L’ULTIMO VOLO
Mi affaccio, come ogni mattina da quindici anni, a questo balcone.
Il mio sguardo si slancia fino a dove la terra arriva alle sue piaghe e si addormenta nel sonno estivo della pianura.
Con questo sguardo ho attraversato inverni bianchi da copertina, primavere che sembravano uscite dai film innocenti della Walt Disney ed estati come queste che sconfinano da dietro le colline per poi languire su queste lande desolate affogate nei sogni.
La vestaglia mi tiene caldo ma alla mia età, affacciata a questo balcone, la decenza innanzi tutto.
Non importa se mi hanno rinchiuso in questa casa di riposo, la mia vita è stata ricca e la povertà e in chi guarda.
I miei figli, gli stessi figli che hanno bevuto il mio latte, che hanno avuto parte di me e che sono stati parte di me, hanno preso altri sguardi, traviati da altre ghiandole mammarie, da seni giovani e non cadenti come i miei.
Che splendore che erano i miei seni, se mi abbandono ai ricordi posso abbandonare la decenza di facciata, i miei seni facevano girare tutti in piazza quando andavo dal commestibile per le commissioni.
Ricordo ancora i fischi, ogni tanto li sogno di notte, fischi di gioventù, spontanei, veri, adulatori ma non nascondevano nulla, mostravano sonoramente l’apprezzamento e il desiderio maschile in maniera indecente.
Non ammiravano la mia bellezza, ma la mia giovinezza, ero giovane e allegra anche se la strada da prendere in provincia era una sola e la seguivano tutti o quasi.
Maritarsi.
Cercare un cristiano che non sia peggio di altri e che potesse mantenere una famiglia senza tanti problemi.
I balli, i canti, la nostra gioventù era immediata, da consumarsi subito, non aveva data a perdere, non aveva modo di conservarsi nel consumismo.
No c’è niente a ricordare gli autunni delle vendemmie.
Non vi è rimasto nulla dei camion zeppi di gioventù che passavano al mattino per le strade fangose.
Ricordo che da sopra quei camion, seguivo col pensiero il tracciato della strada.
Guardavo il susseguirsi di fango, di pietra e d’erba, li mescolavo poi a quello che sentivo in chiesa la domenica.
Di fango e di pietra se ne parlava spesso, quasi che la strada non fosse altro che il nostro corpo
Il buon Dio usò il fango per crearci.
D’erba non se ne parlava alla Domenica.
Di quegli sporadici ciuffi d’erba che avevano la forza, la disperazione, di venire su in ogni angolo impensabile, ad ogni ciglio disastrato quando la forza dell’uomo viene meno, spuntava su l’erba in ogni margine di strada mangiato dalla natura.
L’erba era il peccato della gioventù.
Era quel cespuglio d’emozioni che i giovani amano.
Confondevo nella mia mente da ragazza di provincia dell’Italia anni 50 queste idee, senza malizia e né pudore, ma idee, volevo farmi idee mie quando avere idee era più pericoloso che avere debiti.
Ne giravano poche d’idee.
Quando si stava tra noi giovani, il nostro era un futuro incerto tra la perdita e la ricostruzione. Tutti sapevamo che dovevamo ricostruire quello che altri avevano tanto amorevolmente distrutto.
Per il resto era voglia di vita che non si sprecava nei discorsi.
Non si sprecava mai.
Era voglia di vita anche quando la mia decenza doveva stare attenta alle mani di Gianni, quel diavolaccio figlio del bracciante ne sapeva una più del diavolo per poter arrivare al cuore d’ogni donna, si trasformava in ogni principe azzurro ogni volta che tornavamo dal lavoro.
Le sue labbra si aprivano e non parlavano di ricostruire e né di feste di paese affollate, lui creava la sua moltitudine nella coppia, sussurrava quelle parole che ogni donna avrebbe voluto sentirsi dire, parlava di famiglia non usando quella parola ma gettando le basi del piacere nel costruirne una faceva sembrare tutto più magico di quel che fosse in realtà.
Quando poi le nostre campagne persero energia, Gianni se né andò in Svizzera, per lui non aveva senso andare a Torino a riempire quei casermoni, lui non voleva la moltitudine, l’affollarsi della folla avrebbe ucciso la sua magia, preferì l’esilio in terra elvetica e non tornò in paese se non molti anni dopo, quando io avevo già ormai conosciuto Pino
Pino …già, Pino.
Non l’era per niente bello, non era il più ambito del paese, non era il più ricco.
Pino però era qualcosa di nuovo, sapeva guardare al mondo e renderlo nuovo, era rassegnato a trascorrere la vita nello stesso posto.
Al bar quando si parlava di scappare, di andare lontano, di andare fino giù a Genova, al porto, a raggiungere le Americhe sognate e irraggiungibili e quei parenti di tutti così lontani, Pino sbuffava, lui sapeva della sua povertà, ma sapeva della sua ricchezza morale.
Successe che condivise quella ricchezza con me, e ricordo ancora il cammeo che mi regalò sotto quel tiglio che ora qualche amministrazione comunale ha trasformato in parcheggio senza memoria.
L’era costato un occhio della testa e l’altro occhio l’aveva già venduto al diavolo forse, ma me lo regalò con timidezza, sapendo che Gianni, sì era lontano, ma forse sempre troppo vicino e si fece avanti donandomi la sua sicurezza, quella di una generazione che non ebbe nulla da perdere.
E anche quando tornò Gianni, Pino sapeva guardare al mondo, non fece slanci, sceneggiate o che, Pino, buonanima, continuò a guardare fino alla partenza di Gianni e non mi chiese mai niente sotto a quel pesco quando chiese la mia mano.
Ora d’alberi non c’è ne sono più di così tanti, sembra quasi che non servano, ma io ricordo ancora la corteccia del tiglio quello con intagliata “Pino+ Maria”
E ricordo anche quella del pesco “Maria ama Gianni e Gianni lo sa”.
La vita che passa, linfa negli alberi.
E ora mi affaccio, come tutte le mattine ho continuato a farlo mentre il mondo è verde d’estate, non nelle mie estati, ma di queste preconfezionate che si comandano dalle stanze.
Guardo come mi ha insegnato Pino per 38 anni a guardare il mondo prima di morire.
E guardo sapendo che Gianni non tornerà. Come non tornerà il tiglio dal parcheggio.
Mi ricordo ancora però quei versi di Gianni, poeta nascosto al mondo.
Me le sussurrò in un orecchio prima di baciarmi di incidere la corteccia del pesco
“Quanta è bella giovinezza
che si fugge tutta via
del doman non v’è certezza
Chi vuol essere lieto sia”.
Non erano sue ma le rese sue, e cosa c’è di più poetico?
Sospiro su una vita passata, su due occhi chiusi e su un ritorno che non avverrà e di parusie mancate.
Non mi piace questo mondo e guardò in giù.
Ho avuto sempre decenza ma questo mondo sembra averne dimenticato il significato.
Sorrido e mi riscopro alla mia età, dopo tanti anni ho imparato che da un balcone si può volare.
Fabio Izzo
fel_fabio@yahoo.i