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Maria G. Di Rienzo. Notizie d'ottobre
18 Ottobre 2007
 

«Afflitta da dittatori e lacchè, da sparatorie e pestaggi, la mia testa è insanguinata, ma non china». È il testo di un volantino che sta circolando in questi giorni in Birmania. Per chi crede che la protesta nel paese sia rientrata con la repressione (che sta continuando), ecco alcuni fatti. Il 5 ottobre un messaggio è stato affisso all'entrata della pagoda Mae Lamu a Rangoon. Il testo recitava: «Persino io, il signore Buddha, sono agli arresti domiciliari». Tre giorni dopo, l'8 ottobre, sessanta palloni aerostatici, ognuno carico di manifestini, sono volati nel cielo birmano dal distretto di Thingangyun. I palloni erano tutti dipinti con il volto del generale Than Shwe e la parola «macellaio». Lo stesso giorno, hanno scioperato contro la repressione più di 800 lavoratori di una fabbrica di indumenti a Rangoon. E sempre lo stesso giorno la Federazione birmana degli studenti ha diffuso un comunicato in cui si dichiara tra l'altro: «Riaffermiamo con chiarezza il nostro impegno a continuare a lavorare verso lo scopo (la fine del regime - nda) per cui le nostre sorelle e i nostri fratelli sono caduti... La nostra associazione rafforzerà e renderà più solidi i legami con tutte le organizzazioni studentesche, di modo da formare un fronte comune».

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Lotte nonviolente sono in corso anche in Congo, dove le donne si oppongono ad un crescendo allucinante di violenze sessuali (27.000 stupri, lo scorso anno, solo nella provincia di Kivu). Lo studio del gruppo Safer (acronimo per “Aiuto sociale per l'eliminazione dello stupro”), reso pubblico la scorsa settimana, testimonia che «ogni donna viene violata da una media di 2,8 uomini. In altre parole, dietro ad ogni sopravvissuta allo stupro ci sono tre uomini impuniti». Justine Masika Bihamba, quarantaduenne, è una delle difensore dei diritti umani delle donne che sta tentando disperatamente di portare alla consapevolezza internazionale quel che sta accadendo in Congo: «Non è solo violenza sessuale, è tortura. Le donne vengono assalite con oggetti affilati allo scopo di mutilarle: coltelli, baionette, rasoi, schegge di legno. Le ferite sono così gravi che organi riproduttivi, vesciche e intestini vengono distrutti. Spesso gli aggressori continuano a mutilare le donne dopo averle uccise».

Chi sopravvive ha scarse speranze di ricevere aiuto, in un paese in cui le strutture sanitarie sono poche, sparse e rudimentali. E la consulenza alle vittime la fanno solo gruppi di volontarie come quello di Justine, Synergie des femmes pour les victimes de violences sexuelles». Le due figlie di Justine hanno subito lo stesso destino, assalite all'interno della propria casa da una gang armata (ora sono nascoste ed in attesa di lasciare il paese). La madre è arrivata mentre gli stupratori lasciavano il posto, in tempo almeno per riconoscerne uno: si trattava della guardia del corpo di un colonnello delle forze di sicurezza. Justine si è presentata a quest'ultimo, per chiedere giustizia, ma lui si è rifiutato di arrestare il suo sottoposto ed i colleghi di quest'ultimo hanno commentato con disprezzo che «Madame Justine non deve credersi speciale, diversa dagli altri che uccidiamo qui a Goma».

In Congo in questo momento milizie, soldati, polizia locale, fuggiaschi hutu e combattenti nomadi chiamati ìMai Maiî combattono ferocemente tra loro, ma hanno sempre un nemico comune: infatti, nessuno di questi gruppi omette di violentare quante più donne riesce.

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Ma le donne resistono e lottano ovunque. Le nepalesi badi (un gruppo di dalit, ovvero “intoccabili”), le principali sostenitrici economiche delle loro famiglie, sono costrette dalla discriminazione statale, sociale e comunitaria a fare un unico lavoro, le prostitute. Hanno cominciato ad essere molto visibili il 22 agosto scorso, sebbene ce ne fossero solo tre dozzine in piazza a Kathmandu a chiedere il diritto di possedere la terra, la candidatura di una donna per ogni uomo candidato all'assemblea costituente, la presenza di proprie rappresentanze legali ad ogni livello in cui il governo si occupa di discriminazione razziale, e il diritto alla cittadinanza per i loro figli, di cui essi sono ora privi. La piccola manifestazione è stata dispersa a forza di botte, e le donne incarcerate, ma cinque giorni dopo le dimostranti nello stesso luogo erano 450. Stanno continuando a chiedere che i loro diritti umani vengano riconosciuti, anche in questi giorni, ed hanno ribadito che: «Le violazioni dei diritti umani delle donne badi sono un'umiliazione per tutte le donne nepalesi».

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Allo stesso modo stanno resistendo le donne dello Zimbabwe, le coraggiose donne di Woza (Women of Zimbabwe Arise). Le loro manifestazioni e proteste sono rigorosamente nonviolente. L'inflazione nel loro paese è del 6.000% (avete letto bene: seimila per cento). Da mesi non sono in grado neppure di comprare il pane, e la mancanza di cibo sta peggiorando il tasso di mortalità relativo all'Hiv/Aids. Le donne di Woza vogliono elezioni libere, diritti umani, fine delle brutalità poliziesche. Il 40% di esse ha subito violenze e pestaggi sia durante le dimostrazioni sia in carcere, ma non mollano. Prendete le loro leader: Jenni Williams (foto) è ormai stata imprigionata 29 volte, Magodonga Mahlangu 20 volte; Mary Ndlovu, il cui marito è stato incarcerato senza accuse e senza processo negli anni '80, ed è morto poco dopo il rilascio, si spiega così: «Mi sono unita a Woza perché è un movimento di donne che stanno insieme, sono coraggiose insieme, ridefiniscono insieme il potere. Per troppi anni abbiamo sofferto in silenzio. In tutta la nazione ci sono donne che ci sostengono, e quando non sono fisicamente presenti è solo a causa di questioni logistiche».

