BAGHDAD. La gente mi chiede se è difficile essere una giornalista, in Iraq. Per me, il lavoro più duro è essere madre. La quotidiana paura che ho per mio figlio mi ha sommersa l’anno scorso, quando un’autobomba è esplosa vicino a casa nostra, durante il Ramadan. Mio figlio Hani, che allora aveva sei anni, aveva appena spesso di giocare a calcio con gli amichetti, in strada. È entrato in casa, sudato e felice, si è lavato faccia e mani e si è seduto a tavola per pranzare con me e mia madre. Il suono dell’esplosione è stato assordante. Frammenti di una finestra andata in pezzi sono caduti su mia madre e tutti abbiamo fatto un salto sulla sedia. Ho afferrato Hani e l’ho trascinato con me nell’angolo più sicuro della casa. Alcuni minuti dopo mi sono ricordata di essere una giornalista e sono corsa fuori a vedere cos’era accaduto. Potevo scorgere solo nuvole di polvere e sentivo solo persone urlare. Anch’io ho gridato: «Cosa sta succedendo, per amor di Dio?» Ho udito la risposta di un vicino: «È un’autobomba, un’autobomba». Sei persone rimasero uccise, fra cui una bimba di cinque anni. Uno degli amici che avevano appena finito di giocare con Hani è stato ferito allo stomaco, un altro ha perso un occhio. Ancora non riesco ad immaginare cosa sarebbe potuto accadere se mio figlio si fosse attardato in strada solo altri pochi attimi.
Hani ora è al secondo anno di scuola. L’ho spostato dalla scuola pubblica, che è vicina a casa nostra, ad una scuola privata che è attaccata al mio ufficio alla Reuters. Là gli insegnano anche inglese e musica, materie che io non studiavo quando avevo la sua età. Sta andando bene. Ma è fortunato se riesce a frequentare due settimane di seguito senza essere bloccato a casa da problemi di sicurezza. Ogni volta che perde giorni di scuola a causa delle nostre paure mi sento terribilmente frustrata. Ma la scuola non è l’unico luogo in cui riceve insegnamenti. Una società lacerata dalla violenza settaria gli sta insegnando altre cose che io da bambina non ho mai appreso. Seduto a tavola, un giorno, Hani mi ha chiesto: «Mamma, io sono sciita o sunnita?»
Non ho mai potuto sopportare l’idea di dividere la gente in sette. Ho risposto: «A chi te lo chiede, rispondi così: sono un musulmano». Il bombardamento di un sito sacro sciita nella città di Samarra, nel febbraio 2006, ha scatenato un’ondata di violenza settaria che ha ucciso decine di migliaia di iracheni, e ne ha forzati molti di più a fuggire dalle proprie case. Sono sempre tentata di chiudere dentro casa mio figlio, per tenerlo al sicuro. Ma so che un bimbo che cresce ha bisogno di uscire. Quando avevo la sua età, io andavo in piscina con la mia famiglia, e in locali pubblici, e facevo pic-nic nei parchi con i miei genitori e i miei compagni di scuola. Tutte queste cose sono impossibili oggi. Però Hani ama il calcio, e ci gioca ogni giorno, passando due o tre ore in strada. Ora sembra sia un po’ più sicura, è bloccata da un checkpoint dell’esercito proprio nel punto in cui l’autobomba esplose l’anno scorso, ma si può morire nella strada adiacente per i colpi di mortaio.
Noi madri di Baghdad cerchiamo di darci aiuto l’un l’altra come possiamo. Ogni giorno parlo al telefono con un’amica che vive sull’altra sponda del fiume Tigri, che taglia Baghdad in due. Incontrarci di persona è troppo pericoloso. La mia amica sta male a causa della pressione alta e dell’esaurimento dovuto al preoccuparsi per la sua famiglia. Ha tre figli, il che significa che il suo travaglio è il triplo del mio. Ali, il suo figlio maggiore, ha 21 anni, ed è la sua principale fonte di ansia. Ha un nome tipicamente sciita, e la famiglia vive in un quartiere a maggioranza arabo-sunnita. Il ragazzo frequentava l’università in un’area parimenti sunnita. «L’ho costretto a posporre gli studi, per quest’anno», mi ha detto la mia amica. «Ero troppo spaventata all’idea che lo ferissero, soprattutto quando ho sentito che uomini armati sono entrati nella sua facoltà e hanno portato via due studenti sciiti».
A volte, come madri, sfoghiamo la nostra frustrazione proprio contro i nostri figli, e poi ci sentiamo disperatamente colpevoli. Un’altra mia amica, 26enne, ha una piccola di tre anni ed un bimbo di appena dieci mesi, e va in panico se solo non riesce a mettersi in contatto con suo marito, poliziotto, quando lui è al lavoro. «Influisce su come tratto i miei bambini», mi ha confidato. «Urlo contro di loro, a volte finisco per dare uno schiaffo alla più grande».
Quest’anno sono riuscita a portare Hani in vacanza in Siria, per tre settimane. È stato così bello vederlo sedere nei caffè, girare per i giardini e i parchi. Hani mi ha chiesto se potevamo restare un altro mese, ma dovevamo tornare, per via del mio lavoro. Sono molto fiera del mio lavoro. Solo, a volte, mi sento egoista, e mi chiedo se sto ipotecando il futuro di mio figlio. Passo notti insonni a ripetermi questa domanda: un altro fardello, dei tanti che pesano sulla schiena di una madre irachena.
Aseel Kami
(per Reuters, 02/09/2007 - trad. M.G. Di Rienzo)