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Ivana Cenci: La reciprocità. Fedeltà a se stessi nell'incontro con l'altro.
27 Settembre 2007
 

Nell’incontrare questi due termini, che di primo acchito possono apparire un’antinomia, desidero indicare la polivalenza di sguardo con cui li leggo: uno sguardo che, nel cogliere gli elementi della contraddizione, avverte anche sfumature di profonda vicinanza e stretta relazione che possono emergere dall’accostamento dei concetti che tali termini mettono a confronto. Avendo avuto modo di verificare, anche attraverso l’esperienza personale, quanto sia difficile mantenere la fedeltà a se stessi, oso attestare in maniera altrettanto consapevole che un rapporto di reciprocità può costituire una condizione nella quale la fedeltà a se stessi può essere non solo mantenuta, ma anche promossa. La condizione nella quale ravviso questa opportunità è data fondamentale da un rapporto nel quale siano mantenuti validi e rispettati da e per ciascuno dei partner i valori fondamentali della libertà e del diritto alla crescita nella direzione di un graduale avanzamento verso la verità e la bellezza.

 

Nella misura in cui questi criteri sono rispettati, pur non assicurando questo di per sé una garanzia, una persona coinvolta in un rapporto di interazione con altri può trovare le condizioni per dare corso alle proprie attese, anche le più profonde e strettamente personali e incontrare le opportunità di evoluzione e di crescita cui aspira. Questo può avvenire sia in virtù del reciproco apporto all’interno della coppia, grazie al quale, nell’avvertire la libertà e il piacere di esprimersi, ciascuno sente inoltre riconosciute le proprie qualità e ha occasione di promuoverle, sia in relazione al fatto che, pur condividendo alcuni o molti aspetti della vita con l’altro, non sente impedito l’accesso a spazi vitali o risorse che possano arricchire e incrementare la sua crescita.

 

Alla luce di questa prima indagine, si fa evidente in me la convinzione di come fedeltà a se stessi voglia dire prima di tutto, e soprattutto, capacità di mantenere fede e dare spazio alle proprie attese più vere, più elevate e più ambite, senza cedere alla tentazione di lasciarsi sedurre da quelle più immediate, più convenienti, più facilmente accessibili, o rispetto alle quali le circostanze sembrano offrire maggior credibilità. Essere fedeli a se stessi è quindi mantenere vivo il proprio desiderio, nella forma e nella direzione verso cui esso si volge spontaneamente e con maggiore insistenza, quando è libero da condizionamenti, pressioni, seduzioni e urgenze che premono dall’esterno e, distraendo o convogliando altrove la nostra attenzione, possono confonderci, indirizzandoci verso direzioni e mete che poco o nulla hanno a che fare con il desiderio autentico e profondo.

 

Il concetto di fedeltà a se stessi implica necessariamente la responsabilità di tutelare il proprio spazio vitale, di promuovere le proprie risorse e sostenere, in un confronto leale con quelle altrui, le proprie convinzioni, le proprie attese verso la vita, senza il timore di essere giudicati, rimproverati o puniti, nelle diverse forme in cui la punizione può trovare forma, compresa quella tutta particolare costituita dalla privazione dell’amore da parte di colui/colei, coloro a cui vogliamo bene.

 

La forza e la capacità di mantenere fede alle proprie convinzioni e alle proprie attese, se da un lato possono ritenersi legate alla salute fisica, al coraggio, al rigore e alla testardaggine che una persona mostra e possiede, molteplici e pertinenti ragioni testimoniano la non esclusiva e la non perfetta attendibilità di questi criteri, indicando piuttosto nella flessibilità e nella capacità di adattamento, quindi in una predisposizione al cambiamento una delle qualità fondamentali per dare adeguato ascolto alle proprie aspettative e mantenere il contatto con la propria domanda interiore nel corso del passare del tempo, del succedersi degli eventi e delle vicende personali.

 

Qualcosa che sicuramente scardina e produce smarrimento e motivo di abbandono o trascuratezza rispetto ai propri obbiettivi è il verificarsi di un lutto o di un trauma grave: eventi che possono scomporre o addirittura divellere la visione generale della vita e del mondo che una persona si è costruita e a partire dalla quale ha improntato il suo agire e l’investimento delle proprie risorse. Eventi e disgrazie gravi, sia individuali, sia collettivi, rispetto ai quali l’individuo avverte un senso di totale impotenza e mancanza o impossibilità di soccorso da parte del mondo esterno possono sconfortare e spingere il soggetto verso la propensione ad appoggiarsi a convinzioni e linee di vita prima non considerate, che egli prende e assorbe da altri, risolvendosi a sostenere quelle, piuttosto che le proprie, ritenute non più attendibili o insostenibili, oppure a preferire la scelta di obbiettivi più limitati e più facilmente raggiungibili, rispetto a traguardi che richiederebbero più vasti e prolungati investimenti di energie. Anche una delusione vissuta come pesante, un importante progetto lavorativo, affettivo o amoroso nel quale si è creduto profondamente e ci si è tuffati anima e corpo senza riserve, e che non è potuto giungere a compimento, non ha dato i suoi frutti o, ad un certo punto, senza che fosse nelle nostre facoltà porvi rimedio, si è inceppato ed è andato a rotoli, può costituire motivo che incide pesantemente sulle capacità di un individuo a perseguire i propri traguardi.

