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Marco Cipollini: Sconsolatio philosophiae. Su Emanuele Severino
Emanuele Severino
Emanuele Severino 
29 Ottobre 2007
 

Mi ha sempre colpito del grande Severino quel suo viso da luterano con l’emicrania, la sua rugosa pensosità, di persona interiormente indolenzita. Durante un suo intervento televisivo mi venne scritto ex abrupto questo amorevole e umilissimo consiglio:

 

Severino,

austerino,

nomen omen,

prendi un Moment!

 

Di certo il Nostro partecipa emotivamente dei pensieri profondi che va elargendo, e questo gli fa onore. Mi affascina molto il suo argomentare spalancato a prospettive millenarie, il suo diuturno ruminare il “venerando e terribile” Parmenide che, detto per inciso, è con Eraclito uno dei miei idoli filosofici. (Mettere d’accordo Parmenide ed Eraclito è come mandare a braccetto — si perdoni l’accoppiata — don Camillo e Peppone, ma chi l’ha detto che dobbiamo essere logici? Al contrario, solo dalle contraddizioni nascono le idee più vivaci e vitali.) Severino, lo confesso, non mi convince gran che nei suoi sillogismi rovinosi (i sillogismi mi convincono sempre poco), ma ciò è secondario. È racchiuso in me gelosamente, come un cammeo di famiglia, quel suo volto di sfinge parmenidea, graffiato dal sabbioso vento ontologico proveniente dai deserti del Nulla e del Divenire. Caro, grande Severino!

Cacciari, viceversa, mi è simpatico per il motivo opposto. Può esporre qualsiasi argomento — e in effetti, vero panfilosofo, interviene su tutto — ma appare sempre sottilmente distaccato, con un sorriso omeopatico, da Budda che da diciotto mesi non è passato dal barbiere. Istintivamente Severino & Cacciari mi si compongono insieme nella mente come il volto bifronte della filosofia, in un paradigma minimo ma compiuto dell’essere “amanti della sapienza”. Rimane lo scoglio del loro linguaggio quando si porga settario e abissale; specie Cacciari, che tende a paraetimologizzare di continuo, triturando le parole composte. Cacciari non dice banalmente “arrivederci”, ma “a (pausa) ri (pausa marcata) veder (pausa) ci”. Si pensa a un singulto heideggeriano, a quel suo “Esser-ci” che come uno sternuto metafisico ha infettato generazioni di polmoni filosofici; oppure a un messaggio criptico, graalmassonico, tra adepti del Mistero etimo-ontologico. Non per niente Cacciari ha scritto il ponderoso trattato Della cosa ultima, che, lo confesso, mi richiede alquanta fatica e pazienza; lo stesso Giovanni Reale, recensendolo (Il Sole-24 ore, 25/07/04) scrisse: «Il libro è bellissimo, lo stile assai fine, ma difficile, molto difficile: va letto e ri-letto [anche lui non rilegge, ma ri-legge], in certi punti, anche più volte». Ma poi, perché le cose, specie quelle ultime, dovrebbero essere facili? Insomma Cacciari mi garba. Scrive culturosamente, ma è persona franca e simpatica, socialmente vispa in quanto sindaco nella sua città e tante altre cose. Anch’egli, mi auguro, apprezzerà il mio ruvido ma affettuoso dono poetico.

 

* * *

 

Ditirambo per un filosofo

diuturnamente

pensoso

 

      Dài, Severino,  fa’ un sorrisino…

  Siamo all’omega?  Chi se ne frega!

 L’Essere è niente?  Che divertente!

Lascia che il Nulla  crepi lì in culla.

        Il Divenire  ti fa stizzire?

E perché mai?  Eppure sai

  che mangia il saggio  pane e formaggio,

  va al gabinetto,  tira il calcetto

seguendo a ruota  l’ultimo idiota.

   Sempre pensoso  tu sei, rugoso,

          ma se credessi  tu ai tuoi indefessi

       libri indigesti,  t’impiccheresti

al cesso, oplà,  di facoltà,

      e ogni qualvolta  che ti si ascolta

      tu pure i crampi  avresti, e campi

  (dico una prece)  benino invece

                  filosofando.  Di quando in quando

         sei famosetto,  anzi, un divetto

    che, col cosmetico,  un poco amletico

       sfonda in tivvù  tra un bel ragù

  e un dentifricio,  a beneficio

             delle mediatiche  masse magmatiche,

      e se il nefando  telecomando

          sùbito salta  canale, l’alta

        tua effigie resta  a tutti in testa.

