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Antenati, profeti, artisti del video-segno e derivati. (Redazione Tellus)
Nam June Paik
Nam June Paik 
17 Ottobre 2007
 

I Lettristi sono gli antesignani: capiscono l'importanza delle immagini in movimento, in verità la primogenitura spetterebbe di diritto ai futuristi italiani, almeno a livello teorico, a parte già quanto è stato detto circa le intuizioni marinettiane, si può aggiungere l'idea di un Boccioni per l'uso di una polimateria, non più solo e soltanto i materiali nobili come il marmo e il bronzo, ma nuovi materiali come vetro, legno, cartaccia, panno, cuoio, specchi, luce elettrica e da qui il passo verso il video è breve. Il lettrista Isou si ferma alla teoria, ma Lemaìtre realizza nel 1951, inCerto che la denuncia di Jameson verso il video, inteso come «a ceaseless rotation of elements such that they change place at every moment, with the result that no single element can occupy the position of interpretant (or that of primary sign) for any length of time», toglie ogni possibile illusione circa le capacità comunicative del video. Opinione che di certo non possiamo condividere, perché la velocità delle video-immagini è parte integrante del messaggio, il movimento è dentro l'immagine, anzi è l'immagine stessa, e si rende necessaria una continua ginnastica mentale acutico-visiva per reggere il dialogo proveniente dal video, oseremmo dire una perenne stimolazione visivo-sensoriale, fin tanto che si resta all'interno dell'approccio televisivo, così come lo conosciamo e pratichiamo. È nota ad esempio, l'asserzione, fatta da Renata Monè che «la fantascienza cyberpunk ha inventato il simstim, una forma di cinema virtuale in cui chi osserva, o meglio chi entra in un cinema, vive il film come se ne fosse il protagonista». E qui, tanto per ribadire ancora una volta come le realizzazioni di oggi siano le idee di ieri, risulta evidente quel punto del Manifesto Raggista (1913) di Miklail Larionov, dove le tele dovevano dare una impressione di stare fuori dal tempo, fuori dalla spazio, in pratica emanare una sensazione che si può chiamare di quarta dimensione.

Le film est déjà commencé? È il primo esempio di sincinema con veri attori nella sala per animare un nuovo rapporto con il pubblico (la stessa idea sarà sviluppata in tempi recenti da Woody Allen in La rosa purpurea del Cairo) mentre la pellicola viene arricchita con disegni, numeri, scritture e il sonoro spesso invertito (idea peraltro già sperimentata da Chlebnikov nel 1908, senza evidentemente il supporto magnetico) con esilaranti e imprevisti effetti rumorici, il tutto in una sorta di destrutturazione e disorganizzazione degli elementi consolidati fino a provocarne la loro morte. Una linea distruttiva è stata praticata soprattutto dal cinema underground nordamericano attorno agli anni Sessanta (Andy Warhol, il canadese Norman McLaren). Tale visione apocalittica, ben si adatta alle analisi mozza-fiato di un Fredric Jameson, che per la ricerca in video, non vede speranza alcuna di salvataggio, non solo, «there are no video masterpieces», e questa affermazione potrebbe a livello ipotetico avere un suo fondamento di verità, ma anche «there can never be a video canon... the deepest subject of all video art, and even of all postmodernism, is very precisely reproductive techonology» (sic). Riportiamo questa che è una vera provocazione, anche gratuita, sarebbe molto interessante conoscere su quale campioni è stato effettuato lo studio, perché talvolta nei nostri incontri pubblici ci sentiamo indirizzare questo tipo d'accusa, che evidentemente si diffonde rapidamente molto più di quanto non facciano le nostre videopoesie. Ora, abbiamo visto come un atteggiamento volutamente distruttivo sia presente in alcune zone di questa ricerca sonora, come è altrettanto vero che esso esiste anche dentro le video-opere. È un grave errore di prospettiva, trasformare ciò che è una parte di una sperimentazione, in una sorta di regola assoluta, o altrimenti detto, scambiare un dettaglio, un particolare per l'opera nella sua integrità. Accanto all'afflato distruttivo, c'è quello costruttivo, che è quanto cercheremo di dimostrare più avanti , soprattutto individuando dei canoni operativi lungo i quali corre la costruzione-creazione della video-poesia, vedremo come la struttura tecno-poetica ne è il nerbo.

  

Lo sviluppo tecnologico, cui il poeta ha il dovere di riferirsi in uno scambio di tipo simbiotico, ha perfezionato la ripresa in video, dapprima incerta e rudimentale ai primi anni Ottanta, poi via via sempre più professionale e alla portata di tutti. Anche per l'approccio al video vale una massima di Jakobson, «è l'uso intenzionale di nuove figure del discorso a portare all'estremo il potere creativo del linguaggio». Questa consapevolezza deve portare il poeta a sentire l'uso del video come una necessità, come una logica conseguenza della sua indagine sulle strutture del linguaggio che lo portano verso quel mezzo, visto nell'ottica di un potenziamento tecnologico della sua poesia. La poesia deve avere un dialogo con i nuovi media, non solo in nome di quel processo di estremizzazione del linguaggio condotto a stretto contatto con il nuovo mezzo, ma anche per divenire socialmente protagonista, appropriandosi dei mezzi di comunicazione, e ivi portare nuova creatività, trasgressione di codice, in una parola, un utilizzo altro. Lo stesso MacLuhan già nel 1966, ammoniva «of course, in this electric age of computers, satellites, radio and television, the writer can no longer be someone who sits up in his garrett pounding a type writer».

