Solo perché non vediamo più dimostranti, non significa che siano scomparsi. Il regime birmano vuole farci credere di aver “ripristinato la normalità” nel paese. Vogliono che noi si deduca che la repressione ha avuto successo e che la resistenza è stata distrutta. Ma non è questa, la vera storia che viene dalla Birmania.
Nessuno dovrebbe essere sorpreso di come il regime ha reagito: dopo tutto, questo è ciò che i regimi fanno quando devono affrontare il dissenso. Gli effetti della protesta possono essere più profondi e durare più a lungo degli effetti del terrore scatenato contro i cittadini birmani. Leader democratici esiliati, monaci e studenti, tutti dicono che il movimento è vivo e che, secondo le parole di un rifugiato, la gente comune «sta dedicando se stessa alla lotta per la vittoria in Birmania». Ci sono alcuni segnali incoraggianti che indicano come questo impegno si stia traducendo in una sistematica strategia di indebolimento delle fonti di sostegno e controllo della giunta.
Sin dall’inizio, il movimento ha appreso come coordinare “linee” o liste di persone guida, così quando uno dei leader è stato arrestato o neutralizzato in altro modo, un’altra persona ha rapidamente preso il suo posto. È esattamente ciò che è accaduto dopo la prima ondata di arresti, e dopo la seconda, e dopo la terza. Osservatori presenti in Birmania sostengono che ve ne sono altri, molti altri, pronti a farsi avanti.
Inoltre, mettendo i monaci all’avanguardia, il movimento ha svelato l’intrinseca mancanza di legittimità politica e di autorità morale del regime. Reprimendo duramente la parte più rispettata ed onorata della società, il regime ha ferito la vera anima della Birmania. Questo ha reso attivi segmenti di popolazione che sino ad allora erano rimasti ai margini della protesta, inclusi insegnanti, abitanti dei villaggi e persino funzionari governativi. Un corrispondente dall’Asia per la Bbc ha recentemente osservato: «È ovvio che nonostante i loro enormi sforzi per soffocare qualsiasi tipo di opposizione, la domanda a cui i generali che governano la Birmania devono rispondere non è “se” le proteste anti-governative ritorneranno, ma “quando”».
Non ci è voluto molto tempo. Già ora, giungono notizie che i cittadini di Rangoon sono impegnati in “proteste silenziose”, come il non guardare l’emittente televisiva di stato, o spegnere le luci, che simboleggiano il loro rigetto della propaganda di regime. Gente comune ha sottratto il proprio consenso al regime ed è decisa ad impegnarsi nelle azioni di protesta che vengono loro proposte, creative e a basso rischio. I loro passi seguiranno quelli dei coraggiosi resistenti nonviolenti che si opposero alla giunta di Pinochet in Cile, al regime dell’apartheid in Sudafrica, e al dittatore Marcos nelle Filippine. Tutti costoro dovettero affrontare la repressione, pure trovarono azioni nonviolente atte a smantellare il sistema dell’oppressione ed a mobilitare le persone.
I membri di basso livello dell’esercito e della polizia si trovano ora in un dilemma. Non tener conto degli ordini che ricevono potrebbe metterli nei guai, ma obbedire a tali ordini mette a rischio la loro anima, in questo devoto paese buddista. Se il movimento riesce a raggiungere una massa critica, alcuni soldati e poliziotti esiteranno ad impegnarsi nella repressione, perché sapranno che persone delle loro stesse comunità e famiglie potrebbero essere ferite. Questo è stato il caso della Serbia, durante la sollevazione nonviolenta contro Slobodan Milosevic, conosciuto anche come “Il macellaio dei Balcani”. Quando ai poliziotti serbi fu chiesto perché non obbedivano completamente agli ordini, alcuni risposero che non potevano sparare sulla folla, perché non sapevano se là in mezzo c’erano anche i loro figli.
Un segno decisivo della pianificazione operata dal movimento birmano e della sua forza è la capacità che sta dimostrando di saper mantenere la “disciplina nonviolenta”. Nonostante gli orrori commessi dal regime nei giorni scorsi, non un singolo dimostrante ha risposto con la violenza. E perché dovrebbero? Ciò darebbe solo al regime più scuse per la repressione, e forse permetterebbe ad alcuni militari e poliziotti di razionalizzare degli atti che altrimenti non si sognerebbero mai di commettere. Il mantenimento della disciplina nonviolenta, assieme al crescente numero di differenti soggetti che si impegnano a resistere in Birmania, ha guadagnato al movimento molta simpatia internazionale, e sarà un fattore cruciale per costruire la sua stessa legittimazione
Le ultime notizie che serpeggiano fra i vicoli e le strade di Rangoon dicono che la moglie del generale Than Shwe, il capo della giunta militare, sta comprando casa a Dubai. Invece che chiedersi se la repressione della rivoluzione color zafferano ha avuto successo, forse è più intrigante porsi questa domanda: “Chi è che ha più paura, e di chi?”
Cynthia Boaz e Shaaka Beyerle
(7 ottobre 2007, trad. Maria G. Di Rienzo)
Cynthia Boaz è docente di scienze politiche e studi internazionali all’Università di New York.
Shaaka Beyerle è consigliera anziana del Centro internazionale per la lotta nonviolenta.