Nanni Svampa è uno dei volti di Milano. Una delle sue voci: forte, antica e mai slegata dalla contemporaneità, colma degli umori della gente, sapida, ironica, feconda; fra disincanto e immediatezza del quotidiano, fra tristezze, sogni e allegrie, fra giochi della fantasia e pragmatismo popolano, specchio della vita. Dall’Antologia della canzone lombarda, opera di straordinaria coralità e suggestione, alla traduzione e interpretazione, in italiano e milanese, di Georges Brassens, dal cabaret alla canzone popolare e umoristica, non si è proprio fatto mancare nulla Nanni, autore, musicista, scrittore, cantante, persino attore. A metà settembre è uscito il suo nuovo album (un doppio), Ma Mì, ricchissimo e imperdibile omaggio alla canzone milanese d’autore dagli anni ‘30 ai ‘70.
– Maestro, qual è oggi lo spazio per la canzone d’autore in lingua milanese, in un’era che pare tendere alla massificazione e all’appiattimento?
«Io mi rivolgo a tutti coloro che vogliono ascoltare, e ci sono anche tanti giovani che desiderano avvicinarsi al patrimonio della canzone e della lingua milanese. Perché dietro tale patrimonio ci sono la tradizione, la cultura e la poesia, e i giovani devono avere il piacere di conoscere tutto ciò, così come conoscono l’inglese. Come autore io ho questa funzione».
– I brani dell’album Ma Mì spalancano universi di nostalgia. Tuttavia lei ama insistere sul concetto di memoria...
«La nostalgia è un inquinante della memoria. Io propongo di ricordare senza cadere in quel genere di nostalgia che ti fa dire... “Era meglio prima”. La canzone del resto è lo strumento più diffuso e familiare per verificare certi momenti e situazioni storiche».
– Dalla solidarietà delle case a ringhiera, dal coeur in man, alla città esclusiva, degli affari e dei danè: un mutamento, quello di Milano, troppo violento, forse?
«L’ha già detto lei. Manca la vita di quartiere. I negozietti, i bar chiudono presto. Qui c’è la vita di una città spopolata: i milanesi sono scappati».
– Lei è nato a Porta Venezia. Ci descrive quel pezzo della sua storia iniziale?
«Ho passato la mia gioventù fra San Babila e Corso Venezia. Passeggiando con gli amici si parlava di filosofia e si aspettava che le riviste passassero al Puccini. Era la Milano in cui si tirava tardi la notte e in cui s’incontravano giornalisti e scrittori. La gente era meno stressata nell’euforia degli anni ‘60 e c’era un modo di vivere per cui si era proiettati in cose, dialoghi, progetti».
– Le è mai servita la laurea in Economia e commercio?
«Ho fatto contento papà. E poi una volta ho messo il Dottore sulla carta intestata!»
– Con Ma Mì si compie un viaggio nella storia sociale e musicale meneghina. Un lavoro altamente filologico...
«Se vuole, antologico. Ho vissuto i suoi autori come amici e colleghi. L’album si divide in tre blocchi: l’anteguerra; le canzoni d’autore, con Fo, Carpi, Strehler, gli anni ‘50; quello che è uscito dai personaggi del cabaret, quando scrivevamo cento canzoni l’anno e quando anche i minori erano molto creativi».
– Perché solo una sua canzone?
«Per falsa modestia».
– Altri suoi programmi?
«Mi piacerebbe realizzare una collana discografica con tutte le mie canzoni in italiano. Canzoni strane e pazze. Oppure canzoni sulle cose che mi hanno fatto ridere dai 2 ai 60 anni».
– Presto si esibirà al Piccolo Teatro nello spettacolo Omaggio a Brassens, autore da lei visitato sempre con passione...
«Un maestro. Il massimo poeta del ‘900. Nella canzone d’autore ha insegnato a tutti, a me, a Gino Paoli, a De André. Sarà un concerto collaudato, compresi i racconti e la lettura di testi poetici».
– L’umorismo ci può aiutare ad affrontare la vita con un sorriso, meglio ancora se accoppiato con la musica?
«Chi diceva che l’umorista è colui che ha il senso tragico della vita? Non me lo ricordo. Ma è vero, anche se il discorso è un po’ più articolato. Di sicuro vivere con un po’ di humour e distacco alleggerisce dal peso dell’esistere».
Alberto Figliolia