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La giustizia nel paese di Alice  
Le cifre del carcere. La denuncia di don Ciotti. Arrestati non convalidati. L’odissea di Gamal e degli altri. Barillà da leggere
'L'uomo sbagliato' nella fiction che Raiuno dedica all'assurda vicenda di Daniele Barillà 
06 Dicembre 2005
 

Record di detenuti nelle carceri italiane. Negli ultimi dieci anni mai così sovraffollate. Nei 207 istituti di pena si è arrivati, secondo gli ultimi dati forniti dal Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (DAP) a 59.649 detenuti. In sei regioni è stato superato il limite tollerabile. In Campania i detenuti sono 7.356, a fronte di una “tollerabilità” di 6.763. In Friuli Venezia Giulia, dietro le sbarre ci sono 854 persone, contro un limite di 800. In Lombardia sono 8.746 (il limite “tollerabile” è di 8.446). In Toscana i detenuti sono 4.040 (3.943, il “limite”). In Trentino Alto Adige 416 (a fronte di una tollerabilità di 318). In Veneto i detenuti sono 2.696.

In generale, per ogni tre posti letto disponibili, vi sono quattro detenuti presenti. Per gli ospedali psichiatrici giudiziari la situazione più grave è quella di Reggio Emilia: 140 posti disponibili, e 194 detenuti presenti, con un indice di affollamento in generale del 138,57 per cento. Tra i 190 istituti che ospitano sezioni maschili, 143 sono sovraffollati. Vivono in pratica, in condizioni non regolamentari – cioè fuorilegge – 47.320 detenuti su 53.780.

In quindici istituti il sovraffollamento è superiore, percentualmente, del 200 per cento: cioè per ogni posto disponibile ci sono due detenuti. Nel carcere siciliano di Ristretta si tocca il picco massimo di sovraffollamento con un indice del 281,25 per cento, seguito da Busto Arsizio, con il 250 per cento. Seguono Rovereto (240 per cento); Varese (235 per cento); Firenze (234 per cento); Rovigo (231 per cento); Bergamo (227 per cento); Treviso (224 per cento). E ancora: Padova (220 per cento), Sondrio (214 per cento), Bari (214 per cento); Taranto (212 per cento); Latina (208 per cento); Brescia (207 per cento); Pistoia (204 per cento).

La situazione non cambia di molto se si guarda ai penitenziari femminili: su un totale di 2.843 detenute, 1.523 vivono in condizioni non regolamentari. In due istituti il sovraffollamento è superiore al 200 per cento, cioè per ogni posto disponibile ci sono due detenute. Si tratta degli istituti penitenziari di Forlì (240 per cento) e Vercelli (219 per cento).

La situazione, già grave – e, come si è detto, “fuorilegge” – è ulteriormente aggravata dalle condizioni di salute dei detenuti. Qui si raggiunge il collasso. Tra le malattie più diffuse in cella l’AIDS (il 30 per cento dei detenuti italiani è affetto dal virus dell’HIV); in aumento anche il fenomeno della tossicodipendenza: sono 15.558, il 27,7 per cento, i “tossici” che affollano le carceri italiane.

Meno diffuso invece il fenomeno dell’alcolismo, che coinvolge il 2,4 per cento, circa 1.335 detenuti. Poco più di mille detenuti sono anche malati di varicella, malattia che la scorsa estate ha colpito in diverse carceri. Dall’inizio dell’anno, poi, ci sono stati una trentina di suicidi in carcere.

Il 36 per cento dei detenuti in Italia è in attesa di giudizio. Il 57,6 per cento di loro sono imputati giudicabili, il 29,8 per cento “appellanti”, il 12,6 per cento ricorrenti.

Poco più di un terzo i detenuti stranieri: 17.783, cioè il 31,5 per cento del totale. Il numero più consistente, 4.015, è di nazionalità marocchina; a seguire gli albanesi (4.015), i tunisini (1.953); i rumeni (1.367); e gli algerini (1.289).


LA DENUNCIA DI DON LUIGI CIOTTI

«Nelle carceri italiane, secondo le stime dell’associazione medici penitenziari, ci sarebbero cinquemila detenuti malati di AIDS, che non dovrebbero essere in cella». È la denuncia di don Luigi Ciotti, presidente del Gruppo Abele. «Chi nelle carceri è ammalato è due volte detenuto», dice Ciotti, spiegando che il dato fornito dall’Associazione Medici Penitenziari è una proiezione sulla base dei test che vengono effettuati. Entrando in un carcere, si sottopone al test dell’HIV solo il 33 per cento dei detenuti. Di questi, nel 2005 sono risultati positivi in 2.038. «Facendo le debite proporzioni sarebbero cinquemila quelli che sono rinchiusi in carcere. In Italia spesso il diritto di pena prevarica il diritto di salute. Esiste anche il problema dei detenuti extracomunitari malati di AIDS, che iniziano le terapie durante il periodo di detenzione e poi, se vengono espulsi dall’Italia, non possono continuare le cure nel loro paese».