             Presto nell’Isola  (per chi non pisola)

         tu dei famosi,  nudi e formosi,

                di’, ti vedremo?  Forse a… San Remo?!

         Oh, canteresti  con occhi mesti

      “l’Essere straziami,  di Nulla saziami”,

          con la platea  che se ne bea.

   Su, non ti offendere,  oltre non rendere

       il tuo pietroso  viso rugoso…

       Piantala, caro,  di fare il raro:

      sei il quotidiano  quieto italiano

      che mangia tutta  la pastasciutta,

      che fa, accigliato,  l’uomo indignato

  e poi in poltrona  la partitona

         si vede ed urla...  Tutto è una burla.

      Prendila, via,  con allegria:

      l’ultima spiaggia  e la più saggia

 che mai ci sia  filosofia.

         Orsù, balliamo,  festa facciamo,

      lieta compagine,  sulla voragine,

         e se nel Niente  cadremo, niente

     potrà accaderci.  È meglio berci!

      Siamo all’omega?  Chi se ne frega!

    L’Essere è niente?  Che divertente!

    Lascia che il Nulla  crepi lì in culla.

           Il Divenire  ti fa stizzire?

     Lascia che venga  e poi si spenga,

          tanto i discorsi  non dànno morsi.

 Con questa gramola,  orsù, finiamola.

      Fa’ un sorrisino,  dài, Severino!

 

 

Ed ecco l’altra anta del dittico, dipinta soprattutto per non far ingelosire Cacciari, perché anche i filosofi hanno di queste debolezze umane. Sì! Nonostante le apparenze, i filosofi sono esseri umani, talvolta anche “troppo umani”.

 

Ode a un filosofo che la sa

molto, molto

lunga

 

Quanto, o barbuto Massimo, sei colto!

Il tuo eloquio vien giù arguto e sciolto

e pure a me, quanto di più ti ascolto,

diviene il volto molto, molto folto.

Nel filosofo è effetto consueto?

 

Il tuo sorriso eletto e misterioso

mi t’assomiglia a un Giocondo peloso,

che al posto dello sfondo montagnoso

ha un abisso di chiacchiere nebbioso,

che non si sa se è tragico o faceto.

 

È il sorriso di chi tutto ha veduto,

di chi tutto ha sofferto ed ha goduto,

dell’uom che non fu fatto a viver bruto

in un mondo che del Nulla è l’imbuto:

sorriso di uno spirito repleto.

 

O ispirata Sibilla lagunare,

dunque etimologizza cosa fare

all’animaccia nostra in acque amare,

ma, per favore, con parole chiare:

non lo distilli il tuo arcano alfabeto!

 

Non ti chiediamo chi votare (triste

oracolo) o (banale) se Dio esiste,

ma l’enigma che oscuro più resiste:

diccelo, il tuo vangelo in che consiste?

Per non sentirci fave sott’aceto.

 

(Avrei voluto metterci sott’aceto “carciofi”, ma il barattolo metrico non lo consentiva. E poi si sa quanto le fave fossero malviste dai pitagorici… Dato l’ambiente, valgono meno dei carciofi.) Segue una riflessioncina terra terra — o, se si preferisce, tellus tellus — sulla filosofia negli ultimi duemilacinquecento anni, e scusate se è poco.

 

* * *

 

