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TELLUS 26. Inediti di Grytzko Mascioni
21 Novembre 2005
 

In occasione della mostra a Sondrio dedicata a Grytzko Mascioni "Figura d'ombra", (inaugurata a Palazzo Pretorio il 18 novembre, mostra che gode del patrocinio di Comune di Sondrio, Accademia del Pizzocchero, Lyons Club Sondrio Host e Centro Tellino di Cultura) con la quale pittori e poeti – grazie all'iniziativa dell'Associazione Grytzko Mascioni – rendono omaggio all'artista scomparso nel settembre del 2003; la rivista-annuario TELLUS propone sul web alcuni degli inediti, dedicati alla Valtellina, che la vedova dello scrittore ha affidato alla rivista per pubblicarli nel numero 26: «Vite con ribellioni rinomate e sconosciute» nella sezione: “Tabula Memorialis per Grytzko Mascioni”, pagg. 193-229.

Ri-pubblichiamo, dalla carta stampata al web (e questa è una caratteristica fondamentale di Tellus che basculla fra la rete e l’editoria tradizionale) alcuni inediti di Griytzko Mascioni da Le geo-grafie del vecchio scriba: “Treni”; “Navi”.



Treni


La bella casa patrizia che da quattro secoli regge la scagliosa ardesia del tetto, è quella che gli torna solo nei sogni e che lo ha visto nascere e crescere finché caduta in mani altrui si è decomposta nell’insensatezza estetica di chi si è conquistato il diritto di abitarla: declino che gli ricorda la sorte delle città latine percorse nel dissanguato impero da stranite orde aliene, ignare della forma che estrae dalla terra e dall’inanellarsi degli anni un decoro di misura e pudica bellezza, garbatamente funzionale.


Non ha dubbi, è lì che il sonno tanto spesso lo riconduce. E gli succede di salire, in un tremore d’intatta infanzia, le scale che dal primo portano al secondo piano. Gli basta chiudere gli occhi, e eccolo raggiungere con passo lieve, quatto quatto, l’appartamento della zia Maria che per sconosciute ragioni ha rotto i ponti con il resto della famiglia, ma che per lui bambino coltiva un oscuro e vibrante sentimento d’amoroso possesso, la viscerale tenerezza di cui sono capaci solo alcune solitarie donne infeconde che mitologizzano ogni goccia parente del loro sangue. L’affetto che la zia nutre per il nipote, a dispetto del perpetuo litigio in cui vive isolata dai fratelli e dalla cognata, si esprime in ricatti innocenti come quello di custodire un sontuoso trenino elettrico – il lustro locomotore nero, le carrozze verdastre dalle sfavillanti cromature, l’amaranto del wagon-restaurant che esibisce orgogliose scritte dorate – a disposizione esclusiva del bambino ammaliato e al quale nessuno proibisce di visitarla.


Lui può giocarci quanto vuole, ma solo lì, richiamato dall’esca innocente che troneggia al centro della sala dove sovrabbondano altri arcani tesori, i ricordi accumulati da una zitella coltivata che ha girato il mondo e fatto incetta di libri e curiosi souvenirs prima di tornare alla dimora degli avi, della quale possiede cospicua parte. E sul vasto tappeto orientale si dilata un paesaggio in miniatura, una maquette di monti verdebruni solcati da tenebrose gallerie, di foreste d’abeti a specchio di vitrei torrenti e laghi, di linde casette accoccolate a ridosso di agili campanili, di un paesaggio traversato da un viluppo di rotaie che tornano in circolo a mordersi la coda. Il loro corso è segmentato da biancorossi passaggi a livello, scandito da stazioncine civettuole segnalate dal lampeggiare di microscopici semafori. Il passaggio del sibilante convoglio è annunziato da un tinnire di campanella, e la gioia del bambino è al colmo quando può dare il via all’incedere rutilante del trenino, premendo il pulsante magico della messa in moto. Per l’emozione, pare condivida il tremito ansioso che agita le fioriere esposte ai balconi dalle figurine delle agghindate spose dei capostazione che inalberano come altezzosi cimieri i loro berretti rossi.


