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NNI 2. Gianfranco Franchi
Gianfranco Franchi
Gianfranco Franchi 
30 Settembre 2007
 

Nella seconda puntata di questa rubrica voglio presentavi Gianfranco Franchi, un ventinovenne romano che nei suoi ultimi lavori letterari tanto ricorda il giovane Bianciardi. Franchi lascia Trieste per approdare a Roma, dal suo rifugio di via Fonteiana dirige una rivista web, scrive racconti, romanzi, poesie e saggi che non lasciano indifferenti. Si definisce un uomo di destra, ma di una destra letteraria (che in Italia non ha mai avuto troppa fortuna) e di una destra sociale lontana anni luce dal berlusconismo. Conosco Franchi dai tempi in cui dirigeva alcune riviste universitarie e ho collaborato con lui, credo che sia stato tra i primi ad aver letto i miei racconti, come io ho letto i suoi. Franchi ha pubblicato da poco Pagano (Edizioni Il Foglio), un libro coraggioso e controcorrente che parla della caduta degli ideali, di una realtà contemporanea fatta di precariato e priva di sogni. A parte la letteratura, perché Franchi trova la sua via di fuga nella lettura appassionata di Morselli e Beckett, ma anche di Bianciardi e Berto, così come incontra un momento di appagamento nella scrittura di racconti che lasciano il segno. Leggete questo inedito che rende molto bene uno spaccato di mondo triestino con l’uso del dialetto, ma soprattutto assaporate il senso profondo della storia: Sono composto di contrasti, come le mie città, sono uno straniero: non ho patria diversa da quella ideale, nel mio sangue ci sono tanti popoli e tante etnie, e scontri generazionali, culturali, sociali. Franchi racconta da dove proviene, spiega cosa sta facendo, non è sicuro sulla direzione da prendere, ma sa che la sua strada corre a braccetto con la letteratura.

 

Gordiano Lupi

 

 

Chi è Gianfranco Franchi

 

Gianfranco Franchi (Trieste, 1978), detto Lankelot, ha pubblicato libri di poesia e narrativa: L’imperfezione – Opera III (2002) e Ombra della fontana. Disorder (Il Foglio Letterario, 2006) e Pagano (Il Foglio Letterario, 2007). È stato coordinatore di due riviste letterarie universitarie, Ouverture e Der Wunderwagen, tra 1997 e 2003. Dal 2003 è responsabile del portale indipendente di comunicazione e critica letteraria e dello spettacolo www.lankelot.eu, dove scrive recensioni di libri, film e dischi. Vive a Roma. Collabora con diverse testate, web o cartacee.

 

 

FRONTIERE

 

Puntuale come il mal di testa, il venerdì era il giorno della partenza per Umago, che i croati hanno ribattezzato Umag. Ero in vacanza per un mese l’anno a Trieste, i nonni esuli caricavano me, mia sorella e mia madre sulla vecchia Panda rossa, senza stereo e con l’odorosa copertina di flanella per il cane, e si partiva. Stretti e allegri. Negli anni Ottanta, per tornare a casa, i nonni dovevano passare un solo confine, distante poco più di dieci chilometri da Barcola, dove vivevano, a una manciata di passi dal Castello di Miramare. Era una dogana snervante, spesso caratterizzata da code chilometriche, da controlli lunghi e detestabili. Al termine di questo breve viaggio, eravamo in Yugoslavia. Non avevo l’intelligenza di decifrare che, in quindici chilometri, passavo da Monteverde Vecchio ad Acilia, a Roma; mi sembrava una distanza interminabile. Ero troppo piccolo per capire, e per sganasciarmi.

Poco dopo esserci arrampicati per le strade che portavano al confine, nonna cominciava il suo monologo.

– Ricordite. Quelle erano le nostre terre, le nostre case, il nostro mare. E se le abbiamo perdute è colpa di quei porci dei democristiani. Del gobbo, e dei comunisti. Porci, e amici degli ‘sciavi.

Mia sorella, più piccola, guardava fuori dal vetro o ronfava, perché pativa i viaggi in macchina. Mamma canticchiava.

– Ricordite, ‘co te torni a Roma, che ‘to pare xe un democristian. Lori xe tuti ladri, tuti, a Roma xe tuto un magna-magna, ubriaconi e magnoni e ladroni…

Annuivo.

Nonno la guardava, borbottava qualcosa. E lei:

– Ciò. Bruno, el putel no xe mica mona. Dovessi saver come stanno le robe, no? Lu devi saver che i ‘sciavi xe cativi, lu doveria star atento…

C’era un po’ di silenzio, poi una macchina targata magari Pula, con tanto di stella rossa titina, tagliava la strada al nonno.

– To mare grega! – imprecava.

– Te vedi? Co’ i se corgi che semo ‘tajani i fa i paroni…

– Putana mare… – diceva il vecchio.