 

Qui riappare l'utopia di un'arte totalizzante, che si è visto nascere con le intuizioni futuriste, con le aspirazioni dada, e ricompare anche quella concezione simultaneista, che anziché disporre gerarchicamente gli elementi costitutivi come nel caso della Polipoesia, considera l'opera come un'interazione simultanea di oggetti linguistici appartenenti a codici differenziati. Per esempio, Renato Barilli, in un testo che presentava una meritoria rassegna dal titolo indicativo, parafrasando Walter Pater, Tutte le arti tendono alla performance (1981) scriveva, «i mezzi elettronici, consentono di registrare i valori sonori, gestuali, visivi, di mimica, di comportamento, consentono il riscatto di tutti gli aspetti dell'esperienza verbale che riguardano il corpo e le sue manifestazioni». E ancora Francesca Alinovi in L'Arte mia (1984), ha scritto, modulando un simile assetto, «il suono, nelle sue più recenti applicazioni che hanno invaso il campo della performance, non solo si presenta sotto svariate forme, ma si intreccia indissolubilmente con la mimica, la gestualità, l'azione in generale, e quindi, con elementi plastici, visivi, oggettuali, includendo molto spesso diapositive, film e videotape». Simili affermazioni rimandano a quanto Richard Kostelanetz ha sostenuto fin dai primi anni Settanta, parlando non più di un artist ma di un polyartist: una figura che utilizza abitualmente mezzi, veicoli, supporti e linguaggi espressivi diversi, passando senza soluzione di continuità dal libro d'artista alla fotografia, dall'uso dei media di massa al cinema e alla performance, dalla poesia visuale a quella sonora, dalla prosa alla poesia concreta, prospettando, scrive D'Ambrosio, «sempre nuove ipotesi creative e la continua esigenza di manipolare nuovi linguaggi, di sperimentare nuove scritture, di assicurarsi nuovi supporti». Appunto, nuovi supporti, il poliartista è preso più da questa ansiosa ricerca del medium, mezzi nuovi a tutti i costi, che da una rigorosa ricerca sul mezzo e dentro il mezzo. Il poeta non è l'ape che deve impollinare più fiori possibili, ma selezionare quali sono i mezzi sì e quali i mezzi no.

 

Il video è un mezzo sì, l'ultimo decennio ha sancito l'indiscutibile boom del video in poesia. Ma che cosa si intende per videopoesia? Una definizione di partenza , generale ma utile a inquadrare la tematica, viene ancora da D'Ambrosio, «nella videopoesia, che appartiene alla produzione creativa post-alfabetica, viene prospettata l'integrazione - organica più che per interferenza - del linguaggio video con quelli appartenenti al testo verbale di riferimento (costituito da un'opera di riconoscibile valore strettamente letterario), alla parte musicale, agli eventi fisici e spazio-temporali registrati». E Kostelanetz, specificando il valore di una videopoesia, «literary video differs from other video art in its base of a text conceived within the traditions of literature and a contemporary sense of verbal possibilities». Lo stesso artista-critico americano, sul finire degli anni Ottanta, a proposito di literary videotapes, compila il seguente elenco: registrazione di un reading di poesia, una intervista con uno scrittore che declama brani del suo lavoro, un ritratto d'autore che comunica direttamente in camera con il pubblico, drammatizzazione di storie classiche e creazione di un'opera letteraria esclusivamente per il video.

  

Secondo la catalogazione, invece, che noi introduciamo, la chiave poetica di svolta è il netto rilievo verso il sonoro, quel tanto bistrattato venti per cento che spetta di diritto all'audio nella comunicazione televisiva, un venti per cento a volte posto, a torto, nel dimenticatoio. Che il sonoro rivesta importanza capitale nell'economia estetica della videopoesia, e non solo, ma anche in generale nel film, basta pensare a Fritz Lang, quando nel lontano 1926, l'anno di Metropolis, confessava: «davvero con rammarico ammetto di aver trascurato tutto quanto proviene dall'udito».

  

Spetta alla colonna sonora utilizzata, farci da guida nei distinguo, tra videolettura e videopoesia e videopoesia sonora, tra videoperformance e videoistallazione di poesia sonora. Non si tratta di espandere il linguaggio del testo poetico attraverso l'utilizzazione di altri linguaggi, espansione che avviene spesso sull'onda emotiva dei molteplici e praticamente infiniti suggerimenti tecnologici (si pensi ai computer dell'immagine, ai mixer, a congegni come il mirage o il quantel, solo per citarne alcuni). Per mantenere rigore e progettualità, è necessario ancora una volta riproporre lo schema polipoetico, che prevede delle graduatorie di livelli, che fa porre in primis lo statuto del testo sonoro, che fa dire che le immagini sono al servizio del suono, e non viceversa come sempre è avvenuto e avviene nei videoclip commerciali o nel film o nella videoarte. Utilizzare un medium vuol dire anche rivoluzionarne l'assetto, e, nel nostro caso, è il progetto sonoro che fa da guida. Prima nasce la poesia sonora o lineare, poi la video immagine. Ciò, evidentemente, capovolge la consolidata prassi, nota fin dagli albori del film muto, che vuole l'immagine attestarsi nel ruolo predominante. Solo il grande regista russo Ejzenstejn strabiliva per Sergej Prokof'ev che era in grado «di stabilire corrispondenze tra figure e musica, mediante il magnifico andamento contrappuntistico della musica, organicamente fusa con l'immagine».