Poiché padre e madre del bimbo hanno altri pensieri e non soffrono di piccole gelosie, fingono di non vederlo quando sempre più spesso si avvia di soppiatto sulla rampa di scale che porta alle stanze dove, rintanata nel suo malumore, la zia Maria aspetta impaziente la sola visita che sappia ancora, per un momento tenero, regalarle un sorriso, una sembianza d’affetto fedele. E fedelmente, qualche anno più tardi, fatto adolescente, sarà solo lui a visitarla nell’ospedale dove aspetta di morire, a osare una carezza sul viso scavato, a reggere la vista del corpo scheletrito e giallastro divorato da un tumore: ma come languidamente illuminata a ogni apparizione del nipote nella sua agonia disertata da altri conforti. Ma ti piaceva proprio, riesce ancora a dire, muovendo le labbra malate come petali di rose smunte, raggrinzite nella triste parodia di sorriso, quel nostro trenino?


Quanto sarebbe continuato a piacermi, in verità, scribacchia soprappensiero il vecchio in cui si è trasformato il bambino di un tempo, il costoso trastullo che includeva, con la candida offerta di un fantasioso gioco, il fascino segreto di una piccola trasgressione puerile. Ma forse più, l’implicito invito a uno sconfinato viaggiare, a un’eterna partenza verso ignote lande così difficili da immaginare nel grigio paese natale, aggrappato alla costa di valle in un saliscendi di contrade sfiorate dall’alto incombere di selve e vigneti. Destinato anch’esso a svanire nel sussulto impercettibile che frena ogni corsa e scorcia, con la vita che deraglia nel vuoto, il territorio dischiuso al proporsi dell’alitante avventura che ci richiama altrove. Fin dal primo farsi giorno nella mente stupita d’essere pervenuta, non si sa perché, a abitare nella luce del tempo che ci forgia attorno una dubbia idea di realtà.


Ora se appena la osservo, riconosco nella mia mano scarnita che poggia sul foglio che ho davanti, quella della zia Maria che d’un tratto penzolò a lato del letto, allentata la presa nervosa delle dita a una piega del lenzuolo che ne velava lo sfacelo. E sono io a trattenere nel fondo della gola inasprita da sentori amarognoli, il quasi inaudibile singulto che troncò a mezzo il congedo della donna morente. La mia buona zia fu troppo presto l’inerte mucchietto d’ossa che professionali infermiere composero nello stupore attonito della vita svolata. Le palpebre abbassate sull’occhio itterico avevano occultato per sempre la fissità sgomenta dell’ultimo sguardo che mi resta dentro come una lugubre fotografia, impressa nella retina scalfita dal suo enigma feroce. E mi chiedo soltanto, tanti decenni dopo, dove sia mai finito il treno lucente che mi invade ancora la fantasia, mentre mi affatico a dare una forma accettabile alla sagoma della mia esistenza disfatta, prossima alla cancellazione: sebbene le paia d’essere ancora calata nel presente risuscitato della memoria, al quale - à bout de souffle - si ostina a ridare colore. Come il sangue di Odìsseo, offerto nell’Ade alle gote sfiorite dei defunti riconferiva loro un effimero rossore di vita. Destinato a scomparire nell’area di demolizione della ferraglia della contingenza, di quel giocattolo ferroviario era sopravvissuto a lungo solo lo stimolo a un moto perpetuo, la fascinazione che si era rinnovava a ogni nuova stazione ferroviaria varcata: almeno sino al giorno che il sopraggiunto degrado del costume collettivo le trasformò tanto da far loro accogliere la ressa di maleodoranti corti dei miracoli, il losco groviglio stanziale di figure che trasudano subdola aggressività o malore da fame o astinenza. Ma come dimenticare che prima della caduta nel pantano di tanta vergogna, quelle stazioni erano state solo ciò che ci si aspettava fossero, le accoglienti dimore urbane dei treni. E anche, certo, del loro mito: start di mobili, inesauribili avventure…


