«Per evitare la Terza Guerra Mondiale bisogna impedire all’Iran di avere l’atomica». Comincia con questa frase di George W. Bush, la cronaca di Maurizio Molinari su La Stampa: “racconto” di un Bush preoccupato e inquieto dopo aver visto «campeggiare sui quotidiani le foto del sorridente Vladimir Putin a Teheran, vicino a Mahmud Ahmadinejad. All’abbraccio fra i presidenti di Russia e Iran unito al monito del Cremlino contro l’uso della forza, Bush risponde alla sua maniera, va al contrattacco…». E ancora: «L’inquilino della Casa Bianca vuole far capire al leader russo – ed anche ad Ahmadinejad – che l’America non consentirà mai all’Iran di coronare la corsa all’atomo. Di qui la scelta di un’inedita terminologia: “In Iran c’è un leader che vuole distruggere Israele, per questo ho detto che se si è interessati ad evitare una Terza Guerra Mondiale bisogna voler prevenire la possibilità che l’Iran abbia la conoscenza necessaria per realizzare la bomba”». Molinari ha poi cura di ricordare un episodio recente che ha una sua importanza e significato: «Ad avvalorare la linea cura c’è anche la decisione del presidente di continuare ad opporre un no comment alle domande sul blitz israeliano in Siria, ritenuto da molti una prova generale di cosa potrebbe avvenire con l’Iran…».
Dall’analitico e distaccato Molinari a Vittorio Zucconi di Repubblica. Zucconi, che non ha mai nascosto la sua ostilità nei confronti di Bush, ed è certamente più passionale, riferendosi anche lui alla conferenza stampa di Bush la mette così: «È stata tutta un tentativo ansimante di sbracciarsi a tamponare le falle che si stanno aprendo a est e a ovest, sui fronti asiatici e mediorientali, tra i quali l’agonia dell’Irak e le fanfaronate di ‘vittoria su al Qaeda’ passano inosservati. Per ormai cinque anni, la Turchia ha portato pazienza, dopo aver rifiutato di prestarsi ad essere la rampa di lancio per l’invasione dell’Irak, avendo intuito subito quali conseguenze per se stessa avrebbe avuto la decomposizione del paese vicino. I suoi militari, chiave di volta dello stato e barriera contro l’islamizzazione del paese, hanno finto di ignorare la crescita ai propri confini di un nuovo stato, di fatto un Kurdistan autonomo e protetto proprio dagli Stati Uniti, divenuto il faro di quel popolo curdo che da generazioni nutre il sogno della ribellione e di una propria entità statale attraverso il sogno della ribellione e di una propria entità statale attraverso almeno tre nazioni limitrofe».
Ora è opportuno leggere Franco Venturini sul Corriere della Sera: la conferenza stampa di Bush è la conferma di una rotta di collisione tra Washington e Mosca, «avvicina ulteriormente la prospettiva di un attacco USA contro le centrali iraniane…». Bush drammatizza al massimo la crisi iraniana «fino al punto di precostituire una giustificazione assoluta per l’ancora ipotetico attacco: facendo una guerra circoscritta, si sarà evitata una guerra generale». Bush, scrive ancora Venturini, sottintende «che non è il momento di giocare col fuoco perché il fuoco vero è dietro l’angolo. E si chiama Iran, Ahmadinejad, armi nucleari. Usando le parole come una mazza da baseball, il presidente americano vuole mettere tutti al cospetto di elementi che rendono unica la crisi iraniana, per esempio rispetto a quella nord-coreana».
Venturini ricorda un paio di punti imprescindibili. Il primo è la sicurezza di Israele: «Il sorgere di un’altra potenza nucleare nella regione sarebbe comunque vista come una sfida da Gerusalemme. Ma se alla testa di questa aspirante potenza c’è un presidente che vorrebbe trasferire lo Stato ebraico in Alaska e che non riconosce l’Olocausto, allora il pericolo è tale da fare scattare la clausola di garanzia che ha sempre legato Israele all’America. E nemmeno gli europei possono guardare dall’altra parte, con il fardello storico che si portano sulle spalle».