  

To fuse video & poetry, è pure il dichiarato tentativo di Don Grabau e Al King, tra i primi a teorizzare e praticare di videopoesia in terra nordamericana, favoriti o spinti da specifici Workshop tenuti all'interno delle Università lungo tutto gli anni Settanta.

  

Il punto di partenza di queste esperienze coincide perfettamente con l'identificazione del testo poetico come guida principe nella realizzazione della videopoesia, «the speaker of the poem, as the person providing the rhythm». Quindi la vocalità è affidata alla lettura di una poesia, senza aprirsi verso i più ampi settori della poesia sonora. Considerando poi il coinvolgimento diretto del pubblico nell'atto creativo, improvvisato nell'uso della telecamera, in aggiunta al movimento di alcuni mimi o danzatori predisposti all'assetto didascalico, è fin troppo evidente rilevare che simili eventi sono ascrivibili più all'ambito della performance che della videopoesia, come si evince anche dall'utilizzo di uno strumento tecnologico sofisticato come il time-delay-/feedback system, più in funzione emotivo-narcisistica che di effettivo dialogo strutturale con il poema, «a pure expression of video where the poet can work with a kind of image echo&decay - you can watch yourself repeat the same gesture, listen to yourself say the same words, see/feel/hear them literally recede into oblivion; all the while new gestures, images sounds take place».

Durante l'ennesimo Worshop, tenuto nell'estate del 1976 (sostenuto dal Poets & Writers, Inc., dal New York State Council on the Arts e dal Center for Music, Drama, Art in Lake Placid, New York), i nostri due autori, Grabau e King hanno saputo elaborare un metodo, che per quanto carente esso possa essere, rappresenta pur sempre uno dei primissimi tentativi di abbordare, prima teoricamente, poi in pratica, la materia video e la materia poesia, evitando approcci approssimativi.

Il primo punto elaborato recita, «make the prewritten poem central, use it as a script, and use video with it in a filmic' sense». Ora, questo modulo filmico sembra contraddire la priorità del sonoro, perchè è notorio che il linguaggio filmico privilegia l'inquadratura dell'immagine, a scapito del parlato o della stessa colonna sonora, sempre o quasi sempre composta a posteriori; e in ogni caso applicare tout court la tecnica del film alla videopoesia, comporta seri rischi di eccesso didascalico, affidandosi ad un andamento narrativo, così tipico del film, ma non sempre proponibile in termini strettamente videopoetici, pena un esito da fasullo re-make. Il secondo punto è un invito alla improvvisazione che ossequiando la famosa massima cagiana «the highest purpose is to have no purpuse», prescrive «use the prewritten poem to improvise with, experiment with the video as pure video, & combine/choreograph the two, selecting & controlling all effects». Nulla vieta di improvvisare via video sulle suggestioni indotte dal testo lineare letto, ma anche l'improvvisazione necessita di regole, o quanto meno di propri equipaggiamenti ambientali, di una oggettistica appropriata e studiata a priori, al fine di consentire all'occhio indagante della telecamera di scrutare qualcosa di diverso che non sia la faccia imbarazzata di qualche spettatore o la scontata zoomata dentro lo schermo del televisore, per l'effimero effetto autoinglobante dell'immagine della telecamera. Il terzo e ultimo punto, «saturate yourself with Videospace, use no prewritten poem, but create, speak, voice, sing in that moment», appare per noi che riteniamo indispensabile uno story-board, del tutto impraticabile, utile soltanto per un principiante che maneggia per la prima volta una telecamera.

  

Negli Stati Uniti, fin dagli anni Sessanta, la sperimentazione video è stata a più riprese sostenuta sia dalle istituzioni pubbliche (e questi Laboratori di videopoesia lo confermano ancora una volta) che dalle reti televisive private. Esemplare è il caso dell'artista fluxus Nam June Paik, inventore nel 1970 di un Video Synthetizer, che permette di ottenere effetti casuali di distorsione e variabilità nelle ricerche video-visuali; ciò avviene perché Paik godeva dei favori di una grossa multinazionale del settore video. Non a caso Global Groove (1971) è prodotto nel Television Laboratory del WNET a New York, e viene definito da Max Almy come «a dynamic and highly innovative work that challanged the conventions of traditional broadcast television and demonstrated the potentials of the new video art form»; infine, sia detto per inciso, spetta ancora all'artista coreano il primato di aver usato per primo il satellite nell'operazione Good morning Mr.Orwell', il primo giorno dell'anno del 1984, in un indimenticabaile collegamento tra New York, San Francisco e Parigi, con visione simultanea in tutti gli Stati Uniti, Francia, Germania e parti del Canada e della Corea. Così Woody e Steina Vasulka, nel 1978 sviluppano il Digital Image Articulator, un potente computer che elabora l'immagine-video in tempo reale, fedeli a un concetto di computer imagery intesa come polytropic («the ability of the frame to contain many planes of information, subject, image and even concepts of time, such as present, past , future, and dream, within one space») e polychronic («the rate at which various images appear, their order and speed»).