Di lì si era mosso il desiderio precoce del ragazzo di scoprire stupefacenti mete, coltivato sulle carte geografiche percorse dall’occhio a suo tempo risvegliato nella sua golosa curiosità dall’elegante trenino elettrico della zia Maria: ma presto alimentata da esperienze di segno malinconicamente opposto. La prima è ancora grata a una meraviglia d’infanzia, è l’elevarsi circolare e idillico delle carrozze scarlatte delle Ferrovie Retiche che risalgono dalla verde piana su su per boschi che alla fine diradano nello splendore accecante dei ghiacciai del Bernina per ricadere nello smeraldino incanto d’Engadina; ma a nero contrasto, ecco l’ansimante sferragliare lungo l’ultimo tratto del treno che rimonta la Valtellina e s’arresta fra i campi alle omicide picchiate dell’aviazione alleata, che negli ultimi giorni di guerra mitraglia radente le sperdute formiche dei viaggiatori, lesti a rotolare in cerca di salvezza giù per le scarpate e i terrapieni che sostengono il serpeggiare dei binari a scartamento ridotto. Non sono che le più antiche tracce che lascia dietro di sé l’andare per ferrovia, i prodromi di un intrìco di strade ferrate che si intersecano nel memorabile labirinto geografico nel quale l’uomo s’aggira e avrebbe finito per dibattersi sempre più debolmente. Quasi cercasse una sortita dal carcere che segregava il suo connaturato bisogno di trovare una sede adatta all’esaurirsi del sentimento di precarietà che insidiandolo lo sospingeva a un inesauribile divagare nei meandri terragni che volta a volta provvisoriamente, illusoriamente, lo ospitavano. Che gli faceva ripetutamente escogitare la fatua novità di inediti percorsi, mentre indagava oltre la trasparenza dei finestrini campagne abbagliate di sole, mari accesi dalla porpora dei tramonti, cieli nei quali sta sospeso e oscilla stregonesco il punto interrogativo di uno spicchio di luna.


L’uomo rivive l’ansia sfrenata che lo avrebbe indotto a munirsi di una scorta di biglietti che immancabilmente ammutolivano di stupore i controllori costretti a verificare la validità di documenti rilasciati per l’uso di vagoni letto che solcavano l’intera Europa, di rapidi e super-rapidi scagliati da una capitale all’altra, di accelerati che si insinuavano rantolando nel cul-de-sac di valli sprofondate fra ruderi di castellazzi feudali e selve di querce e castagni per sfociare fra i silenziosi abituri che si sporgono sul sagrato di chiesette disertate da officianti e fedeli.


La Svezia giace sotto impervi cumuli di neve, per interminabili ore non resta negli occhi che il suo accecante bagliore. Già disfatte, le luci medievali di Gamla Stan fingendo infantili allegrie celano l’inveterata pena dei cuori del nord, il vento d’angoscia che fischia nelle foreste intirizzite e penetra nel tepore delle case dove si consumano insani tormenti d’amore per chi reca dal sud la giovane vitalità che ignora la vertigine religiosa delle superstizioni vichinghe: mistura di velleità redentrici e dell’egoismo esistenziale che incancrena la passione erotica vissuta nella pretesa di eterni, sublimati possessi. Vade retro, mormora l’uomo cui piacerebbe cancellare in fretta la plumbea esperienza di quella e altre voraci smanie, guiderdone di infausti viaggi; e il treno riparte e imbarca la delusione per le impossibili nozze europee fra la letizia pagana che il Mediterraneo festeggia persino al colmo delle sue ricorrenti ecatombi, e l’istinto antartico, che mimetizza invano viscerali pulsioni guerriere traducendole in ebbro bisogno di assoluto. La bella dimora che sorge fuori Stoccolma come un nido fatato nei giardini reali di Solna, dove la lattea notte estiva posa sul viso dei dialoganti un sudario di rugiadosa tristezza, s’incendia all’improvviso raptus della pallida signora educata all’arte e all’esercizio del pensiero: la rivede brandire minacciosi candelabri e scatenare un incendio nel quale vorrebbe ardere, come in un rogo sacrificale, persino il suo idoleggiato Minotauro di Picasso. Lei lo ha infatti studiosamente interpellato investendolo del ruolo di un’arcaica divinità, pronuba di sponsali che recano impresso il sigillo di un odiosamato amplesso greco-latino di dio e animale: ma l’oracolo le ha opposto solo un disarmante silenzio.


