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Piero Cappelli: Birmania, i monaci fulcro storico della liberazione.
01 Ottobre 2007
 

Disinteresse e affari politico-economici – compresi anche quelli italiani sono la salsa con la quale la comunità internazionale ha condito e continua a trattare l’affare Birmania. Paese che dal 1989 la giunta militare ha rinominato Myanmar l’ex colonia britannica indipendente dal 1947.

Sì, cari lettori. È da cinque settimane che questo Paese si è ribellato nuovamente al regime militare cosiddetto ‘socialista’ sostenuto da Cina, Russia e India nel loro silenzio assordante. Mentre gli Usa – che sono interessati invece a ribaltare il regime dei militari , protesta. Sembra la stessa situazione, capovolta, di quando Clinton arrivò a Pechino per parlare di affari commerciali senza impegnare il regime cinese sulla questione della democrazia e del rispetto dei diritti umani. Le tre potenze euro-asiatiche hanno interessi economico-politico-commerciali in Birmania (compreso il commercio delle armi) e poi non vogliono che i fenomeni di rivolta non influenzino l’aera geografica. Si pensi solo che la rivolta di piazza Tien an men del 1989 fu appena successiva a quella del 1988 di Rangoon. E quindi la Cina teme molto l’influsso di questa ribellione nel paese vicino. Se oggi la Cina, l’India e la Russia,con gli altri paesi limitrofi, cercano di soffocare l’informazione sulla Birmania è perché temono che si abbia un effetto domino sulle loro popolazioni dove la presenza religiosa può un giorno ribellarsi e divenire chiave di volta – come oggi i monaci buddisti in Birmania per reagire ai regimi e alle caste della loro società. Si pensi ai tibetani occupati dai cinesi, si pensi all’India dove i poveri dilagano e il regime democratico non riesce più a governare quasi un miliardo di individui, si pensi alla Russia dove il potere religioso ortodosso si sta spaccando di fronte ad un regime pseudo-democratico in cui Putin spadroneggia proprio con il tacito consenso dei vari metropoliti. Un piccolo particolare di come anche l’Italia sia ‘coinvolta’ nella repressione militare birmana è dato da quanto il giornalista Rampini di Repubblica ha voluto svelare. Che gli elicotteri antisommossa in dotazione alla polizia del regime dittatoriale sono di produzione indiana, ma assemblati con pezzi di produzione italiana: gli affari commerciali e in specie quelli della produzione e del traffico delle armi non guardano in faccia a nessuno. L’Italia è il settimo paese al mondo che fa affari con le armi grazie alle aziende pubbliche e private.

In questi giorni l’inviato dell’Onu Gambari ha incontrato nella capitale l’esponente dell’opposizione e premio nobel San Suu Kyi e sta tentando di vedere anche gli esponenti della giunta militare.

In Birmania, vent’anni fa che ci sono stati 3.000 morti nella repressione più violenta della sua storia. Con dei successivi momenti di restrizione totale della libertà individuale e di associazione tanto che i militari rifiutarono la vittoria, alle elezioni del 1990, della Lega nazionale della democrazia (Nld). Da allora la leader birmana Augun San Suu Kyi è agli arresti domiciliari anche se oggi per timore di una sua fuga è stata di nuovo tradotta in carcere, ed è la figlia dell’eroe dell’indipendenza Aung San assassinato dai suoi avversari politici nel 1947. Dal 1996 la repressione politica è costante.

Ciò che ha innescato la rivolta sono state le misure economiche che strangolano la già devastante povertà birmana dove il carburante è aumentato del 500%, le uova del 50% e il riso, nutrimento fondamentale, del 10%, nonostante il paese sia ricco di minerali e viva anche col famoso papavero da oppio nel ‘trinagolo d’oro’ ai confini con la Thailandia e il Laos.

Da alcuni giorni anche l’ultimo provider per il collegamento internet in Birmania è stato fatto saltare dal regime militare per evitare contatti con l’esterno. I monaci sono assediati dentro i loro monasteri per evitare che escano a manifestare. Si parla però di una spaccatura in seno alla giunta militare e che il ‘numero due’ Maung Aye – amico dei ‘signori della droga', non voglia proseguire sulla strada della repressione. E molti militari ‘devoti’ si sono – secondo fonti attendibili – come inginocchiati davanti ai monaci deponendo le armi. I gruppi editoriali privati non stampano più giornali. Reporters sans frontières afferma che sono stati arrestati ben sei giornalisti.

