Si è levato un gran rumore di sdegno e disapprovazione per il diverso trattamento riservato dalla Chiesa alle esequie di Piero Welby e a quelle di Luciano Pavarotti. Welby si vide rifiutare la cerimonia religiosa (il cardinale Ruini, recentemente, ha fornito una sua spiegazione e giustificazione del denegato ufficio di cui egli - che all'epoca era l'onnipotente capo della Cei - si è assunto tutte le responsabilità) mentre al tenore modenese - la cui vita non era certo esente da pecche, quale divorziato e risposato - è stata concessa una solenne celebrazione nella splendida cattedrale della sua città. A questa diversità ha fatto stridente contrasto la partecipazione affettiva popolare che, si può ben dire, è stata per i due, con tutte le loro differenze di status sociale, di popolarità, eccetera, ugualmente ampia e sentita; ma questo risarcimento non ha lenito tra la gente il sentimento di una ingiustizia, di una intollerabile disparità di trattamento tra le due figure.
Generalmente, nei commenti, tale disparità è stata attribuita al fatto che, mentre Pavarotti è morto, sembra, in formale unione con la Chiesa, Welby aveva fatto pubblica e ripetuta dichiarazione di voler affrontare la morte con decisione autonoma e singolare, fuori dai dettami ecclesiastici, così da indurre le autorità romane a condannare tale sua determinazione, identificata come una esplicita scelta di suicidio, che quelle non potevano tollerare e dovevano anzi condannare. Diversità di considerazione e di trattamento tra le due vicende, insomma, si è detto anche con asprezza di toni. A noi, invece, pare che tra i due comportamenti dell'autorità ecclesiastica non vi sia stata differenza o divergenza di contenuti e sostanza. A motivare nell'un caso il rifiuto alla cerimonia religiosa e nell'altro la concessione di sontuose esequie nella cattedrale vi è uno stesso motivo, una stessa ragione: il giudizio che la Chiesa dà su quello che usiamo definire come lo scandalo sociale, pubblico. Le esequie religiose dovevano essere rifiutate a Welby perché la sua decisione di andare incontro alla morte destava, o poteva destare, scandalo tra i fedeli; ugualmente da scandalo sarebbe stato il negare l'ingresso in chiesa della salma del famoso tenore.
Scandalo quello e scandalo questo: perturbazione e sconcerto, sia pure con diversa motivazione, tra i fedeli. La Chiesa questo non ha voluto o potuto sopportare. Di qui le due scelte, diverse nell'apparenza ma identiche nella sostanza. La Chiesa è istituzione fortemente “mondana”, sia pure ossequiosa verso l'autorità “spirituale”. Respinto, o fortemente condizionato, l'appello luterano al primato dell'intimità della scelta di fede, la Chiesa è attentissima al rapporto con la società: di qui, come conseguenza, la paura e il rifiuto dello scandalo sociale: un tabù, una prassi assai raramente infranta o disattesa. La Chiesa cattolica ha cercato di attenuare questa sua forma, questo suo formalismo, creando santi dal grande fervore umano e sociale, accettando forme di spiritualità comunitaria in forme anche nobili: ma, per dirla francamente, l'insegnamento teologico ed ecclesiale del papa attuale, Benedetto XVI, ci segnala come, dinnanzi alle richieste, alle domande e sollecitazioni della società e del mondo, la cattolicità preferisce compiere la scelta della fedeltà alla istituzione, piuttosto che alla singolarità e alla spiritualità. La Chiesa è, si identifica nei suoi riti, ai quali viene attribuita tutta la rappresentatività istituzionale. Mai come in questi giorni, negli ambienti vaticani e clericali, risuona l'anatema: «Nulla salus extra Ecclesiam». O dentro o fuori: è fedele solo colui che adempie ai riti, perché i riti sono il pegno dell'identità ecclesiale. È questa la concezione teologico/dommatica/ecclesiale che sta spingendo il papato al rifiuto o quanto meno alla riduzione e “soffocamento” del Concilio Vaticano secondo, visto come una “apertura” intollerabile al mondo e al suo divenire. L'ultimo passo in questa direzione è il recente ripristino della messa in latino.