L’episodio lascia il segno di una piaga, ma ormai oltre i vetri del treno incrostato di ghiaccio, nel quale l’uomo si è rifugiato in fuga, c’è solo l’ostile monte di neve che attarda il viaggio alle ferraglie mercantili che ingombrano il porto d’Amburgo, alla malinconia teutonica delle campagne alemanniche, alla frontiera elvetica di Basilea. E più oltre, all’itinerario finalmente italiano che offre squarci di ridente mare dalla Maremma alla Calabria, fino a esaurirsi sul ferry-boat che tra Scilla e Cariddi parla di vive sirene che sguazzano smemorate e amorose anche sul ciglio della morte o di morte sirene che in un immortale oltremondo non cessano di ricamare cantabili inni alla vita.


La terra brulla di Sicilia è incisa dai solchi delle strade ferrate e il cuore pulsa all’unisono con l’ansito metallico di un treno che torna a promettere al desiderio rigenerato del viaggiatore romantiche intese, disvelate mirabilia, numinose epifanie. Dalle falde del Monte Pellegrino alle palme di Taormina, è un germinare di palazzi normanni, di scheletrite colonne elleniche, di infauste architetture turistiche che pietosi ciuffi di zagare celano alla vista infastidita, racconsolata solo dal mostrarsi della prossima azzurrità del mare. Ma già il viaggio risale la penisola, ritenta lo smarrimento dell’occhio febbrile della tisi che affanna lo sterno magro delle ragazze viennesi, perfette eredi delle modelle ritratte dall’affamato struggimento di Egon Schiele: ma solo per ribadire che le carrozze ferroviarie sono gabbie semoventi in cui continua a palpitare e scarruffarsi l’uccello della sopravvissuta fantasia messa in agitazione millanta anni fa da uno smarrito giocattolo d’infanzia.


L’uomo scrive: adesso che di tutti gli orari ferroviari mi sono liberato, che non mi curo più di precipitose coincidenze, che non ho più valige da colmare per intraprendere i viaggi che per quanto lontano andassi mi riportavano inesorabili al punto di partenza, sul personaggio di carne e sangue cui la memoria affida il compito della ricostruzione della realtà preterita, cala un velo di nebbia. E’ solo un fantasma che sa la tachicardia dell’aller-retour Francoforte-Berlino sotto la minaccia delle pattuglie armate della repubblica rossa in caccia di clandestini, ai giorni del muro al quale sarebbe poi bastata una notte di ubriaca illusione per frantumarsi, convincendo il mondo che l’idolo in pezzi avrebbe scongiurato per sempre i rigurgiti dell’odio che alimenta la stoltezza umana. E’ solo nebbia la Gare du Nord di dove si parte per introdursi nel caos esaltato della swinging London o la Gare de Lyon che ammannisce tra argenterie e affreschi Belle Epoque le ostriche Belon che poco dopo deborderanno dai piatti del Café de Turin al limite del Vieux Nice. Ancora nebbia avvolge il desolato periplo del lago Balaton che accompagna il tragitto da Zagabria a Budapest, dove la Pannonia sa dell’Asia il ventoso sospiro allarmante….