Nonostante tutto questo delle notizie trapelano attraverso cellulari e degli internauti clandestini. Secondo la leader della dissidenza Birmana che vive in Thailandia, Ohmar Khim, in una intervista a La Stampa dichiara che giovedì scorso c’è stato un bagno di sangue con circa 200 morti sulle strade di ben 25 città birmane. Sembra però che l’apertura della repressione sia dovuta non solo all’ala intransigente della giunta militare, ma anche ad un via libera di quella parte del clero buddista che è dalla parte dello status quo: in realtà abbiamo un paese spaccato in due dove l’ala violenta ha preso il sopravvento. Da una parte dei militari e dei buddisti alleati in un continuum del regime così com’è e dall’altra un clero buddista riformatore che insieme a all’altra parte dei militari cosiddetti ‘devoti’ stanno cercando il cambiamento e di uscire da questa crisi nazionale.

Intanto il regime militare birmano è in mano ad un uomo di 74 anni Than Shwe, capo della giunta. Personaggio vittima di se stesso e in preda alla superstizione: ha perfino un suo astrologo personale che lo indirizza costantemente. Nel 2004 ha deciso di riscrivere la costituzione, ma ad oggi niente è stato concluso. È malato. Ha un cancro all’intestino ed è volato a Singapore ad operarsi. Ha tre figlie di cui la terza Thandar si è sposata agghindata con un set di diamanti tagliati in Belgio e del valore di circa 300.000 $, mentre un birmano in media deve vivere con meno di 100 $ all’anno, non più di circa 95 euro, 20centesimi al giorno. Secondo alcune fonti il dittatore ‘socialista’ con le stellette ha messo in salvo la famiglia, nel vicino Laos. Come Ceaucescu ai tempi della caduta di Bucarest.

Se pensiamo che a fronte dei circa 54 milioni di abitanti, vi siano in Birmania 400.000 militari e circa 500.000 monaci buddisti, per lo più giovani e in buona parte donne, si capisce cosa voglia dire e quanto siano importante questi monaci per la ribellione birmana. Non solo. Perché il paese è da decenni allo sfascio dove l’istruzione e la sanità sono al collasso. E se un giovane vuole avere una strada possibile aperta, oggi come oggi, è solo quella della scelta di monaco buddista. Nei monasteri si riceve una educazione, una cultura religiosa, una ciotola e ci si sente parte di un grande ideale di vita che alimenta non solo la vita spirituale ma anche quella sociale. Il radicamento della devozione buddista è molto penetrata nella cultura birmana oramai da secoli, fin dalle antiche civiltà dei regni buddisti fino agli inizi dell’800 quando i monaci si sono battuti con i nazionalisti contro il dominio coloniale inglese per l’indipendenza del paese. Per cui ‘le svolte’ in questo paese sono avvenute e avvengono grazie e attraverso i monaci buddisti. Anche la popolazione è all’85% buddista, con presenze di musulmani (4%) e di cristiani, il 6%.

Si narra che uno dei militari al potere si facesse ricco dei vari furti perpetrati ai danni della gente per dare offerte ai monaci e costruire pagode. Perché secondo la loro tradizione, ciò permette di ricevere – secondo tale atto di carità – dei “meriti spirituali, per sé e peri propri cari vivi e morti. Quindi se oggi i monaci non vogliono più ricevere offerte, il cui simbolo è la loro ciotola per mangiare, vuol dire rifiutare il cibo e quindi dare una speciale ‘scomunica religiosa’ ai militari: “non potete più salvarvi senza di noi!”. Pensiamo ai monaci buddisti che si sono bruciati vivi in Vietnam nel 1963 dove allora come oggi protestavano contro la violenza del potere, allora con contro un potere filocattolico che tentava di reprime le altre religioni; o come Gandhi in India contro l’occupazione inglese: con la forza del loro presenza silenziosa. Dalle nostre parti invece il potere ecclesiastico cattolico fa ben altre iniziative di protesta, esprimendo vicinanza e preghiere al caso della Birmania…

Oggi i monaci, con l’immagine della veste, del mendicare, della testa rasata hanno aperto una ‘rivoluzione zafferana’ che seppur repressa nel sangue e nell’oppressione indicano come la loro vita – scadenzata da una vita mistica di meditazione e di consapevolezza sociale – rappresenti nei contenuti il punto di riferimento fondamentale del popolo birmano, tra il limite e la profondità del loro messaggio, testimoniato con autorevolezza seppur senza autorità.

E già oggi la Birmania, grazie a questo popolo tenace e ai loro monaci buddisti, non è più quella di ieri.

 

Piero Cappelli


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