I greci antichi, siccome erano antichi, comprendevano bene l’essere-uomo, cioè lo vedevano nella sua interezza d’anima e di corpo. La loro filosofia, la madre di tutte le filosofie, considerata in una prospettiva esistenziale fu un sottoprodotto verbale di crapule e sbornie, di orge con puttane e pederasti: è un dato storico. E poi si parla di amor platonico! Seguì Aristotele, professorale e raziocinante, e sciupò tutto: prese l’uomo e lo divise, ne conservò il cervello sott’olio e buttò ai cani il resto. Il suo fare accademico non riuscì ovviamente a educare quel macedone brutale e alcolizzato che poi fece fuori circa un milione di bipedi — del resto erano mortali — appartenenti oltretutto a barbari orizzonti. (Qualcuno sparse la voce che fosse stato lo stesso Stagirita a organizzare il velenifero complotto che sbabilonò l’ex allievo: sarebbe stato l’unico suo atto veramente morale, benché ritardatario.) Di poi Epicuro, reclusosi con i suoi seguaci in un giardino, promosse un movimento igienico per il corpo e per la mente, per niente epicureo, e chiamò questo ritrovino da casa di riposo, serenità. Contenti loro. Di scalino in scalino, cinici scettici stoici — saltiamone a piè pari il più possibile, per non intristire — si arriva a Seneca, severo e impettito Maestro, che ci fa perdonare certi atteggiamenti ribellistici e rockettari di Nerone (cfr. il fallimento pedagogico di Aristotele con Megalexandros). E poi venne sant’Agostino (adoro le sue voraginose Confessioni, la madre di tutta la romanzeria introspettiva!), e poi, su su, i filosofi del XII e XIII sec., forse l’età aurea della filosofia, e poi il pienone teologico con San Tommaso, che già di per sé era un omone bello grosso, e poi un’altra bella mandata con il Rinascimento, tutti spiriti briosi, gente piena di vita, e poi, e poi tutti gli altri — si entra nella meditabonda e afflitta area germanica — fino al celibatario Kant con le sue ragioni più o meno impure e comunque poco pratiche, con le sue passeggiatine rimetti-orologio, e poi giù, giù, fino al pallosissimo, ma veramente pallosissimo Hegel, e ancora più giù, fino ai terrificanti Idealisti tedeschi. I tedeschi: “amanti della sapienza”, loro?! Basta, è una sfilza di nomi che t’infilza, fa venir la depressione. Nominarli? Vogliamo suicidarci? Ma non si può non rammentare Nietzsche, nome-sternuto, che finì col baciare l’equino. (Ma poveraccio! Come si fa ad avere un gruppo-groppo consonantico simile nel cognome e a non avere problemi psichici?) Ed ecco la ciliegina sulla indigestissima torta teutonica: Heidegger. Il non plus ultra, nazismo compreso. I tedeschi se lo sono meritato. E poi tutta quella sua repulsione funeraria per il mondo della tecnica non la capisco… Sarà che in Italia di tecnico non funziona mai nulla: treni, elettricità, strade, acquedotti, ospedali, telefoni, traffico, scuola… Ne vorremmo anche pochina, ma efficiente. E poi come mugolone ci basta e avanza Ceronetti.

 

* * *

 

Comunque sia, il secolo XX, che ha visto la finis Europae, ha vissuto la più craniosa emicrania della plurimillenaria storia della filosofia. La quale, sbocciata considerando l’uomo nella sua integrità corporea e spirituale, si è specializzata (cioè fatta a pezzi) in mille rivoli e rivoletti che non sboccano in alcun Fiume Unificante, che non sfocia in alcun Mare della Verità. È una palude quietamente burocratica ove ogni filosofo ha piazzato il proprio “cesto” per il tiro all’anatra, a cui sparacchia di continuo: sempre quella, senza mai beccarla. La dicono una “pura teoresi”, ovvero una purèe di teorie fatta di lezioni accademiche, di convegni “tra di loro”, di pubblicazioni spesso illeggibili e difatti non mai da alcuno lette, concepite per la carriera. Il filosofo di professione, esteriormente sempre pensoso, se non tormentato, fa l’opposto del suo antenato classico, che sapeva campare saggiamente, ossia anche allegramente (vedi quegli sporcaccioni nei vasi attici). Il filosofo, in sostanza, è ormai un impiegato di concetto al suo massimo scalino gerarchico, con la prerogativa di essere apostrofato Maestro. Maestro di che? Della verità? Quid est veritas? “Maestro del dubbio, figliolo,” ci sorriderebbe lui carezzandoci in capo. Grazie tante, ne ho già tanti dei miei senza bisogno di sorbirne altri! E a che pro? Ma che fine ha fatto la filosofia, quella vera, con le passeggiate lungo l’Ilisso e i dolci conversari all’ombra di un platano? Quella sì che era amore della sapienza, anzi, della saggezza! Dov’è più la sua “terribile meraviglia”? Ma oggi chi si meraviglia più di niente? Francamente, né la faccia di Severino né quella di Cacciari sembrano di quelle disponibili alla Meraviglia. Senilità della filosofia? Ma no.