Ma la penna è stanca di graffiare il foglio che accoglie il cruciverba degli inutili giochi tentati dalla vita itinerante dello scrivano che si accorge troppo tardi di avere veramente amato un solo treno e tutta la fragile virtualità che includeva, il dono delle ore immaginose che la zia Maria riservava, nel suo mite sotterfugio, ai sospirati incontri con il bambino che nel sobbalzare del petto prendeva a ospitare l’idea di un’infinita avventura. La verità alla fine si sarebbe rivelata altra, fatta com’era di rotaie che riconducono regolarmente spietate alla stazione di partenza. Che a dispetto della letizia di ogni imprevisto incontro, guidano alla fine alla stazione mortuaria che inghiotte e scardina la speranza del viaggio in capo al mondo, dove altri mondi sarebbero stati lì a aspettare altre avventure, altro gioioso stupefatto candore. E su tutti i treni riposa il lino della pietà che un ragazzino ha visto ricadere sul viso spento della zia che forse sapeva, nella preveggente sapienza di un cuore solitario, che il tempo altro regalo non può farci che quello di un sorriso che passa e scompare. Che accende il fuoco di un’ora e subito dopo lo spegne, facendone la cenere di cui è impastata la terra: che anche a percorrerla tutta, alla resa dei conti è solo un grumo d’argilla che si spiaccica e scioglie fra le dita ossute di un vecchio malato.



Navi


Sa già da tempo del malinconico filo di ansietà che allega i denti al profilarsi lontano di un porto che annuncia la prossima fine di una serena avventura. Sa dello scoramento che invade il petto e offusca la vista quando il viaggio si compie e la parentesi aperta al salpare nell’amnesia di calendari e orologi si va irreparabilmente chiudendo sulla salsa libertà del non-tempo sempre troppo scarsamente abitato. Quando pare che un mesto sipario frusci alle orecchie cui gioverebbe la cera di Odisseo, recludendo nel buio immemoriale del palco del non-essere - dove il sole si spegne, le tempeste tacciono, i delfini dileguano - l’intensità di un sogno disperso dai venti dell’agra condizione terricola: che imperterrita, di vedetta sul molo, attende lo sbarco del transfuga. Ma adesso è ancora mare. La prua della Danae punta alle isole celate oltre il curvo orizzonte cilestre e viola che l’Egeo dispiega nel controvento del meltem, nell’irruzione del fresco etesio che arriccia candide schiume sotto la fiancata da cui si sporge. Affacciato sul vorticare delle onde dal balcone che inorgoglisce la cabina che ha prosciugato lo scarso attivo di un ridicolo conto in banca, è tuttavia lieto dell’ impagabile volo nella casa senza pareti che propizia il colloquio con le origini stesse della vita, col pulsare a rilento del sangue cullato nella matrice amniotica di un ventre che non dice, che non sa, che non spiega, ma induce alla pacata accettazione dell’universale non-senso.


Come una cometa errante a pelo d’acqua, la nave elegante trascina nella sua scia, luminosa del molecolare comporsi e scomporsi d’aliante polvere aurifera, le fuggevoli visioni degli anfratti verdi che si aprono nall’arso dorso di Dalmazia, dello splendore marmoreo del palazzo di Diocleziano che calamita la meraviglia del navigante al largo di Asphalatos. E ancora: ecco l’isolano sentore selvatico dei boschi di Mlijet dove pare che Calipso ritta sulla rena della breve spiaggia agiti con caparbia tenerezza amorosa un fazzoletto di seta estratto dal leggendario scrigno del tempo. Ecco l’abbagliante cinta di mura che chiude le valve maschie sulla femminea armonia di Ragusa. Ma già sotto una sciarpa azzurra che rischiara dall’alto la precipite ferita dell’istmo di Corinto, si naviga nell’intagliata terra rossa del Peloponneso e della Focide nelle cui umide viscere si rintanano da talpe astute le sopravvissute divinità. E lui pensa di onorarle come è giusto lasciandosi prendere dal loro numinoso incanto, grato del benefico influsso di cui si giova la mente liberata di chi va per mare, come il vecchio Solone, solo per diletto e conoscenza…


