Un sinistro magico. 171 cm di dinamismo, fantasia e concretezza. 188 gol in serie A, il settimo di tutti i tempi, tre titoli di capocannoniere e nove squadre di club, oltre alla Nazionale di cui ha indossato 28 volte la maglia con 7 reti. Giuseppe Signori, Beppegol, 39 anni, per sempre nei cuori dei tifosi laziali e felsinei, quest’anno si era presentato al raduno dei giocatori senza contratto. Che il campione di Alzano Lombardo avesse ancora voglia di stupire lanciandosi in una nuova stagione calcistica?
«Giocare? No, non più» esclama sorridendo. «L’ho abbandonato come pensiero, non si può bluffare con la carta d’identità». In effetti, il campionato di serie A è iniziato senza il biondo fuoriclasse.
– Beppe, lei ha partecipato ai caldissimi Mondiali USA ‘94. Ha mai perdonato ad Arrigo Sacchi di non averla fatta giocare nella finale contro il Brasile?
«È l’unico rimpianto della mia carriera. Non ce la facevo più a sopportare lo sforzo di giocare da centrocampista: era stato un grandissimo dispendio di energie. Chiesi allora a Sacchi delle sue intenzioni. Rimasi fuori... Oggi come oggi, con l’esperienza acquisita, non lo rifarei più. Una finale mondiale capita una sola volta nella vita: roba da giocare anche in porta. No, non gliene faccio una colpa. Sacchi fece un solo errore, forse: avere completato tutte le sostituzioni prima dei calci di rigore. Io e Zola, due rigoristi, non potemmo entrare».
– Zdenek Zeman, profeta del bel gioco, quanto ha contato nella sua costruzione tecnica?
«È stato fondamentale. Mi ha insegnato i tempi di gioco, come muovermi. Lui aveva indovinato in me la capacità di far gol: il primo giorno che mi vide a Foggia mi salutò con un “Ciao, Bomber”. Eppure non avevo mai fatto più di 5 gol in una singola stagione».
– Che ne pensa della battaglia scatenata da Zeman contro il doping e certi poteri “occulti” del mondo del football?
«Lui è uno che parla poco, mai a sproposito, e, quando lo fa, è perché sa le cose».
– Se non avesse fatto il calciatore, di che cosa si sarebbe occupato?
«Ero perito elettronico e avrei potuto fare il riparatore radio-tv, ma non è che i primi risultati fossero stati esaltanti».
– Il suo idolo di quand’era ragazzo prima di divenire a sua volta un idolo delle folle?
«Ero un amante di Evaristo Beccalossi, uno di quei diecimila che andava allo stadio solo per vederlo giocare».
– Il triste capitolo di Calciopoli...
«Mi sono sorpreso che la gente si sia sorpresa. Però, ecco, non pensavo che la classe arbitrale fosse così coinvolta. Oltre al pensiero amaro che come calciatore ci si poteva fare il mazzo per dare il meglio di sé, mentre altri avevano già deciso tutto».
– In definitiva, che cos’è stato il calcio per lei?
«Una meravigliosa avventura, con tutti i diritti e i doveri di un lavoratore. La possibilità di guadagnare bene. Soprattutto, mi sono divertito e ho fatto divertire: regalare emozioni è stato quanto di più bello mi sia capitato».
Alberto Figliolia