– Ma mi no son ‘tajana, ricordite. Gnanca triestina. Mi son de Umago, mi son istriana, meza ‘sciava, meza crucca, meza ‘tajana…

– …

– Ti te son come mio povero papà, Bepi. Ti te gà l’ovale de Bepi, ti te son sgajo. El vero istrian…

 

Subito ricordavo gli insegnamenti dell’altra nonna, quella triestina di sangue von Schmidt e Giani. “Serva istriana, ladra e puttana”. Lei viveva a Roma dalla fine della guerra, a Trieste sarebbe tornata per l’ultima volta nel 1993. La sua casa d’infanzia era stata venduta dopo il 1945. Ormai romana, ma quei “cosa vuoi che sappio?”, “sempio” o “toco de machina”, “mantegnirte a ti… come un mus a paste” mi dicevano molto. 

Ero un bambino educato alla schizofrenia.

Vivevo undici mesi a Roma, educato da una nonna triestina, figlia dell’Austria e della prima Italia, e da suo figlio sanguemisto, intellettuale ministeriale perfettamente romanizzato. Per un mese stavo a Trieste, dai nonni di Umago e Pirano, esuli a Trieste, che vivevano con mia mamma.

Il ramo alfa, quello “romano”, veniva dall’esodo dei dirigenti fascisti dalla Dalmazia. Là, nell’isola di Lesina, mia nonna aveva incontrato il nonno, alpino romano. Il ramo beta, quello “triestino”, veniva dall’esodo degli istriani della costa, italiani per quel che vuol dire, e cioè di lingua e cultura veneta, amministrazione veneta poi austriaca infine italiana, sanguemisto con Prodan, Perich, Gelicich, e con un cognome misterioso “normalizzato” in Pozzecco.

Il ramo alfa era d’estrazione aristocratica e alto borghese, addirittura classe intellettuale dirigente. Il ramo beta era d’estrazione popolana, contadina o marinara. In comune non c’era niente, se non la nostalgia: da una parte per quella Trieste caduta dopo il 1953 in povertà, dimenticata dall’Italia; dall’altra per le case, la terra e il mare confiscate dalla Yugoslavia, per i cugini “rimasti”, per la terra perduta. Per quel paese a cui ognuno dovrebbe tornare, come insegnava Pavese.

Per molti anni stavo zitto sia quando sentivo dire parole d’odio verso gli istriani, sia quando le sentivo verso i triestini, sia quando piovevano addosso ai romani, sia quando sgretolavano gli italiani, dei quali involontariamente e paradossalmente ero parte, e che nessuno ha difeso mai. Italiano o ‘tajan de merda, come mi giravo era una nenia. In testa, avevo delle marionette che parlavano lingue e dialetti diversi, e ognuna rivendicava un pezzetto di verità.

 

Alla dogana, l’avvicinamento era lento, lento, lento. Nonna guardava con disprezzo quelle guardie che avevano i suoi stessi lineamenti e spesso i suoi stessi colori, biondi con gli occhi chiari. Nonno diceva buongiorno nella loro lingua, “passport” in inglese, “putei” in dialetto, indicandoci. Erano minuti d’angoscia, manco fossimo stati contrabbandieri. Superato il confine, ci sentivamo leggeri e per un po’ la nonna parlava dei ricordi d’infanzia e giovinezza. Fin quando non realizzava che era tutto finito, parlava degli esuli in Venezuela, Argentina, Australia, di quanto Trieste fosse triste e lontana dalla meravigliosa vita del paese, cose del genere. Dei crucchi che s’erano innamorati dell’Istria, e spesso lasciavano la cioccolata “fur kinder” dopo averci visti giocare ai piedi del ciliegio, di fronte la stalla dismessa, trasformata in garage per qualche scassata utilitaria, italiana o slava.

Non appena prendevamo l’autostrada, piangeva perché era stata fatta coi soldi italiani. E spesso diceva guarda che mare, guarda che verde, guarda i cartelli in due lingue. ‘sciavi cativi, i gà rubà quel che jera nostro.

Maledetto il sangue ‘sciavo. Che ti te gà, diceva nonno, e lei gli dava del figlio di puttana, e lui s’offendeva perché purtroppo non era una bugia.

 

I nonni guidavano sino a Umago, là dove avremmo rivisto i rimasti, il fratello di nonna e sua moglie e suo figlio, e i cugini – più o meno integrati, non capivo, parlavano delle scuole italiane di Buie d’Istria, la mia scuola era privata, cattolica e romana – e noi giocavamo attorno alla casa di pietra sotto lo sguardo della bisnonna Perich, lanciandoci le ciliegie cadute a terra. “Ulica” era quel che leggevo sui cartelli.

C’erano le visite ai parenti, c’erano cene sotto gli alberi sul tavolo di pietra, c’era un forno abbandonato che m’affascinava tanto. C’era una terra che non conoscevo ma era mia, e pensavo fosse vicina all’Ungheria perché così zio Luciano chiamava la sua terra, fuori Umago. Ungheria.

– Demo in Ungheria, Franco!

– Demo, zio!

C’era la cantina con tutte le botti, e zio Luciano voleva che assaggiassi almeno un sorso di buon bianco, perché dovevo imparare. Ho sangue di splendidi bevitori ma non ho mai amato il vino, forse perché mi piaceva solo quello lì, pura espressione d’una terra perduta.