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Fanno paura, queste difensore dei diritti umani? Moltissimo. Bisogna metterle a tacere in ogni modo, e quando sono troppo famose e rispettate per risolvere la questione a bastonate e galera, le si imbavaglia a livello di media.

È il caso di Ghada Jamsheer, attivista per i diritti delle donne nel Bahrain, che ha ottenuto questo onore direttamente dalla corte reale del paese: è fatto divieto a radio, televisione e giornali nazionali di riportare le sue parole o di nominarla. È vero che, in tutta la regione del Golfo, Ghada viene considerata un modello e uno stimolo per le organizzazioni di donne e per quelle che si occupano di diritti umani; è vero anche che assieme a Benazir Bhutto e Shirin Ebadi ha contribuito a formare il Forum delle donne musulmane per i diritti umani, che si è riunito in plenaria per la prima volta ad Oslo nel maggio 2007, ma ultimamente ha proprio esagerato: ha scritto a sua maestà lo sceicco Hamad bin Isa Al Khalifa chiedendo che il Consiglio supremo per le donne, presieduto dalla di lui moglie, venga riformato, includendovi le associazioni indipendenti di donne, giacché ha sistematicamente fallito tutti gli obiettivi per i quali era stato creato. Davvero, certa gente non ha proprio pudore: vogliono persino che gli uffici del loro governo funzionino.

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Il governo statunitense, per esempio, funziona male non solo a livello di libertà civili, cura dei propri cittadini, e aggressioni internazionali: la Commissione inter-americana per i diritti umani lo ha dichiarato colpevole il 5 ottobre scorso, in una causa intentata da Jessica Lenahan, una donna del Colorado. La Commissione ha stabilito che il governo Usa è obbligato a fornire protezione alle vittime di violenza domestica secondo i termini dei trattati internazionali. Jessica aveva chiesto inutilmente e disperatamente tale protezione: non avendola ricevuta, il suo ex marito è riuscito ad ammazzarle tutte e tre le figlie.

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Per migliorare, si potrebbe prendere ad esempio... l'Afghanistan. La provincia di Bamiyan, intendo. La governatrice è una donna, e le elettrici sono il 52% dell'elettorato totale. Hanno poco e niente, come il resto del paese, ma quel che hanno è messo a frutto per i cittadini e le cittadine, così la provincia ha generatori elettrici condivisi, abbastanza cibo per tutti, nessun talebano in giro e neppure mezzo burqa. Fu l'ultima provincia a cadere durante la guerra che portò al potere i talebani (nel 2001, pochi mesi prima dell'invasione americana), resistendo cinque anni oltre la resa di Kabul. E se volete parlare di come vanno le cose con il più prominente dei religiosi locali, per esempio per quanto riguarda il benessere della provincia, egli vi presenterà alla sua collaboratrice Latifah Naseri, economista dal sorriso timido ma dal volto scoperto. Tutti e due hanno dichiarato ai visitatori della stampa straniera di essere piuttosto a disagio quando devono recarsi a Kabul.

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Uno studio interessante, a proposito, è stato reso pubblico il 15 ottobre 2007: riguarda le possibilità di “rompere il soffitto di vetro” da parte delle donne nei paesi in via di sviluppo. Lo ha redatto una ditta privata, la PricewaterhouseCoopers, per conto del “Forum delle Donne” che si è tenuto a Deuville, in Francia, lo scorso fine settimana. L'indagine ha toccato otto paesi fra cui la Cina, l'India e la Germania, ed ha scoperto sorprendentemente che «...nei paesi industrializzati, gli stereotipi culturali e le percezioni discriminatorie possono rappresentare barriere maggiori per la piena partecipazione delle donne rispetto a moltissimi paesi in via di sviluppo». Il responsabile della ricerca, Samuel Di Piazza, dice: «Le norme culturali dei paesi 'sviluppati' sono più profonde e durature, specialmente quelle che riguardano l'economia. In alcuni paesi, come la Germania o la Svizzera, le donne possono dover affrontare più ostacoli rispetto ad aree in via di sviluppo, ove vi è un'enorme richiesta di persone che abbiano talento, e dove tale richiesta induce a riaggiustare le norme culturali che sarebbero di impedimento alle donne».

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Solo questione di buon senso, quindi. Lo stesso che ha permesso per la prima volta, nella città turca di Anatolia, alle ragazze musulmane di battere i tamburi all'alba insieme con i ragazzi, durante il Ramadan. Le battitrici di tamburo hanno segnalato ogni giorno l'ora dell'ultimo pasto prima del digiuno rituale. Che possano continuare a battere i tamburi ogni volta in cui qualcuno dirà loro che, come femmine, valgono meno degli uomini, o non possono far questo o quello.

 

Maria Grazia Di Rienzo

(da Nonviolenza. Femminile plurale, n. 132 del 18 ottobre 2007)

 

 

Fonti: Al Arabiya; Christian Science Monitor; Gulf News; International Herald Tribune; Reuters; The Guardian; The Toronto Star; We News; Women Human Rights Defenders; Worec Nepal.


 
 
 
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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