Si badi che la filosofia, nell’accezione più pedestre, in realtà c’è sempre stata, vigorosa e viva, e penso che sempre ci sarà. In fondo l’erede umile ma sincero del filosofo antico, “amante della saggezza”, è forse il brav’uomo comune, che tacitamente “se la prende con filosofia” di fronte a tutti gl’inciampi della vita: vera, vissuta filosofia morale. E resta il fatto che la filosofia, come riflessione sulla vita — o, se vogliamo usare la parola forte, sull’Essere — ha preso in ogni tempo le viuzze secondarie, i suoi sentieri nascosti. Si è infrattata così nei proverbi, nella poesia, nella narrativa, nelle feste popolari, nelle arti, nella musica; si è fatta insomma vita vivente. Prendete la nostra tradizione culturale alta. Dante e Cavalcanti. Prendete, per es., soltanto quei due celebri sonetti, Tanto gentile e tanto onesta pare, e la sua (almeno idealmente) ironica risposta, Chi è questa che vèn, ch’ogn’om la mira; nel primo c’è la presenza dell’Essere, la sua epifania gaudiosa, e nell’altro l’Essere come soave e malinconica apparenza, ipostasi del Nulla. Prendete il laurenziano «quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia, / chi vuol esser lieto sia, / di doman non c’è certezza». Era cantato durante le sfilate dei carri allegorici, per carnevale; ma ciò non lo svaluta; anzi, lo rende ancora più “greco”, cioè vissuto, e quanta energia affettiva e mentale è in quel “vuole” e in quel “sia”. Lorenzo, vero filosofo, indica il male e il rimedio. E prendete Leopardi. Prendete certo Montale. O certo Betocchi. Bisogna considerare che nella poesia la riflessione sull’Essere non è declinata secondo un’ottica dualistica (vero/falso), bensì secondo una propria logica che consiste in una complexio oppositorum, con un proprio liguaggio simbolico e metaforico (cfr. Erba d’Arno, n. 106, pp. 25-30, o su Tellusfolio, Decalogo di poesia).

 

* * *

 

Da quanto precede non si creda che il sottoscritto topastro di biblioteca, modestissimo rosicchiatore di libroni filosofici, vede nel nostro panorama accademico solo un piattume burocratico; anzi!, vi spiccano Maestri di prim’ordine, e Severino e Cacciari — i quali (spero) sorrideranno (anche Severino) della mia ironia affettuosa — ne sono esempi preclari. Permane però quel senso di distacco per un linguaggio e una concettualizzazione che, da troppo tempo ormai, si son fatti troppo cerebrali, claustrali, quasi gergali, avvitati su sé stessi. Mi si ribatterà che, no, oggi hanno messo radice dei festival di filosofia affollatissimi dal pubblico. Ne stragodo. Ma si noti che il pubblico vi partecipa solo a patto che la filosofia si faccia spettacolo; dubito assaissimo che i medesimi spettatori si leggano, poi, i testi ultraspecialistici dei medesimi filosofi applauditi sul palco. Se la strada è questa, della volgarizzazione, l’inizio è promettente. Ma lasciatemi dubitare, un pochinino.

E vorrei spezzare una lancia a favore di un filosofo defunto, misconosciuto, il cui interesse per la metafisica lo emarginò completamente dagli studi e dall’interessamento generali. Si tratta di Carmelo Ottaviano; e prima che qualcuno si chieda subsorridente “chi era costui”, lo invito a leggersi il suo (ovviamente ponderoso) trattato Metafisica dell’essere parziale, Cedam, Padova 1942. A meno di non fare la figura dello sciocco superficiale come Riccardo Chiaberge, che su Il Sole-24 ore del 14/01/07, a proposito dei troppi centenari festeggiati ironizzò: «O il centesimo genetliaco di Carmelo Ottaviano, indimenticabile maître à penser di Modica?» Esattamente “indimenticabile maître à penser”, o dimenticabilissimo rubricista a piè di pagina; che cosa hai letto di lui per permetterti di sfotterlo? Scribivendolo ebdomadario! Per quanto poco possa valere la mia meschina testimonianza, affermo di aver letto pochissime volte qualcosa di parimenti approfondito e — credo si possa usare la parola — originale sull’Essere e sul Divenire. Penso che la filosofia italiana, e non solo essa, non dovrebbe ricusare questa lettura. (E tu, Severino, fa’ un sorrisino!)

 

Marco Cipollini

 

www.webalice.it/marcocipollini


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