrocinio divino. Né c'è da stupirsi che da sempre l'amore abbia un suo statuto in poesia (la lirica amorosa era in Egitto un preciso genere già 10-15 secoli prima di Cristo), come del resto sa benissimo chiunque abbia frequentato, ad esempio, i lirici greci, magari passati al setaccio, splendido, della poetica ermetica di Quasimodo. E inoltre: proprio per la difficoltà di definire poeticamente in sé e per gli altri, di dare un'immagine, di dipingere sensazioni, piaceri, dolori, amarezze, l'amore è stato, io credo, una autentica “necessità” per la invenzione di quegli straordinari arnesi del mestiere poetico che sono la similitudine e la metafora, nient'altro che associazioni di idee tutto sommato semplici e comuni: «Squassa Eros / l'animo mio, come il vento sui monti che investe le querce», ci dice Saffo; e un anonimo egizio «L'amore che ho per te / è diffuso nel mio corpo, / come il [sale] si scioglie nell'acqua...» (papiro del XVI-XI sec. A.C.); e Petrarca «L'arbor gentil che forte amai molt'anni, / mentre i bei rami non m'ebber a sdegno...». E potremmo scomodare la Bibbia e il suo Cantico dei Cantici, e la straordinaria simbologia ad esso connessa, forse molto più terrena di quanto certi esegeti vogliano ammettere, ma lasciamo perdere.

Tuttavia mi sembra che l'amore sia un po’ in ribasso in poesia (e non da oggi, ma almeno dalla seconda metà del Novecento), forse per via di un diffuso atteggiamento antilirico, una messa in discussione e un arretramento dell'io che invece nella poesia d'amore è per forza di cose centrale, la contrapposizione tra privato e politico, come se l'amore non fosse una delle forze più socialmente dirompenti che esistano. O forse perché i poeti stessi temono il manierismo o l'effetto Baci Perugina o perché si ha l'impressione che l'amore diventi marginale o ripieghi in difesa di fronte alla drammaticità del mondo attuale, come un fatto prezioso e privato da salvaguardare.

Se così è, a maggior ragione è bene leggere oggi un poeta come Catullo, qui in una delle sue espressioni più note e forse abusate, ma di cui nessuno può negare la sempre attuale bellezza.

 

 

Canto V.

 

Dobbiamo Lesbia mia vivere, amare,

le proteste dei vecchi tanto austeri

tutte dobbiamo valutarle nulla.

Il sole può calare e ritornare,

per noi, quando la breve luce cade,

resta un'eterna notte da dormire.

Baciami mille volte e ancora cento

poi nuovamente mille e ancora cento

e dopo ancora mille e dopo cento,

e poi confonderemo le migliaia

tutte insieme per non saperle mai,

perchè nessun maligno porti male

sapendo quanti sono i nostri baci.

 

(trad. E. Mandruzzato)

 

 

C'è tutto, o quasi. In questa poesia, totalmente laica, senza invocazioni agli dei, che come tutte quelle dei “poeti nuovi”, come li chiamava Cicerone, costituì un specie di rivoluzione, c'è la straordinaria maestria di Catullo, capace di costruire in pochi versi leggeri (nugae, sciocchezze) una passione, anche e soprattutto erotica (i basia di cui parla non sono i bacetti che si danno ai bambini); c'è il quotidiano, una immediatezza che però, come avverte il Traina, è frutto di una consumata arte letteraria, come dimostra anche il centro del carme, con quella enumerazione che è un grande artificio retorico; c'è il gioco e l'irrisione nei confronti della morale, gioco condiviso e complice, come dice quella prima persona plurale; c'è la giovinezza trionfante e la condivisione del momento, c'è la luce e l'ombra, l'oggi felice e l'eterna notte che ci aspetta tutti, in altre parole c'è il carpe diem oraziano, ma prima di Orazio, che viene dopo e forse si ricorda di Catullo, un attimo fuggente che il poeta dipinge e ferma per sempre. E poco importa che questo attimo non sia per sempre, che la Lesbia di Catullo (che si chiamava Clodia, ed era un prototipo di donna moderna e spregiudicata) non sia il massimo della fedeltà e che l'amore sfumi nell'amarezza: «Odio e amo. Ma come, dirai. Non lo so, / sento che avviene e che è la mia tortura» (c. 85). Quello che importa è averlo vissuto.

 

Giacomo Cerrai


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