Tra la sostanziale generale indifferenza è in corso a Palermo il processo nei confronti dell’attuale Governatore della regione Sicilia Salvatore Cuffaro, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Peccato, perché seguire questo, come altri processi, sarebbe altamente istruttivo. Si potrebbe eccepire che il tipo di reato è di per sé stravagante: o alla mafia si è associati, o non lo si è. Dire che si possa starne dentro standone fuori è come dire che un cerchio è quadrato; ma non ci si vuole addentrare in questo terreno; che Cuffaro sia colpevole o innocente, nel ragionamento che si cerca di sviluppare, è poi secondario; c’è una corte di giustizia che lo deve stabilire, non saremo certo noi a voler emettere verdetti di colpevolezza o di innocenza. Però alcune cose meritano di essere ugualmente annotate.
Per esempio: «Per quanto riguarda Cuffaro, manca il requisito di base del concorso esterno in associazione mafiosa, nel senso di una iniziativa dell'imputato volta a costruire un accordo con l'associazione criminale». Inequivocabile il Pubblico Ministero Maurizio De Lucia. Il dottor De Lucia, che assieme al collega Michele Prestipino e al procuratore aggiunto Giuseppe Pignatone sostiene la pubblica accusa, ha analizzato il profilo giuridico del concorso esterno in associazione mafiosa, reato che era stato originariamente contestato al Governatore, nella prima parte dell'indagine, e l’ha praticamente smontato: «Per ipotizzare il concorso esterno», ha detto De Lucia, «è necessario che vi sia un rapporto con l'associazione mafiosa e la volontà di interagire con le condotte altrui. Ovvero la ritenuta sussistenza di un preciso passo criminoso». Al di là del farraginoso burocratese giudiziario, quello che ci si dice è che in sostanza non ci sono prove sufficienti per suffragare l’ipotesi accusatoria: e cioè che si sia accertato, al di là di ogni ragionevole dubbio, una complicità del Governatore Cuffaro per quel che riguarda candidature considerate “chiacchierate” e comunque discutibili: «Dagli atti non emerge la prova di questa condotta». Gli elementi raccolti non costituiscono prova sufficiente.
Fin qui nessun problema. Accade che si parta da un’ipotesi accusatoria, e poi nel corso dell’inchiesta, o durante il dibattimento processuale si prende atto che questa ipotesi non è suffragata da dati di fatto. Non è questo il guaio, anche se certamente è spiacevole trovarsi imputati per settimane e mesi – e dover sostenere complessi e costosi processi – per poi vedere che la stessa Pubblica accusa ritorna sui suoi passi. Il vero guaio è quando ci si “innamora” dell’inchiesta, e dunque ci si accanisce e non si vuol prendere atto che le cose non sono come le si immaginavano e credevano.
Ad ogni modo, il Pubblico Ministero De Lucia ha detto quello che ha detto, e le sue parole, di una cristallina chiarezza, dovrebbero costituire un elemento di chiarezza atteso non solo, comprensibilmente, dall’interessato, ma anche dall’opinione pubblica: che ha il diritto di sapere se è “governata” da un complice – sia pure esterno, reato di per sé aleatorio, una vera e propria pelle di zigrino – della mafia.
Ecco: questo dato di chiarezza che è doveroso chiedere (ed è un diritto avere) non c’è. Il PM De Lucia quasi non aveva finito la sua requisitoria che dal procuratore aggiunto Alfredo Morvillo (foto) è arrivato, pesantissimo, un ukase: «La linea illustrata dal colleghi nel processo non è la linea dell'ufficio». Il procuratore Morvillo dice di non essere «a conoscenza dei contenuti della requisitoria. La linea non mi è nota e non sono a conoscenza delle valutazioni fatte dai sostituti circa la sussistenza del concorso esterno. Tali valutazioni su questo reato non derivano certamente da una linea dell'ufficio ma sono da riferire esclusivamente ai due sostituti che le hanno fatte».
Il dottor Morvillo fa poi riferimento alla decisione del procuratore Francesco Messineo di chiedere la riapertura delle indagini di un vecchio procedimento, a carico di Cuffaro, nel quale si ipotizzava appunto il concorso esterno.
Insomma, spaccatura non potrebbe essere più evidente e clamorosa. C’è un imputato eccellente che attende giustizia. C’è una pubblica opinione che attende di sapere. C’è una pubblica accusa che sostiene non essere sufficienti le prove a carico dell’imputato. C’è l’ufficio della procura che smentisce i pubblici accusatori. Kafka e Ionesco non avrebbero saputo immaginare di meglio.
La si butta a sorridere? Fino a un certo punto. Perché è giusto esigere, dalla “casta” politica di non dilaniarsi in settarismi e conflitti strumentali, come invece purtroppo spesso accade. Ma la stessa richiesta la si deve fare alla magistratura. Chiedono di poter operare in serenità e senza interferenze esterne, e hanno ragione. Ma non sono accettabili i protagonismi, e – soprattutto – devono sempre ricordare che la forma e la sostanza coincidono, che nel loro caso l’abito fa il monaco. Lo spettacolo che ieri è stato offerto dalla procura di Palermo alimenta e giustifica sfiducia e scoramento nell’opinione pubblica; e si tratta di “sentimenti” di cui non c’è davvero bisogno e necessità. Il precipitare della fiducia è provocata anche da questo tipo di comportamenti. Non è davvero una bella pagina, quella che è stata scritta ieri.
Valter Vecellio
(da Notizie radicali, 11 ottobre 2007)