CREMONA: DA SETTE MESI DIECI INDIANI ATTENDONO CONVALIDA ARRESTO

Dal giugno scorso dieci indiani coinvolti in una maxirissa avvenuta a Bordolano, attendono che i giudici di Cremona possano convalidare il loro arresto avvenuto nella notte tra il 26 e il 27 di giugno. Nove di loro erano finiti in carcere. Uno nel reparto di neurologia per le lesioni riportate nel corso degli incidenti. Arrestati e condotti in carcere dal giorno dell’arresto, per una serie di problemi “tecnici” si sono visti rinviare l’udienza di convalida dell’arresto. Se ne parlerà – se non ci saranno altri “problemi” – il 26 gennaio prossimo.


DIECI MESI DI CARCERE PER UN ERRORE

Quasi dieci mesi di carcere tra Italia e Regno Unito, e poi assolto. Questa la disavventura giudiziaria in cui è incappato Francesco Bruno, un camionista di 52 anni che lavorava per un’azienda di Arcore per conto della quale ha fatto numerosi trasporti di merce in Inghilterra: da Londra a Manchester, fino a Birmingham. Il 18 gennaio scorso l’uomo fu prelevato dai carabinieri nella sua abitazione e portato in carcere sulla base di un provvedimento emesso dall’autorità giudiziaria inglese, nel quale lo si accusava di associazione per delinquere finalizzato al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Qualche tempo prima un altro camionista era stato arrestato per aver aiutato tre albanesi accusati di omicidio a lasciare l’Inghilterra. Malgrado avesse sempre respinto il coinvolgimento, Bruno fu portato, dopo l’accoglimento da parte della Corte d’Appello di Milano della richiesta di estradizione, in Gran Bretagna e chiuso nel carcere di Wanswort, dove gli sarebbe stato consigliato di confessare la sua colpa. «Io non l’ho mai fatto», dice Bruno, «perché non c’entravo nulla con quegli episodi». Dopo essersi visto respingere una istanza di libertà provvisoria, l’uomo è stato processato il 14 ottobre e assolto con formula piena. Dopo la lettura del dispositivo Bruno è stato prelevato dall’aula e senza passare dal carcere per prelevare i suoi documenti e le sue cose personali, venne condotto al centro della città e liberato, vestito da detenuto e senza un soldo in tasca. Per fortuna l’uomo è riuscito a mettersi in contatto con un fratello che abita a Londra e che lo ha raggiunto, portandolo al consolato italiano. Lì finalmente ha potuto avere un vestito normale ed è potuto rientrare in Italia. «Ora sono qui, senza lavoro perché in seguito a quelle storie sono stato licenziato».


GAMMAL E GLI ALTRI: ODISSEA DA SOLITI SOSPETTI

Autunno 2002. Tre egiziani, vengono arrestati ad Anzio, con l’accusa di far parte di una cellula affiliata ad al Qaeda. Seguono diciassette mesi di carcere. Tre gradi di giudizio. Sentenza: assoluzione definitiva. Ma quello che emerge in aula è inaspettato e inquietante. Qualcuno ha cercato di incastrare quei tre egiziani che nulla hanno a che vedere con l’estremismo islamico?