Dall’invisibile trapezio cui si appendono nell’altalenante dondolio che graffia di ebbri ghirigori il cielo, i gabbiani che inseguono voraci la nave che ospita l’uomo e la donna che gli sta accanto, si illustrano nello scherno bonario del loro schiamazzo gutturale. Per non sentirli più, i due che vivono dimentichi di tutto nel loro viaggio a Citera, lasciano il frizzare dell’aria e si abbandonano alla penombra magica dell’interno, allo smemorante saliscendi del rollìo che agita allacciate ombre danzanti sulla chiazza delle lenzuola scomposte che lo specchio rimanda cortesemente complice, traversato com’è dai brividi di una calda emozione. E poco importa se la nave muta di nome e carenaggio, di palvese e tonnellaggio: il navigare è sempre simile a se stesso e non esaurisce mai la sua potenzialità di rinnovato distacco dal peso greve dei passi cementati alla terra. E’ il dono del mare, la provvida liberazione dall’ingombro di piombo che inclina la testa di chi è costretto a preoccuparsi costantemente di discernere la traccia di un sentiero sicuro, che non nasconda feroci tagliole o le fedifraghe sabbie mobili della routine quotidiana.


Ora è la Romanza che si insinua nelle pieghe della notte e sul ponte, dove l’arancia di una luna sanguigna irrora di mobili squarci di luce le coppe alzate a un intimo brindisi che festeggia la morbida libertà dai lacci degli usati artifici mondani. Dalla sala macchine salgono le fusa dei motori e a babordo trascorrono come assopiti pachidermi biancastri le sagome delle isole, delle Cicladi che disserrano note di flauto e cetra, inaudibili melodie e trilli argentei che si congelano nella danza dei marmi sbiancati che nella loro carie trattengono il messaggio ieratico scampato alla fuga dei secoli. E’ l’eternità del presente che la coppia celebra con il cuore in gola e a fiato sospeso, qui dove è consentita la massima vicinanza alla beatitudine degli immortali svaniti dal giorno della terra, ma silenziosamente trionfanti nelle bende notturne che ne cingono la fronte e i fianchi, nel pulsare delle costellazioni che rigiocano sempre daccapo la stessa partita con le lucenti scaglie riflesse dai flutti che agitano il nero mantello di cui si veste il sonno di Poseidon.


La Dana Corona ripercorre le rotte arcaiche di Enea e Didone, le rotte puniche di Amilcare e Annibale Barca, quelle latine degli Scipioni, le cristiane di Tertulliano e Agostino, le moresche degli invasati saraceni, beduini del mare intenti a sante razzie. Il libro di bordo costantemente aggiornato confonde i suoi caratteri ancora umidi con le iscrizioni della storia, risale da un gorgo d’arrembaggi e fiamme scatenate dagli specchi ustori per trovare infine la pace di un’elegia che minia i più minuscoli trasalimenti del cuore, ignara della dialettica delle sfide e delle risposte delle effimere civiltà affondate nel cimitero marino del Canale di Sicilia. La Kazakstan abbandona gli ormeggi di Crimea e gli scoscesi graniti che proteggono dagli spifferi artici il verde grasso di Yalta, e in uno slancio euforico si lascia felicemente alle spalle le memorie di truci patti, le scalee di Odessa impregnate di sangue e del delirio filmico di Eisenstein, la decadenza pontica dell’ellenico scalo di Mesembria. Varcati gli stretti d’Ellesponto si porta sul vasto dorso la clandestina gaiezza di una fuga d’amore: l’equipaggio assoldato nelle repubbliche sovietiche, in un sopore etilico che ne rallenta il gestire e vela gli occhi chiari sotto le chiome scarruffate, segue apatico le tenerezze degli ospiti che vagano in un sognante idillio tra coperta e sottocoperta, da giorni incuranti delle unghie che la terra scavata e trivellata con lungo affanno aveva spezzato. Né si arresta nel lento volo a ponente che circumnaviga gli ipogei di Malta, che perde a dritta il Porto Grande di Siracusa dove, svaniti i papiri che infiorano gli smeraldini riposi dell’acqua dolce in cui si bagna la ninfa Aretusa, si scorgono ancora nel mareggiare cupo le vene del sangue invano versato dai predaci Ateniesi. Da Ibiza la brezza porta a ardenti folate la disco-music della frivola demenza delle turbe nottambule che indossano cascami di giubbe piratesche sotto il bagliore degli orecchini di strass, gli ombelichi forati da percings assassini. E il bastimento che drizza la prua all’incontro dell’onda che si allunga all’oceano sotto la rocca di Gibilterra, nella strettoia del varco aperto fra le colonne alzate da Eracle smanioso di cogliere i pomi della beatitudine nelle remote Esperidi, già sospira la visione di Madeira. Qui un’acquosa cappa di brume cala dal monte alle nere scogliere laviche, alimentando la turgida vegetazione che protegge languidi riposi e le preziose residenze degli eredi dei conquistadores che nelle cale dell’isola colmavano la cambusa di frutta e verdura prima di levare l’ancora e muovere guerra agli imperi d’oltre Atlantico.