 

Ancora, e soprattutto, è la mancanza di libertà a costituire un serio impedimento al raggiungimento delle proprie mete e questa verità è avvertita in maniera ancor più pesante quando si è all’interno di una relazione affettiva, amorosa o sessuale. Come dire che gli impedimenti dell’uno si sommano e si moltiplicano, nell’incontro, con quelli dell’altro, rischiando facilmente di paralizzare o rendere inefficaci sforzi anche molto elevati da parte di uno o di entrambi, dato che la buona volontà, se può venire in aiuto al bisogno di evitare una rottura, può anche costituire un impedimento a far sì che le problematiche vere e proprie emergano nella loro autenticità e, di conseguenza, poter individuare soluzioni adeguate e apportare i cambiamenti necessari ed efficaci. Per mancanza di libertà non intendo, ovviamente, soltanto uno stato di costrizione, di limitatezza e di impedimento fisici, situazioni che indubbiamente influiscono in maniera negativa molto pesante. Ritengo tuttavia che gli impedimenti psichici siano assai più diffusi e incidano in maniera molto più vasta e nefasta di quanto siamo portati a pensare, soprattutto per il fatto che agiscono nella totale o parziale inconsapevolezza del soggetto, volgendo altrove le sue scelte e i suoi pensieri in maniera subdola, senza che egli possa apportare a se stesso o all’interno della coppia gli interventi e i soccorsi necessari a ripristinare per sé e per l’altro uno spazio adeguato alla domanda interiore. Succede, per es., che un senso di colpa, incuneato da altri o individualmente coltivato, faccia sì che una persona, pur avendo delle mete e avvertendo un forte desiderio di raggiungerle, di fatto incontri o produca inconsapevolmente essa stessa degli impedimenti tali da invalidare il proprio percorso. Rispetto al desiderio sessuale, che chiede la soddisfazione di un bisogno eminentemente soggettivo e, nel contempo, implica la necessità di incontro e confronto con l’altro, le ragioni che possono costituire motivo di deragliamento dal rimanere fedeli a se stessi sono innumerevoli, talvolta perfino inevitabili. Ma, nondimeno, anche il desiderio di sfuggire la solitudine, o l’urgenza di sistemarsi in una maniera ritenuta socialmente conveniente possono spingere a scelte o ad accettazioni che ci allontanano dall’essere, in favore di un avere e ci fanno gradualmente perdere il contatto profondo con noi stessi. Sia considerando esperienze altrui, sia sulla base del mio vissuto personale, mi sento di affermare con fondata attendibilità che tutti i deragliamenti si pagano a carissimo prezzo. Possiamo scegliere di non ritornare affatto sui nostri passi, evitare in tutti i modi di metterci a fare i conti con le nostre istanze fondamentali, e dirci che così va il mondo e che, dopotutto, anche gli altri non fanno di meglio: il peso e la disillusione, il senso di invecchiamento e di chiusura parlano implacabilmente dentro di noi, prendono il nostro posto e possono arrivare a toglierci la parola.

 

Se trovare la condizione che faccia combaciare le proprie attese con la disponibilità dell’altro è un’arte estremamente difficile e un dono nient’affatto garantito, l’esperienza dice che accontentarsi, rassegnarsi o tentare di addomesticare il proprio sentire comporta un conflitto con se stessi che non cessa mai e non dà tregua, assorbe una quantità di energie incommensurabile e può rischiare di farci smarrire senza ritorno. Succede spesso, è un’esperienza piuttosto comune, che a motivo di un sentimento, di un trasporto o di una speranza coltivata lungamente nel cuore, si sacrifichino la propria ambizione, le convinzioni maturate e acquisite nel corso della propria esistenza, le conquiste e lo spazio vitale conquistati da tempo e magari a prezzo di notevole impegno. Si può anche essere state educate e persuase a credere: parlo al femminile, senza però che sia da intendersi in maniera esclusiva, ritenendo questa consuetudine riferita soprattutto alle donne, che occorra pagare un certo tributo in cambio del soddisfacimento di un desiderio, nel senso di dover sopportare una certa arroganza, delle forme di sopraffazione, varie forme di aggressività che obbligano ad un continuo mandar giù per quieto vivere, per far andare avanti le cose o, in certi casi, per proteggere i figli.