Nel numero di luglio-agosto della rivista Reset sono apparsi alcuni articoli che disegnavano una vera e propria inchiesta sulla cattolicità in Europa: il titolo era inequivoco: “minoranza”. Erano presi in esame solo due dei paesi cattolici del continente, la Francia e l'Italia (deprecabile l'assenza della Spagna, dove Zapatero sta disegnando uno schema nuovo, e finora imprevisto, dei rapporti tra Stato e Chiesa), ma l'indagine è comunque assai importante, a aiuta a comprender le ragioni della rinascita della “presenza pubblica” della Chiesa nella società e nelle istituzioni: un fenomeno non transeunte né minimale, ma anzi profondamente articolato nelle mutazioni sociali, nelle trasformazioni dei valori etici e istituzionali, nella rottura degli equilibri tra Stato e Chiesa ai quali eravamo abituati da una lunga tradizione di origine ottocentesca, interprete del laicismo ideologico volterriano e illuministico. A questa nuova, inedita dinamica è sbagliato contrapporre le mere analisi sociologico-statistiche basate sui numeri, sulla struttura e le caratteristiche della “partecipazione” popolare ai riti religiosi, sulla scristianizzazione degli apparati del sapere, ecc.
Nessuno dei dati che Reset sciorina (ma che già erano, nella sostanza, noti) può essere contraddetto, e anzi se dovessimo basarci su di essi dovremmo concludere (e molti, infatti, concludono) che la Francia e l'Italia sono paesi scristianizzati, desacralizzati, laicizzati senza possibilità di ritorno: appaiono paesi in cui, appunto, la cattolicità è “minoranza” ormai in via di scomparsa, comunque ininfluente e non più pericolosa. Ma le cose non sono affatto così semplici, e questi saggi ci dicono cose nuove e insospettate, di cui si dovrà urgentemente tener conto nella battaglia per la difesa - anzi, il rilancio - dei valori della laicità, o della scienza, che conduce l'Associazione Coscioni. Riservandoci di tornare sull'argomento, un elemento ci sembra utile inserire qui, per fare capire quel che l'inchiesta suggerisce: nel suo articolato intervento, Luca Diotallevi si chiede se “i numeri ridotti” che caratterizzano la sociologia religiosa e cattolica siano davvero segno di “crisi”. «Perché» è la sua inquietante domanda «nel caso della religione ci si regola diversamente da come ci si regola per interpretare la vitalità della economia, della scienza o della politica?... Perché spesso si interpretano misure indicanti un calo di partecipazione, conoscenza o credenza religiose per sostenere la tesi di un declino della religione?... La riduzione degli addetti è forse sempre un segno della crisi di un'azienda o il calo di unità combattenti è segno di un indebolimento di un esercito?». Insomma, ci dice - e ha ragione lo studioso, stiamo attenti: i dati sociologici che ci segnalano la scristianizzazione delle masse possono essere il segno di un mutamento della qualità e dei modi della presenza della chiesa nella società, non della sua scomparsa: potrebbero anzi essere interpretati come indice di un suo rafforzamento complessivo. La vicenda delle esequie di Welby e Pavarotti può essere letta in questo senso.
La Chiesa, mentre rafforza la propria identità istituzionale a scapito dall'afflato pastorale e missionario, assume un potere nuovo, una nuova e temibilissima forza contrattuale complessiva di fronte alle istituzioni laiche, allo Stato, e può sfidare il sentimento comune, l'indignazione o la deprecazione popolare, perché assolutamente fiduciosa nella sua nuova capacità di sfondamento “politico" e mondano. Sarà un nostro eccesso di diffidenza (che non viene scalfita né dalla ritrattazione di Ruini né dai modi soft con cui sembra muoversi monsignor Bagnasco, suo successore alla testa della Cei) ma pensiamo che una riflessione approfondita sui nuovi atteggiamenti del mondo clericale, a partire proprio dall'inchiesta di Reset, sia necessaria e urgente.
Angiolo Bandinelli
(da Agenda Coscioni, ottobre 2007)