 

Passata la frontiera eravamo stranieri in patria. Per qualche giorno. Avevo sempre paura che arrivassero i gendarmi cattivi, non so perché. Che ci cacciassero via. Poi tornavamo a Trieste, e i nonni erano altrettanto stranieri in patria. Niente amicizie, niente conoscenze, niente vita sociale; quattro chiacchiere al molo, o al supermercato, o in pescheria. Poi tornavo a Roma, e soltanto sulla squadra di calcio fondavo la mia romanità. Mi sentivo straniero, e non solo perché parlavo poco e male il romanesco, preferendo l’inesistente italiano.

Sono composto di contrasti, come le mie città, sono uno straniero: non ho patria diversa da quella ideale, nel mio sangue ci sono tanti popoli e tante etnie, e scontri generazionali, culturali, sociali. In trent’anni ho assistito al quarto cambiamento del secolo della bandiera dell’Istria: Austria, Italia, Yugoslavia, Slovenia o Croazia. Trieste ne ha avuti soltanto tre, se vogliamo includere il periodo caotico 1945-1953 come un unicum. Roma non è più niente da quando non è Impero. E io spesso mi chiedo, guardandomi allo specchio, chi sono e a chi appartengo; al Gianicolo per via di trent’anni di residenza, a Trieste per via della nascita, all’Istria e a Trieste e un pochetto a Roma per via del sangue. Cosa sono? Non ho un’identità chiara, ho interiorizzato la frontiera.

Sino a frontiera diventare, in carne e ossa.

 

Sono cresciuto tra offese e insulti a diverse etnie che tragicamente coincidevano col mio sangue; gli affetti più cari erano nemici tra loro, e parlavano lingue e dialetti diverse. È chiaro che da piccolo non potevo orientarmi, soltanto registrare. Adesso registro questa pluralità con un sorriso, ma so che non vuol dire niente di univoco, niente di razionale, niente di logico.

 

Credo che questa assurda e involontaria schizofrenia non possa che aver figliato eclettismo, versatilità, bilinguismo o trilinguismo se includiamo i dialetti; non so quanti danni abbia fatto sulla mia psiche, né quali conseguenze realisticamente avrà, se mai riuscirò a invecchiare, chissà se a Roma o a Trieste o a Umago. Chissà con quale bandiera.

 

Ho scelto come patria la Letteratura in lingua italiana con opportune commistioni dialettali e linguistiche perché io sono amalgamato così; ho scelto come patria la Letteratura perché è terra di menzogna e oasi di invenzioni e meraviglia, non ha pretese d’essere vera o realistica a ogni costo, né d’essere Storia: è storia delle storie, è tante storie assieme. Come questa raccolta di racconti, che si fonda su migliaia di verità e di bugie, di ricordi e di congetture, di fotografie e di radiografie. E su un gran mal di testa, su una cefalea a una sola tempia che mi ammazza periodicamente da qualche anno; naturalmente, una tempia è sana e l’altra è malata. Scrivo quando le tempie sono in pace e in armonia tra loro, devo la mia voglia di vivere a ogni guarigione, dopo due ore vissute da disabile su un letto o su un divano, con un occhio – e uno soltanto – che involontariamente lagrima, e su una narice – e una soltanto – che incomprensibilmente si tappa. Credo che un giorno riuscirò a scrivere la storia del mio dna, dei tanti popoli europei che in me abitano e in me si riproducono; delle tante letterature, delle tante terre e dei tanti mari. So che solo Trieste m’assomiglia, per gli entusiasmi, le nevrosi, la debolezza assurda per Roma, per quel vento maledetto che ti congela e ti squassa i nervi quando meno te l’aspetti. M’assomiglia perché ospita sei cimiteri diversi, e non ne abiura nessuno. Disinvolta e schizofrenica, “italianissima” e “urbs fidelissima”.

 

Sono in macchina e passo la frontiera, anni dopo, assieme ai miei amici. Uno di loro parla con entusiasmo della costa croata, che ha visitato più volte negli anni. Mentre racconta quel che ha vissuto, penso che da quella costa, giuliana, istriana e dalmata, deriva e dipende la mia esistenza in questa vita, la mia per molti incomprensibile, patriottica anti-italianità, la mia schizofrenia, il mio mal di testa. Quella è la frontiera che passo ogni giorno, insultando gli antenati che me l’hanno fatta ereditare, quale che fosse la loro nazione, il loro credo politico, la loro lingua, la loro occupazione. Mortacci vostri, e quindi l’anima de li mejo mortacci mia.

 

Gianfranco Franchi, luglio 2007

 

 

“Frontiere” è tratto dal libro “New Order”, in via di scrittura, ultimo capitolo della trilogia avviata con Disorder (Il Foglio Letterario, 2006) e Pagano (Il Foglio Letterario, 2007).


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Dir. responsabile Enea Sansi - Reg. Trib. Sondrio n. 208 del 21/12/1989 - ISSN 1124-1276 - R.O.C. N. 32755 LABOS Editrice
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