La storia. Gli imputati sono due pescatori, El Gammal e El Zahed, e un ambulante, Shalabej. Tutti con regolare permesso di soggiorno in Italia da molti anni e con famiglia in Egitto. I loro guai con le forze dell’ordine cominciano nell’ottobre del 2001, un anno prima dell’arresto, quando la segnalazione di una fonte confidenziale spinge i carabinieri a perquisire la loro casa, in cerca di armi o esplosivo. Non ne trovano. Ma ci sono tre videocassette con sermoni religiosi in arabo critici verso Occidente e Israele. Niente di eversivo, ma com’è che umili immigrati leggono scritti così impegnati? Non importa che abbiamo un diploma superiore; per uno di loro, El Gammal, ritenuto il più sospetto, scatta un grave capo di imputazione: «Atti mirati a esporre lo Stato italiano a incidenti diplomatici e al pericolo di una guerra con Israele». I tre sono costretti dai vicini a cercarsi un’altra casa ad Anzio. Ma gli elementi a carico di El Gammal sono fragili. L’unica certezza è che è un musulmano osservante e frequenta con assiduità la moschea. L’imputazione viene archiviata. I carabinieri non mollano, e scoprono la nuova casa dove i tre vivono. La cosa per alcuni mesi non ha seguito. Poi però nuovamente la fonte confidenziale segnala tre possibili indirizzi di covi arabi sospetti. Uno dei tre, quando si dice il caso, è l’indirizzo di El Gammal. Nuova perquisizione. Nell’intercapedine tra scaldabagno e soffitto si scoprono una pistola e sette panetti di tritolo. Scatta l’arresto. I tre negano tutto. Segue un anno e mezzo di carcere preventivo. Poi il processo. La difesa dimostra che quel materiale potrebbe essere stato messo da altri, da un precedente inquilino o da qualcuno che si è introdotto furtivamente nell’appartamento. La dimostrazione viene fornita dallo stesso avvocato difensore, che penetra dalla finestra dell’appartamento e riesce a provare come sia facile farlo. I testimoni inoltre cadono in numerose contraddizioni. Finalmente la svolta. El Gammal rivela di essere stato avvicinato dai carabinieri che gli avevano proposto di diventare un loro informatore e confidente, raccontando loro cosa avveniva all’interno della moschea. El Gammal aveva però rifiutato. I carabinieri naturalmente negano e la loro parola pesa di più di quella di un extracomunitario. Però El Gammal aveva confidato quelle pressioni ai suoi due amici, che lo avevano seguito a distanza mentre si incontrava con i carabinieri. Si scopre che assieme ai carabinieri c’era anche un pezzo grosso della polizia, che ascoltato dal tribunale a porte chiuse, conferma la versione fornita dall’egiziano. I tre vengono assolti in Assise. Condannati a cinque anni in Appello, ma solo per la detenzione di esplosivo, non per il reato di terrorismo. La Cassazione assolve definitivamente.


BARILLÀ, L’ODISSEA DI UN UOMO SBAGLIATO

Per farsi incastrare, Daniele Barillà aveva «scelto in periodo peggiore: era il 1992, stava scoppiando Tangentopoli, e di una storia di trafficanti di droga, i tribunali non sapevano che cosa farsene. Così la giustizia imboccò la scorciatoia, che finì con il portare un innocente in carcere. Una tomba da cui Barillà sarebbe uscito soltanto sette anni e mezzo dopo, con un’azienda fallita, un padre morto di crepacuore, una fidanzata scappata». La drammatica storia di Barillà è diventata un libro, L’uomo sbagliato (Albatros-RAI Eri, euro 14).

La storia. È la vigilia di San Valentino, siamo a Nova Milanese, quartiere dormitorio alla periferia di Milano. La sera è umida e fredda. Barillà sale su una Tipo amaranto per andare dalla fidanzata. Non lo sa ancora, ma sta firmando la sua condanna. Quella sera stessa, infatti, la polizia conduce un’operazione contro una banda di trafficanti. Uno di loro, un “pesce” piccolo, ha una Tipo amaranto. Una quantità le automobili pedinate; poi un cambio di strada di troppo, gli investigatori perdono di vista per qualche minuto, il pedinato; così Barillà si trova al centro di questa incredibile vicenda. Barillà è un piccolo imprenditore, con una condanna per traffico di stupefacenti. Poca roba, ma sufficiente per farne un sospetto ideale. Arrestato, l’allora Italo Ghitti, all’epoca magistrato del pool di Mani Pulite, convalida la detenzione scrivendo che quell’arresto «non casuale, ma frutto di specifici precedenti accordi la presenza di Barillà e la funzione svolta dallo stesso».

Solo dopo sette anni viene fuori che è stato tutto un drammatico errore. Sette anni di indizi trascurati, alibi ignorati, testimonianze a favore snobbate; era sufficiente controllare le targhe: quella dell’automobile del vero spacciatore era diversa da quella di Barillà. Ma nessuno ci ha pensato, ci ha fatto caso. Alla fine però l’ostinazione di Barillà e dei suoi difensori viene premiata, e finalmente si riconosce che l’uomo è stato ficcato dentro a forza in una storia di cui nulla sapeva, a colpi di “pressappoco”. Viene liberato, ancora non ha ricevuto tutto il miliardario rimborso che lo Stato gli ha riconosciuto e gli deve. Sono passati solo tredici anni.


Gualtiero Vecellio

(da Notizie Radicali, 5 dicembre 2005)


Foto allegate

Daniele Barillà
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