In Italia, gli inizi sono più problematici e fino ai primi anni Settanta, la sperimentazione multimediale è affidata ai centri di comunicazione sociale, a livello istituzionale si segnala solo il Centro Video Arte del Palazzo dei Diamanti di Ferrara diretto da Lola Bonora, mentre fra i privati spicca la videoteca varesina di Giaccari. A differenza degli Stati Uniti, le nostre univerisità si rivelano strutture troppo farraginose e conservative per interessarsi del fenomeno, la diffusione e la pratica sono pertanto affidate alle iniziative dei singoli, alla intraprendenza di qualche sparuto critico (Vittorio Fagone, Renato Barilli, Roberto Daolio...) non sempre sostenute a dovere dalle Istituzioni preposte. Esemplare è il caso di un video artista romano, Ciro Ciriacono, ignoto ai più, che aveva già raggiunto sin dagli anni Settanta, in netto anticipo sui tempi, e purtroppo anche rispetto ai ritardati ritmi italiani, interessanti dati sull'uso della trasformazione video, per esempio, era già in grado di far cambiare colore all'immagine video, con il semplice tocco della mano sul video, (La tele-visione, Borgo di Calcata, 1988).

Come si è detto, solamente nell'ultimo decennio, arriva il boom, della video arte e con essa anche il boom della videopoesia, eccone i settori.

La videolettura, è debole tecnicamente, poco creativa perchè il poeta legge il testo poetico, inquadratura fissa, quasi nullo il movimento della telecamera, di cui a fatica si avverte la presenza; anzi tutto è impostato per togliere ogni possibile distrazione dalla lettura del poeta; è utile in funzione didattica, perchè consente la analisi dei moduli orali dell'autore. Sono molti i poeti che hanno sfruttato questo schema. In genere, quando i poeti, raramente, fanno la lora comparsa nelle televisioni di stato, il trattamento loro riservato è quello appena descritto.

Per videoperformance, non si intende l'uso creativo del video all'interno di un intervento spettacolare, bensì la mera registrazione di un evento poetico, una performance di poesia, un atto polipoetico, un'azione, una documentazione consegnata ai posteri e a chi non ha potuto partecipare direttamente allo spettacolo; anche qui un uso passivo della telecamera, che trascrive fedelmente quanto avviene, un documento di lavoro che azzera, come si suol dire, le distanze geografiche. Esempi di questa linea sono: Fernando Aguiar con Homage from the alphabet to M.M.B. du bocage in the shape of acrostic sonet (1988), Arrigo Lora Totino Poesia ginnica (1986), Massimo Mori Telephone Dream (1989), Jurgen O. Olbrich O Ton- Monolog fur die kunst (1987), Giustina Prestento Intrecci (1988), Endre Szkàrosi Skin church (1987), Anna Homler Pharmacia poetica (1992), Bartolomè Ferrando Desde un libro (1989), il colombiano ma ginevrino d'adozione Edgar Acevedo con Word warehouse (1988) su una performance di David Moss e The strange pleasure (1988) su un'azione di John Giorno.

 

La videopoesia, è il settore che presenta aspetti più stimolanti rispetto ai primi due. La colonna sonora è una inequivocabile poesia lineare, il più delle volte letta, con lievi accorgimenti come riverbero o eco. Il poeta, constatata la vulnerabilità e la malleabilità della parola, va alla ricerca di un legame con l'immagine in movimento per piste analogiche, ridondanti o didascaliche, anche di riscrittura del videopoema con la telecamera al posto della penna; tecniche associative, che ampliano o riducono o si sovrappongono allo stesso contenuto orale, in quest'ultimo caso, si può anche assistere ad una nuova riscrittura del poema, tenendolo a dovuta distanza. Certo il videopoeta deve acquisire il ritmo televisivo, dato dal montaggio delle immagini, attraverso percorsi ben diversi del taglio tipico del verso scritto (accentuazione, sillabe, rima, enjambement...), e soprattutto deve possedere il senso del tempo televisivo, che non è più un problema di avverbi o verbi, ma la durata stringente e inequivocabile del linguaggio televisivo.

 