Barra a sud: adesso è l’Eugenio C. a fumigare dei vapori rapiti dal sole al manto surriscaldato dell’universo d’acque in vena di bonaccia. L’arcipelago delle Canarie innalza il crestato tormento del Volcan del Tèide, l’infernale coacervo di brune rocce bruciate, perse in una sconfinata azzurrità: e il pensiero dei meditabondi fuggitivi corre alla meta fatale dell’Ulisse di Dante. Interroga il silenzio degli abissi, le profondità che si chiusero e si chiuderanno implacabili su ogni febbrile indagine del mistero dei mondi, sulla ricerca delle ragioni che possano redimere la vanitosa rincorsa al sapere e al piacere. Sulla sconfitta che ha il muso di sfinge di un imperscrutabile destino. Lenimento all’ansia è il refolo che scompiglia i capelli a chi sta ritto sulla tolda nella tempesta di luci del tramonto, quando il carro d’Apollo s’immerge circonfuso da una raggiera di frecce incendiate nel vuoto di una notte che tutto eguaglia e estingue. La vanità delle ambizioni trova il conforto del nulla che mai è così nulla come nell’ìllimite spazio del fiume Oceano che avvolge il continente dell’umano patire.


E’ la voce di Orfeo che naviga dalle pendici dell’Olimpo alla volta di Lesbo sulla galleggiante carretta del ferry-boat Samphò che evoca, celebrandone il nome, la Signora della Poesia, Saffo dai capelli viola che sulla piccola baia protetta da miti faraglioni della sabbiosa e deserta Eressos attende con una conchiglia all’orecchio che il mormorio delle onde si trasformi nei versi sonanti di un’eterna passione. Sulla barca che inconsapevole rivà sulla scia funesta dell’armada Achea alla volta della prossima città di Priamo destinata al massacro, il melodico placebo torna a ingannare l’attesa della morte e spezia di candide frenesie gli innamorati amplessi rubati alla rovina dei giorni terragni. Con mano cauta la trascrizione dei versi eolici avanza sui fogli vergati dal rito sciamanico che impetra il favore dei venti e scongiura la disastrosa fine degli amori: ma a questo punto, scrollando di dosso le stelle filanti dell’immaginoso carnevale che lo ha inghiottito, lo scrivano si ridesta dalla deriva della mente nei Campi Elisi dell’indicibile. E si prova a inanellare più pronunciabili sillabe: la geografia delle terre emerse ormai si mescola con le sinusoidi delle carte nautiche che al di là della segnalazione di banchi di sabbia e mortiferi scogli, lasciavano campo alla provvisoria dimenticanza dell’astringente obbligatorietà dell’assunzione di modes d’emploi di sopravvivenza alimentare e sociale. Il cabotaggio che illudeva di pause serafiche lo sgranarsi dei giorni non era tanto diverso dallo scarpinare su fredde croste di fango rappreso o su asfalti ammollati dal caldo, se l’approdo o il traguardo era comunque questo, il grigio cubicolo urbano dove si rintana la mia malata miseria, la mia vecchiaia moribonda e affranta. L’attesa avvilita di un epilogo che l’esercizio della memoria non esorcizza. Ma come negarmi la risalita alla luce che promette ogni tuffo in apnea, l’opalescenza subacquea dove risorte torme di pesci inghirlandano danzando l’entronauta sedotto dall’improvvisa assenza di peso? L’antiquata sveglia posata su un canterano pare sospenda il goffo tic-tac se chiudo gli occhi e rivivo i sapori e i sentori di stagioni che trapassate del tutto non sono, finché ne scorgo in una indiscernibile prospettiva la fantasmagorica permanenza. E tanto in quest’oggi precario mi basta, mentre la sera cresce e i rondoni che sfrecciano nell’opaco schermo di cielo che si affaccia alla finestra, a loro volta calano in picchiata là dove so che si nasconde il mare che mi si nega. Mi resta solo ciò che si crede non ci sia più: cos’altro, se non questo invitante profumo di salso, questa litania che mi mareggia canterina nelle orecchie?…