Il secondo punto messo in evidenza da Venturini è costituito dalla proliferazione incontrollata: «Un Iran con la bomba indurrebbe le monarchie sunnite del Golfo a imitarlo per coprirsi le spalle, e il via libera varrebbe anche per altri, forse l’Egitto, forse la Siria, forse la Turchia. Nessuno potrebbe più frenare la diffusione degli armamenti nucleari, né impedire che finiscano in mano a organizzazioni terroristiche. Senza voler sottoscrivere il calcolato allarmismo di Bush, è chiaro che la minaccia di guerra – e di guerra nucleare – crescerebbe».
Tra le poche certezze che si possono coltivare, c’è quella che una guerra circoscritta oggi possa evitare una guerra generale domani. Per quanto articolato possa essere il piano di attacco aereo predisposto dal Pentagono o dai generali israeliani, con bombe di profondità per smantellare le istallazioni nucleari diffuse nel territorio iraniano, non riuscirà certamente ad annullare le prevedibili e inevitabili rappresaglie: hezbollah ed Hamas entrerebbero subito in azione in Israele; i pasdaran bloccherebbero immediatamente lo stretto di Hormuz, verrebbero subito bombardati i pozzi petroliferi, lanciati missili Shalab3, colpiti Israele, le basi americane nel Golfo Persico, i paesi arabi cosiddetti “moderati”. Sarebbe la logica, inevitabile conclusione di un sonno della ragione che dura da qualche decennio.
Ma torniamo a Molinari (Stampa), Zucconi (Repubblica), Venturini (Corriere della Sera). I tre maggiori quotidiani, attraverso tre dei loro analisti di punta, affrontano la questione mettendo giustamente in relazione Iran, Israele, Turchia. Tra “facce”, appunto di una stessa questione. Il problema, dopo la “descrizione” che si ricava dai tre “racconti” (ci si limita a tre, per comodità, ma ce ne sono e ce ne saranno molti altri), è che si ha un’eccellente affresco della situazione: che nei termini in cui viene offerto, appare disperante. La “soluzione” Bush è terrificante. Ce ne sono altre? Almeno un’altra sì – anche se non viene “raccontata” – ed è quella che per comodità si può riassumere in “Israele e Turchia nell’Unione europea”. È l’unica “utopia” pragmatica su cui conviene lavorare, che in prospettiva può portare pace in una parte di mondo da sempre tormentata e che vive sotto grave minaccia. È l’unica proposta che può costituire l’antidoto per scongiurare la “fine di Israele” e gli scenari evocati da Bush. La proposta di Marco Pannella. Ancora una volta la “follia” radicale si rivela la cosa più ragionevole e opportuna.
E qui conviene sgombrare fraintendimenti certamente provocati da un’affrettata esposizione, un aver dato per scontato qualcosa che evidentemente non lo è. Già su N.R. del 15 ottobre avevo trattato la questione; e una frase («Questa volta non c’è ancora un equivalente di Irak libero, e bisognerà trovarlo con una certa urgenza») ha portato a un equivoco. Nel dire che ancora non c’è un equivalente di Irak libero non si intendeva e non si intende negare che la proposta “Israele e Turchia nell’Ue” (vado a colpi d’accetta: è chiaro che Israele e Turchia nella Ue non sono solo Israle e Turchia nella Ue), sia e possa essere l’equivalente di Irak libero. Si voleva e si vuole dire che la proposta ancora non ha assunto quel valore di consapevolezza, non è stata assimilata neppure tra i più avveduti, come fu a suo tempo “Irak libero”. Può benissimo essere una valutazione, un’impressione sbagliata, non corrispondente alla realtà. Anche “Irak libero” non è riuscita a essere dibattuta come meritava, a creare quel tipo di mobilitazione che avrebbe potuto assicurarne il successo; c’era comunque una “tensione” (non so trovare altro termine) che occorre recuperare e ricreare, viste le accelerazioni di queste ore e giorni. È la mancanza di questa “tensione” che appunto fa dire che ancora non c’è un “equivalente di Irak libero”.
Per ora annotiamo che neppure il commentatore o l’analista più attento, occupandosi di quanto sta accadendo tra Washington, Gerusalemme, Teheran, Mosca, prende in considerazione la proposta di Marco Pannella e dei radicali. Chi dovrebbe e potrebbe aiutarci a conoscere, forse lui per primo ignora, va informato; ed è, tra le molte, anche questa cosa che si dovrà cercare di colmare e risolvere.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 18 ottobre 2007)