Ferruccio Macor e Gianfranco e Toni Casula in Vicoli veicoli (1989), tendono a fondere immagini reali tratte da esperienze di viaggio e quotidiane con tavole ed animazioni realizzate al computer, le musiche e soprattutto i testi guidano sotto la regia dei significati l'omogeneità del lavoro. Corrado Cicciarelli, in L'uomo folle (1989), parte da un'affermazione tragica, «non si è fatto più freddo? non seguita a venire notte, sempre più notte?" e questa disperata profezia nietzschiana sembra giunta al suo compimento. Una sola parola, la sola parola notte, viene battuta ritmicamente seguendo un metronomo, traducendosi in nacht, nuit, e night, mentre il poema si sviluppa seguendo lo scorrere implacabile del tempo, l'aura da catastrofe imminente è visualizzata da mani che continuano imperterrite a manipolare un teschio. Vitaldo Conte con la collaborazione di Vittorio Fava, in Omelia a De Sade (1986) sfrutta la tecnica del film d'animazione per movimentare la scrittura sia dal punto di vista visivo che sonoro. Massimo Mori con Crash syndrom (1987) tiene il testo poetico letto nella dovuta considerazione, pilotandolo verso un climax tonico corrispondente allo svelamento di un trucco gestual-televisivo. Massimiliano Milesi in Cartolina d'amore (1990) sfrutta un testo di Georges Perec per gettare sul video momenti di un'attesa quotidiana. Pino Blasone con Postgotico (1987), opera una lettura sottolineata da tele-diapositive in stretto contatto ridondante con il testo medesimo, mentre Achille Bellanca in Liumen (1987) è interessato ad una rotativa, ripresa non già nella sua attività o secondo una logica descrittiva della sua funzione, ma piuttosto come un fossile' dimenticato nel ventre di una metropoli, forse dopo una catastrofe nucleare. Il testo poetico rievoca la storia del bisogno dell'uomo di comunicare attraverso segni e tecnologie sempre più efficaci e raffinate; la luce particolarmente studiata, ne ha risvegliato e scovato dall'ombra, profili e maschere spesso così autonomi da assumere valore metafisico e profondamenti connessi al testo poetico. Silvano Onda in Il cielo di Galilei (1987), non segue una linearità espressiva di tipo figurativo, è un racconto in prevalenza astratto, tanto da immaginare Galilei nei meandri celesti. Un Galilei monologante con se stesso, con la sua parte più intima.

È un tentativo di vedere con la poesia, rinunciando all'ottica razionale, la realtà delle cose, il che consente all'opera di costruirsi su una dimensione ludica, un gioco denso di significato. Antonello Ricci con Offerta verbale (1989) parte dallo sviluppo canonico di un palindromo sillabico, e con l'ausilio di suoni e colori tesi a potenziare le diverse stratificazioni, svolge il suo tema che intende «definire l'estetico come modo del pensare non mediato dall'inteletto analitico». Gianni Toti sia in Nebulosa testuale (1983) che in Per una videopoesia, concerTesto e improvVideazione per mixer, memoria di quadro e oscillo-spettro-vector-scopio (1980) «comporta - scrive D'Ambrosio - una profonda trasformazione delle strutture sequenziali dei testi, della rappresentazione lineare e delle correlazioni spaziali, e si segnala anche per i risultati tecnici raggiunti; essa propone un flusso di variazioni contestuali e di singolari convergenze di colori, forme e figure geometriche in movimento, musica e scritture elettroniche; con ritmo incessante e imprevedibile, la frenetica proliferazione dei linguaggi, le continue associazioni, scomposizioni e ricreazioni letterarie, visive e sonore producono effetti di percezione, simbolici e di senso decisamente insoliti e a volte sorprendenti», anche se, talora, certi eccessi gratuiti di esibizione meramente tecnologica fine a se stessa, possono favorire accuse giustificate del tipo esposto da Jameson, più sopra.

 

Infine, ci pare interessante, citare per intero il processo che porta alla produzione della videopoesia, una sorta di story-board, nell'esperienza prodotta da Stephen Vincent e Ellen Zweig presso Lake Placid, dove nel 1976 lo stesso Vincent era stato invitato per uno workshop che partendo dal suo poema The Ballad of Artie Bremer (Bremer era il giovane dal perenne sorriso sulle labbra che aveva tentato di assassinare George Wallace) avrebbe portato alla produzione di una video-opera. Il suo scopo era quello di «to take the poem and the conception of the book out into a larger space and world». La realizzazione di questa video-opera prevedeva la partecipazione di due danzatori, un uomo e una donna, che agivano nello spazio in cui coesistevano o si alternavano diverse proiezioni: della figura dell'autore che è presente, impegnato nella lettura del testo verbale, degli spettatori che finivano col partecipare attivamente all'azione visto che alcune camere ne registravano e ne proiettavano simultaneamente la presenza fisica, di interviste casuali, registrate in precedenza, a persone cui si chiedeva se conoscessero il protagonista e l'argomento del poema. Questo circuito, commenta D'Ambrosio, video-spazio prossemico realizza effettivamente una straordinaria espansione del poema, aumenta lo spessore della significazione dell'opera, e dimostra ancora una volta, che è il testo poetico a far derivare da sé le coordinate della videopoesia. Affermazione scontata, però non ci sentiamo di accreditarla totalmente all'esperienza appena citata, perché, anzitutto, quando Vincent dichiara, «my actual reading of the poem,instead of being seven or eight minutes, was expanded to the half-hour", lo fa senza valide nè ragionate giustificazioni teoriche, su un punto, il tempo, così decisivo, nell'economia estetica della struttura videopoetica. Inoltre l'eccessiva insistenza da videoreporter sulla domanda "Who was Artie Bremer», rivolta casualmente alla gente che esce da un supermercato, materiale montato in Ampex, e programmato durante la sua lettura dal vivo in contemporanea esibizione di due danzatori, trasforma l'intero evento da una potenziale videopoesia ad una performance che di fatto tenta il rapporto tra lettura, danza e video, non a caso il titolo del laboratorio era Video-Poetry Performing Workshop.

