Complice la provocante raffinatezza d’una delicata ironia memore di certe affascinanti esperienze dell’avanguardia, Alessandro Giorgi, con “A Laura”, offre una verseggiatura ottenuta a mezzo sottili tubi di neon annodati su loro stessi, a formare anelli luminescenti dalle diversificate suggestioni cromatiche.
L’allusivo assetto delle suggestive sequenze conferisce carattere di poetica cadenza a successioni, mimanti unità fonetiche, tese a foggiare vocaboli e frasi in virtù di intrinseci, ineffabili, impulsi.
Con stile seduttivo quanto partecipe, viene rappresentata, insomma, l’enigmaticità, quale intimo tratto del costume idiomatico: si constata - direi, con necessario ossimoro, per affinità di contrasto - la natura intransitiva, antropologica, del gesto linguistico, le cui valenze consistono in usi, in accettate regole, non in qualsivoglia aprioristica origine.
L’opera in parola, dunque, non veicola certamente ordinario significato (quando mai la poesia lo ha fatto?), ma, ricca di efficacia espressiva, indicando una direzione, un senso, induce a riflettere.
Se Francesco Petrarca, la cui luminosa firma risulta, come il titolo, ben leggibile, mai avrebbe immaginato simile citazione, noi, oggi, di fronte a questi rilucenti versi, non possiamo negare la presenza del fecondo esito d’una felice fusione di elementi (forse da qualcuno ancòra ritenuti, a torto, eterogenei) apprezzati, in àmbito artistico, da quell’umana, ampia, attitudine creativa che fu grande merito delle avanguardie avere mostrato in sé aliena da arbitrarie classificazioni: non paiono sussistere dubbi sul fatto che Giorgi, con il suo congiungere, indissolubilmente, scrittura, colore, luce, ritmo, abbia fatto tesoro di una lezione, la cui portata - pare suggerire - supera la contingenza dei tempi fino a potersi rivolgere al passato, perfino a quello ritenuto più classico.
Furono davvero (anche) petrarcheschi barbagli.
Marco Furia