Ho plaudito a suo tempo a quella che ho chiamato la restituzione della piazza a se stessa. Una decisione che torna a tutto onore dell’Amministrazione Comunale. Che cosa in fondo caratterizza e giustifica un’amministrazione pubblica se non la capacità e il potere, sì, di mediare, ma soprattutto di porsi al di sopra degli interessi particolari, di persone o di categorie? Il modo con cui si è sviluppata Tirano nei passati decenni è un esempio del contrario.
Torniamo nella fatidica piazza. Rimane ancora qualcosa da restituire alla stessa: la grande fontana, cara a quelli della mia età, che ricordano le loro mamme, o nonne, o zie, o sorelle più grandi che venivano ad hauriendam acquam per le bisogne domestiche, come si può – o si poteva – leggere nella citazione biblica campeggiante sul frontone. Ho detto: si poteva, perché l’usura del tempo, o l’inquinamento l’ha resa pressoché illeggibile e bisognosa anch’essa di un urgente restauro, prima che scompaia del tutto. Una volta restituita, assieme all’intero monumento, alla vista e al godimento dei passanti e dei frequentatori, il quadro sarà completo.
Sognare non è proibito. La piazza e i suoi dintorni sono stati per secoli al centro delle due fiere, quella di Pentecoste e quella dell’Apparizione, che hanno fatto, in una col Santuario, di Madonna quel crocevia storico da cui è nata e si formata. Farle riconvergere di nuovo là da dove sono partite è un sogno irrealistico? Si verrebbe così incontro anche alle preoccupazioni – a parer mio comunque di corto respiro – degli esercenti locali.
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Ogni avanzamento, ogni promozione, ogni movimento, ogni progresso e ogni liberazione hanno il loro rovescio della medaglia. Ho seguito a suo tempo con grande interesse, con grande passione, anche per via di alcune amiche che ne erano parte attiva, il movimento di liberazione della donna. Esso mi appariva, e ancora mi appare, destinato a lasciare un segno più profondo di tutti gli altri movimenti che hanno caratterizzato quegli anni, i sessanta e i settanta. Vale la pena di ricordare la contemporanea enciclica montiniana Popolorum Progressio, da qualche bello spirito canzonata con progresso dei pioppi. Essa metteva al suo centro come fattori positivi le tre liberazioni: quella dei popoli oppressi, quella delle classi sfruttate, quella della donna. Quella di Paolo VI è una storia da ripensare.
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Ho passato la vita a combattere l’uso a fini politici, o magari partitici, della religione e, come interfaccia, l’uso a fini confessionali della politica con tutta una serie di conseguenze negative sull’una e sull’altra delle due dimensioni.
In questi ultimi anni ho avuto parecchio a che fare per ragioni, diciamo così, familiari, col mondo delle cosiddette badanti. Si trattava per lo più di persone di origine croata, in gran parte ortodosse, e come tali costrette a lasciare precipitosamente il loro paese dominato da una sorta di nazionalismo cattolico. La cosa ha preoccupato, a quanto si racconta, lo stesso Vaticano. La Croazia si avvia ad entrare nella Comunità Europea. Questo, se ha un senso, dovrebbe indurla a più miti consigli su questo punto cruciale e scottante. O no?
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Una buona notizia: ci si è finalmente decisi a porre mano all’epistolario di Arcari. Un fondo che giaceva pressoché inesplorato e che riserverà, io penso, grandi sorprese, data la ricchezza di rapporti, di corrispondenze, di amicizie. Del nostro concittadino, dico nostro nel senso che lo era diventato per via del suo legame maritale con una Pievani, io ho potuto godere l’amicizia nella seconda metà degli anni ’40. David Maria Turoldo e io andavamo a trovarlo annidato nel suo grande studio, foderato di libri, di casa Pievani, dove passava le sue estati. Da giovane aveva fatto parte a Milano di un gruppo di cattolici nazionalisti confluiti poi nel fascismo. Come testimonianza di questo anomalo percorso rimane di lui Il Genio, l’Eroe, il Santo un libro, a riguardarlo adesso, gonfio di retorica. Quando lo conoscemmo e praticammo noi eravamo ancora giovani e lontani da quel “lungo viaggio” per dirla con il titolo del libro di Ruggero Zangrande che avrebbe portato noi e la nostra generazione dal feticismo fascista alla sua contestazione. Quel suo antico legame non gli avrebbe impedito, dopo l’8 settembre da Rettore dell’Università di Friburgo, di comportarsi con grande generosità – una generosità che era nel fondo del suo carattere – nei confronti dei fuggiaschi italiani riparati in massa in Svizzera per sfuggire all’arruolamento nella Repubblica di Salò.
Camillo de Piaz
(da Tirano & dintorni, dicembre 2005)