  

La videopoesia sonora, si distingue dalla precedente per la diversità della colonna sonora, che qui è data da un poema sonoro nella tipica accezione finora accettata, mentre nella videopoesia è una poesia lineare, letta a ricoprire il ruolo di guida sonora, anche se in entrambi i casi è il ritmo sia esso lineare che sonoro, a far scandire anche il ritmo televisivo; altrimenti detto, i due ritmi devono sapersi dialettizzare, all'uopo, o sdoppiarsi o parallelizzarsi, financo ignorarsi, in ogni caso rapportarsi . Scontato punto di partenza è, quindi, la poesia sonora, quella poesia sonora che ostinatamente vuole percorrere fino in fondo quelle «possibilità foniche totali offerte in ogni istante dalla lingua a chi voglia usarle» (De Saussure). Andare fino in fondo, significa sfruttare quelle che Decio Pignatari chiamava «le contraddizioni tra il verbale e il non verbale», aprendo fonde voragini sonore, bel oltre anche la normale prassi linguistica, dove la parola può scomparire per emergere come centralità tonale, e rituffarsi dentro il buco nero della stessa materialità fonica. A ragione Okpewho sottolinea che questa poesia (la poesia sonora) «non ha per funzione quella di trasmettere dei contenuti intellegibili, ma solo suoni e ritmi». Ecco perché, sia nel terreno verbale che in quello televisivo, visto che spesso manca un riferimento logico-razionale immediatamente riconoscibile (la parola, l'immagine reale) è necessario procedere con la piena consapevolezza di riporre sonorità accanto a sonorità, vocalità accanto a vocalità, e video-immagini accanto a video-immagini, praticando quanto Jakobson ha sintetizzato come «la preminenza del legame». Considerata la frequente scomparsa della parola, anche la video-immagine si inoltra nelle astrattezze tridimensionali di chiara derivazione da computer.

  

I nostri primi esempi di videopoesia sonora, Poematico (1980) Diario Come (1982), come anche Chorus e Wow flutter stop (1984), nonostante una evidente rarefazione del sonoro, includevano immagini provenienti dal vissuto come supporto didascalico, come sovraccarico di senso, serie di accenni esistenziali ma montati con ritmo ossessivo, tale da far appena filtrare la chiarezza dell'immagine, fedeli più che al suono, al ritmo significante. Vittorio Fagone, commentando, appunto, Chorus, nel 1984, così scriveva «...Chorus è un videopoema che rinunzia alla parola e carica la forza dei suoi significati sulla frammentazione e iterazione di immagini-ritratto dell'autore stesso moltiplicate per scorci di architettura, intervallati da segni ortografici. Soggettività di espressioni emozionate e simboliche condensazioni di figure valgono tutte insieme a stabilire un flusso di immagini modulate come parole dentro lo schema di un'unica composizione, Chorus si distacca coraggiosamente dai moduli più famosi della poesia elettronica...». Poi, con Volto pagina (1986) il sonoro ha perso per lo più la sua connotazione significante, e anche la video-immagine, seguendo il ritmo dei poemi, si è completamente affidata alle tecniche artificiali del computer che ha rielaborato un'immagine di base prodotta artigianalmente e formata da diapositive create manualmente con ogni sorta di materiale stipato dentro il suo minuscolo reticolo. Anche in Videopoema (1987), abbiamo fatto una scelta analoga, anche se diversamente maturata, perché il testo sonoro di base è perfettamente riconoscibile, con un impatto immediato, forte della sua continua ripetizione della parola poema. Un sonoro così ben definito, ci ha indotto a scegliere una video-immagine volutamente ambigua, una serie di cartoons molto a fuoco e in continuo movimento che è poi il movimento della parola orale. Alcuni interventi di tipo linguistico, usando la tecnica della sovrapposizione, ampliano la struttura dell'intervento verbale, ammiccando un doppio significato. L'unica immagine non artificiale è data dai tre secondi della nostra figura in performance, corrispondente al punto in cui, oralmente, scandiamo poEnzo poeMinarelli ah!. Infine, le ultime due nostre video-produzioni, VideoRegina (1991) e Con Sonanti (1993) imboccano ancora un'altra strada, con una scelta di immagini deboli, statiche, ripetitive per dare un risalto maggiore al poema sonoro; ridurre al minimo il disturbo visivo, per far prevalere la colonna sonora.