Ma non sempre le vie del mare sono in festa. C’è anche l’Ilijria che bordeggia la Dalmazia lungo lo strazio del litorale in guerra: e il miserando e annoso traghetto pare raccolga il gemito dei profughi che dall’entroterra arpionato dalla ferocia guerriera degli assatanati killers ortodossi, fuggendo si accalcano tra gli spalti di Dubrovnik che risponde come può all’assedio. Alle finestre degli alberghi che benché a loro volta sotto tiro li ospitano, sventolano gli stracci delle camicie e delle sottane messe in salvo mentre dall’alto delle Alpi Dinariche tuonano i cannoni e missili sibilanti armati di fosforo incendiario bruciano il tenero verde del monte che l’affocato scirocco ha risparmiato. Colpi mortali e esatti sfondano i tetti di coppi rossi e sfregiano la bellezza barocca dei palazzi e delle chiese, dei monumenti raccolti intorno allo Stradun colmo di macerie e dove ingabbiato da un assito alzato a patetica difesa dal più amaro oltraggio, la pallida statua del Paladino Orlando cova il muto, resistente culto dell’antica libertà repubblicana. La perigliosa navigazione cui il passeggero si è affidato con la vaga intenzione di recare qualche sollievo a una popolazione inerme e torturata o almeno di raccoglierne sotto dettatura la smarrita testimonianza, gli fa invocare a minima consolazione l’estasi indimenticabile del passaggio dell’equatore a bordo del Repubblica di Venezia. Il sontuoso bateau marchand che per giorni e giorni conosceva solo la sconfinata circonferenza blu dell’Atlantico, raccoglieva al largo dell’America del sud il messaggio rumoroso lanciato dai branchi delle balene che si inseguono e compiacciono della bianca doccia schizzata violenta dagli sfiatatoi: l’aveva vista ricadere in mille gocciole accese dal sole sull’arcuata massa di muscoli che sprofondano in un volteggiante ghiribizzo della coda bilunata, e quella era davvero festa. La grazia allegra di un’autentica pace. Il cuore rallentava i battiti, la pelle imbruniva alla vampa dell’aria tropicale, il tempo era solo un innocuo serpente che si morde la coda. E la capiriña l’inebriante viatico che cancellava i lasciti delle mestizie continentali. La distesa serica su cui s’incideva la ruscellante traccia del mercantile era immagine pertinente di un sogno d’eternità: e solo lo schiamazzo degli adunchi volatili multicolori che d’un tratto avevano annunciato gracchiando la prossimità del continente, lo aveva ricondotto alla malinconia che insegna come nemmeno il mare sia garanzia d’intatta e prolungata felicità. Ma c’è approdo e approdo: quello cui si appresta l’Ilijria nell’incubo delle sparatorie e nel lamento delle vittime ribadisce ancora più duramente l’essenza tragica della terra e della condanna a viverci. Lui aguzza lo sguardo, già gli sfilano accanto le rovine della stazione marittima incendiata che guarda al porto da nere orbite cave e finalmente capisce che rievocare navigazioni felici non serve più a nulla.


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