Tutto il mondo guarda alla prova di forza tra il regime e le preghiere di migliaia di monaci che lungo le strade di Rangoon, in Birmania, sfilano chiedendo il diritto alla vita per una popolazione affamata e sofferente.
La loro preghiera è per la democrazia e la libertà.
Ci sono molti insegnamenti nelle manifestazioni dei monaci e dei cittadini che si sono svolte nelle città birmane in questi giorni.
Per solidarizzare concretamente con la lotta del popolo birmano (evitando la moda politica del momento e il rischio autoreferenziale che emerge da alcune iniziative partitiche ed istituzionali italiane) è bene comprendere il senso profondo del metodo che i monaci hanno attuato (nel mezzo, diceva Gandhi, è già insito il fine che si vuole raggiungere).
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I monaci dicono che non si può realizzare né ottenere nulla di buono se non si ha sufficiente pace nell'anima e che agli attacchi dei militari del generale Than Shwe, si può rispondere solo con la preghiera.
I monaci vogliono «pregare per il bene di tutti». È con questo spirito che essi hanno la certezza di farcela e di conquistare la pace e la democrazia. «Ci vorrà tempo, ma il bene porta solo bene», assicurano.
«Offrire aiuto ad un intero popolo senza abbracciare le armi è un dovere», affermano, «ogni monaco deve essere partecipe e sapersi sacrificare per lenire le sofferenze del popolo dove vive e pratica. Preghiamo perché tutto questo finisca e la Birmania possa contare su di un governo democratico».
Marciano a piedi scalzi, perché hanno fatto voto di povertà, e perché il loro metodo è quello di assumere su di sé le sofferenze, non di caricarle sulle spalle altrui.
Hanno simbolicamente rovesciato le loro ciotole, perché non vogliono accettare l'elemosina dai militari; anche questa è una rinuncia alla collaborazione con il male. È una sorta di digiuno, di sciopero, un modo di dire: “Io ti rispetto come persona, ma non accetto nulla dalla tua struttura di violenza”.
Manifestano senza bandiere di parte, solo quella con il pavone, simbolo di libertà e democrazia. Hanno rinunciato ai loro segni distintivi, alla singola individualità, per riconoscersi tutti nell'identità nazionale birmana, si sono completamente identificati nella sofferenza del popolo.
Dai loro cortei non si levano slogans e proclami, ma una sola frase, in forma di preghiera: «viva la democrazia». Non portano cartelli, né striscioni, perché il loro corpo disarmato è il messaggio.
Se vengono picchiati, bastonati, arrestati, torturati, non reagiscono, subiscono, se possibile con il sorriso sulle labbra. La loro è la nonviolenza del forte, non del debole.
Pace interiore, preghiera, sacrificio, povertà, noncollaborazione, digiuno, tenacia, serenità: è fatta di questo la nonviolenza dei monaci buddisti birmani.
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Sono gli stessi valori vissuti e trasmessi da due maestri della nonviolenza che ci prepariamo ad onorare nei prossimi giorni: Mohandas Gandhi (il 2 ottobre, anniversario della nascita, si celebra la “Giornata internazionale della nonviolenza” indetta dall'Onu) e San Francesco d'Assisi (il 4 ottobre, anniversario della morte, è la festa del patrono d'Italia).
Nella memoria di Gandhi e di Francesco siamo vicini ai fratelli monaci birmani, e li ringraziamo per la loro lotta che fa tanto bene anche a noi, che dobbiamo trovare la forza per liberarci dalle basi militari e dalle bombe atomiche ancora presenti sul nostro territorio, e per uscire dai conflitti armati nei quali il nostro paese è coinvolto.
Solo con la nonviolenza l'umanità si potra' salvare.
Mao Valpiana
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 228 del 30 settembre 2007)