I primi esempi del settore si fanno risalire a The missing poem is the poem (1974) di Maurizio Nannucci con l'uso deviante della macchina da scrivere, ritenuto oggetto radicalmente trasformato, e forse inutile, a favore dell'uso del corpo, della voce e della tecnologia; Nannucci inquadra la mano che scrive il titolo-messaggio, riprendendo una lungimirante intuizione di Lászlo Moholy-Nagy, «the most valuable part is not which presents something new, but which is missing, in other words, the spectator's delight may be derived partly from the artist's effort to eliminate the obsolete solutions of their predecessors». Luigi Viola con Cancellazioni (1975) dove il poeta, dopo aver constatato che «la poesia modifica solo se stessa», conclude l'azione-poema, simulando un suicidio. In A 5' writing (1977), Viola associa i quattro tempi di scrittura ad altrettanti movimenti fisici. Forse il vero precursore di questo nuovo rapporto video-poesia è proprio Richard Kostelanetz, Epiphanies (1981) e Video Writing (1987), per continuità di creazione e per lo stupefacente rapporto tra quantità-qualità di prodotti. Il primo lavoro risente e si ispira dichiaratamente alla nota tecnica joyciana, mostrando concretamente momenti, dettagli, particolari che si prestano ad una facile sublimazione dal loro contesto urbano, per assurgere al ruolo di simbolo, e poter quindi rappresentare uno statuto superiore. Il secondo è una summa sui diversi usi del video versus la poesia, dalla documentazione alla creatività del mezzo. Particolarmente stimolanti i videopoemi che mostrano su un campo nero due bocche ingrandite Recyclings (1974), in primo piano, con labbra in continuo movimento e tese alla pronuncia delle parole, parole che rimbalzano da una bocca all'altra, dialogo metonimico, e massima concentrazione su quell'apparato buccale tanto importante da destare sopite sensazioni tipiche del linguaggio dei sordo-muti. Lo stesso poeta così teorizza, to do Excelsior - l'anno di produzione dei videopoemi citati è il 1975 - a truncated story in which two people make love in one-word paragraphs, I created a circular visual image for each character. As voices change, the screen flashes rapidly from one moving image to the other. In Plateaux, with its single-word paragraphs, each relating a different stage (or plateau) in the development of a love affair, we used video feedback to create a kaleidoscopic moiré pattern that changes slowly in no particular direction, complementing visually the pointless, ultimately circular development of the fiction's plot. For Openings & Closings, I instructed the large staff list, first, to alternate between color cameras for the openings and black and white cameras for the closings, and then to make each new image (mostly of me reading) as different as possible from the one before, thus realizing visually the leaps of time and space that characterize the radically discontinuous prose text.

 

Sten Hansson, diretto da Peter Meyer, compie con New York (1983) una rigorosa operazione di poesia sonora, ponendo se stesso in scena, protagonista la sua voce, protagonista il suo corpo, ai limiti della videoperformance. Vladan Radovanovic in Delay e Around (1983-84), riesce ad accoppiare la costruzione di una immagine semplice in perfetta sintonia con il significato del poema; il secondo video-poema sfrutta il concetto del bordo del margine, del confine per far ruotare la propria faccia, proprio sulla linea di separazione tra ciò che si vede nell'inquadratura e ciò che non si vede. Vittorio Fava in Mnemosine (1989) parte da una poesia sonora di Luca Miti per incollare sui suoni, dettagli e primi piani di un proprio oggetto creativo, un armadio con tanto di cassetti pieni di ricordi. L'austriaco Ide Hintze, in Act in a and ah (1987), insegue improbabili dialoghi tra una voce che parla in televisione e lui stesso, mentre, nelle sue performance, ottiene delicati equilibri tra il gesto e il suono, l'atto di scrivere è preceduto dal suono o viceversa, verso un de-crescendo scandito dal ritmo, visualizzato nell'accumulo dei segni, che restano come traccia di una voce che non è più. Joel Hubaut, con Joel Hubaut alias Don Joel Hubaut de la Mancha (1989) crea un grande apparato di collage con assemblamenti di diversa origine, performance, video-art, videopoesia, video-clip, anche se il ritmo che riesce a infondere è così rapido e deciso nei tagli, da non appesantire mai l'azione, e da non deturpare l'aura generale del lavoro che resta fondamentalmente ascrivibile nella casella della videopoesia sonora. E' un affresco sulla sua molteplice attività, è il tipico poliartista, che usa pennello e microfono, telecamera e macchina fotografica, la voce e il corpo.

 

La videoambientazione di poesia sonora, è la vocalità poetica che non solo si riferisce alla video-immagine ma si relaziona anche con l'ambiente, s'innesta in un tessuto archittetonico, in sintonia con gli oggetti, e in una parola, con la realtà del reale'. Si tratta di videoinstallazioni o meglio di videoambientazioni che hanno come tratto di partenza, il poema sonoro. In genere le videoinstallazioni sono molto carenti da questo punto di vista, sono molte elaborate come tasso architettonico, ma quasi mai posseggono una colonna sonora stimolante, perché è, evidentemente, l'ultimo aspetto che interessa.