 

Una cosa che accade frequentemente e che mi preme indagare è il conflitto o la condanna di trovarsi costretti ad accettare che l’altro venga meno a una disponibilità inizialmente mostrata, alle promesse dichiarate o indicate e all’impegno a condividere la responsabilità di far sì che ciascuno dei due partner possa stare bene all’interno del rapporto, e questo perché presi dal timore o dal terrore di perdere la persona, di perdere il rapporto, con tutte le garanzie e le rassicurazioni che ad esso si attribuiscono, senza che ci si renda conto della deprivazione, della perdita e dello smarrimento di sé cui una simile situazione inevitabilmente conduce. In merito a situazioni di questo tipo mi sento di individuare, probabilmente, la presenza a monte di insicurezze profonde o di traumi e lutti pregressi tali da portare una persona a rischiare di perdere in maniera anche drammatica il contatto con se stessa, per timore dell’evidenziarsi, in una maniera che avverte come definitiva, una solitudine di cui porta già in sé tutta la pesantezza. Quando si cerca di perseguire una propria soddisfazione personale o di conservare un proprio spazio in un rapporto di stretta relazione è facile scontrarsi con l’evidenza che coltivare la propria ambizione comporta, quasi necessariamente, un conflitto con l’altro: quell’altro, oggetto del nostro desiderio e soggetto del proprio desiderio, che domanda di far convergere sulla propria persona la maggior quantità possibile della nostra libido, per timore di sentirsi privato o sottratto indebitamente di qualcosa che ritiene in qualche modo di sua pertinenza.

 

Mi urge chiedermi: che ne è, che cosa ne può essere, della fedeltà a se stessi, in un siffatto rapporto, specie quando il legame affettivo è molto forte e l’abitudine a vivere insieme consolidata da tempo, e ancor più quando si avverte in maniera netta e profonda che la rottura di questo rapporto, oltre a chiederci uno sforzo che avvertiamo superiore alle nostre possibilità e l’esposizione a rischi e pericoli anche molto concreti e pesanti, potrebbe rappresentare per l’altro la fine totale e definitiva? E che, di conseguenza, magari trovando uno slancio temerario che ci conduca verso una possibile uscita, dovremmo portarci addosso, oltre al nostro, anche un peso perenne da parte dell’altro?

 

Nell’impossibilità di elaborare, a tale riguardo, proposte risolutive che possano andar bene su un piano universale, quel che posso testimoniare è che quando si presta più ascolto all’altro che a se stessi, di sicuro c’è uno sbilanciamento e una perdita di contatto con il proprio essere e le radici che ci danno fondamento. E, quando si perde il contatto con se stessi, non si è più in grado di orientarsi, di fare delle scelte o di essere di aiuto a qualcuno, tanto meno a sé.

 

Come dice Maria Zambrano, le donne sembrano sempre disposte a spostare il loro baricentro, per fare posto all’altro, e questo è senza dubbio legato alla peculiarità e strutturale predisposizione della donna a fare spazio in sé per dare vita ad altra vita e a farsi nutrimento e garanzia per la vita. Io aggiungo che, indubbiamente, sono state anche addestrate a farlo, con complice adesione da parte loro, dalla necessità e dalle convenienze sociali secondate da una società che nel corso dei millenni non ha saputo scindere e far convivere armoniosamente il ruolo di donna e quello di madre. Sommando a tutto questo il fatto che le donne sono ritenute, si sentono e si vivono come strutturalmente mancanti, sia pur per pregiudizi e per consolidate abitudini dure ad evolvere, non c’è da meravigliarsi se si trovano facilmente e senza saperlo imprigionate in un vicolo cieco. E se in quella condizione diventa di fatto impossibile ribaltare una situazione di dipendenza, di frustrazione e di impasse che affligge e rende impotente tanto l’uno quanto l’altro dei partner. La possibile evoluzione per questo conflitto, nella nostra società occidentale e nei singoli individui che la compongono è rappresentata, a mio avviso, dalla necessità, che è anche un’opportunità, di prendere consapevolezza che le donne, prima di essere strumento di riproduzione e conservazione della specie, e per poter continuare a svolgere questo ruolo in maniera adeguata ai tempi e alle problematiche attuali, sono degli individui aventi, in se stessi, un valore intrinseco di autonomia e di interezza che chiede di essere riconosciuto ed esercitato. E che è diventato improcrastinabile per ciascun individuo assumere la consapevolezza e la responsabilità del proprio essere, della sua unicità e della irrinunciabile importanza di occupare a pieno titolo il proprio posto, affinché diventino possibili una vera interlocuzione, un’interazione di scambio e di reciproca cooperazione, e non ci troviamo ad avere a che fare, a cominciare da noi stessi, con degli esseri fantasma che, al comparire del giorno, delle difficoltà, dei contrasti con l’altro o nel confronto con il reale, diventano evanescenti o perdono d’emblée la propria consistenza.

 

Ivana Cenci, 3 Luglio 2007


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