Crediamo di essere tra i pochissimi poeti (con la messicana Laura Elenes, il francese Joel Hubaut) ad avere creato una serie di videoinstallazioni di poesia sonora, la prima Volto pagina è del 1986, Le tre velocità del videocruciverba parlante (1987), La bandiera (1989) e La bottega (1991). In La bandiera abbiamo deciso di scartare la pista della fusione per ridondanza del livello sonoro e del livello visivo. Come sempre abbiamo scelto con cura un poema sonoro, in questo caso Regina, che si articola strutturalmente lungo il percorso della parola italiana più ampia, vale a dire precipitevolissimevolmente, regina, appunto tra le parole italiane. Ne deriva un brano che supportato da una nitida base musicale, affronta la suddetta parola con canoni d'intervento tesi ad ampliarla, ridurla, intraverbalizzarla. L'idea di creare una bandiera, è venuta perché stavamo cercando qualcosa che avesse la quintessenza dell'italianità, un qualcosa che avesse un ritmo (lo sventolìo, il tipico flusso della stoffa della bandiera), e allo stesso tempo, qualcosa di immediatamente riconoscibile per tutti, qualcosa di intrigante e semplice, con forti richiami e che soprattutto, potesse consentire un intervento visivo facile tale da impressionare al primo impatto. Così le tre sezioni della bandiera sono date da tre televisori posti verticalmente, che fedelmente riproducono per tutta la durata del poema, i tre colori della bandiera italiana, sventolante. A questo punto, per distanziare il prodotto dalla tipica videoinstallazione, a parte già l'evidente e sufficiente distinguo della colonna sonora, entrano in gioco i seguenti fattori: le tre finestre-colore della bandiera diventano simili a tre fessure di una slot-machine perché il colore, in coincidenza con particolari momenti del sonoro, viene sostituito per metonimia o sineddoche o allusione con un'immagine, anziché lo sventolìo del verde compaiono le immagini di Giuseppe Verdi, il noto musicista italiano, l'immagine di un tribunale nell'attimo del verdetto, un fondo di portafoglio vuoto quindi al verde, un gruppo di teen-agers, una zona urbana verde; al posto del rosso compare l'immagine di Karl Marx, un tubetto di rossetto per labbra, due labbra provocanti e sensualmente rosse, un libro di contabilità con i conti in rosso, i volumi de Il Capitale di Karl Marx, mentre il colore bianco centrale è sostituito da immagini di biancheria intima. Non solo, ma i tre schermi-video assumono anche la funzione di pagina, in grado di ricevere parole, qui davvero in movimento, ben oltre la fissità statica della pagina scritta. Visivamente le parole appaiono sugli schermi secondo il seguente schema: precipite che richiama il senso di caduta, è scritta e fatta calare dall'alto, a simbolo, appunto, di caduta, volissime con il suo forte richiamo alla volontà, è scritta orizzontalmente ed è fissa, statica, mentre volmente, con l'implicito accenno del volo, viene fatta scattare verso l'alto. Ecco le molteplici suggestioni che una singola, per quanto complessa, parola, contiene dentro il suo corpo!

  

Sul finire degli anni Settanta lo studioso ginevrino René Berger ha elaborato una triplice ripartizione per leggere al meglio l'universo del video, macrotelevisione (le grandi televisioni di massa, statali o commerciali votate al grande pubblico), mesotelevisione (le televisioni via cavo) e microtelevisione (il ristretto mondo delle piccole produzioni, il microcosmo della video-arte). Oggi, simili distinguo si sono inevitabilmente assottigliati, ed è facile dimostrare, come nel caso della video-poesia, che quelle tre caratteristiche sono ben presenti contemporaneamente nello stesso modulo produttivo.

  

Tutte le distinzioni tecnico-estetiche tra le diverse sezioni di video-poesia che noi abbiamo operato sopra, possono essere ascritte alla casella della microtelevisione, perché si tratta di produzioni indipendenti, realizzate con equipaggiamenti professionali, che non devono rendere conto a nessun censore, a nessun committente particolarmente restrittivo o reazionario; il budget di produzione viene in genere fornito da una istituzione o uno sponsor privato che non intende lucrare sul finanziamento, quanto consentire il concreto svolgimento di una atto creativo. La loro pratica non si ispira tanto alla veicolazione di nuovi valori educativi o democratici, quanto, diremmo, a quel senso di riappropriazione della televisione intesa come medium, per trasformare la acquisita passività del ricettore televisivo in attiva creazione di cultura. È altresì vero che il circuito della video-poesia che è poi a sua volta, innestato dentro a quello maggiore della video-arte, quando non è in grado di reggersi autonomamente, (come nel caso del nostro Video Sound Poetry Festival, tuttora uno dei rari incontri esclusivamente dedicato ai rapporti tra il video e la poesia), può essere inteso anche come mesotelevisone, perché il pubblico di un video festival, video-arte o video-poesia non fa differenza, assomiglia in tutto e per tutto alla ristretta audience di una pay-tv; un nutrito, fedele e paziente drappello di fans, pronto a ingoiarsi ore e ore di visione, senza fiatare, lo abbiamo puntualmente riscontrato a qualsiasi latitudine. Tutti i maggiori video-festival europei si allineano lungo una simile sequela di atti organizzativi, il video-concorso, il simposium, le video-installazioni, la video-grafica, il premio assegnato da una giuria internazionale, la programmazione ad libitum ecc. ecc., favorendo essi stessi con tale uniformità d'approccio non scritta, indelebili connotati di un a-tipico meeting, frequentato evidentemente soltanto da chi ha un forte interesse o motivazione verso il prodotto video-creativo. Infine, la video-poesia, per non essere solo e soltanto il bel giocattolo elitario, un gratuito atto creativo, frutto di un egoismo poetico, deve tenere come indispensabile riferimento la macrotelevisione, sia quando lo stessa grande emittente veste i panni del committente (e sempre più di frequente è successo, e continua a succedere) sia quando la video-poesia, grazie alla particolarmente illuminata apertura di un qualche dirigente televisivo, riesce a entrare nel palinsesto, ritagliandosi un posto non come sigla televisiva, ma come costante programmazione, anche se passata non proprio in orari da peak-time.


 
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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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