«Ci impegniamo a rispettare il pluralismo, ad accettare la diversità di opinioni e a non operare discriminazioni basate sulla religione, la razza, il colore della pelle, il sesso e la cultura». È la base del “Codice etico professionale” redatto da 60 giornaliste, provenienti da 22 paesi in cui si parla arabo, che si sono riunite ad Amman, in Giordania, alla fine di giugno. Le giornaliste, per la maggior parte fra i 25 e i 35 anni d'età, propongono tale Codice in sostituzione di quello precedente (“Codice etico del giornalismo arabo”), datato 1972, che non risponde più alle mutate condizioni dei lavoratori dei media nel mondo arabo.
Le giovani professioniste hanno inteso anche fare luce sulle discriminazioni di genere che devono affrontare tutti i giorni: ad alcune non viene permesso di lasciare l'ufficio o di lavorare in determinate ore (per legge); ad altre viene imposto l'uso del velo sul posto di lavoro; agli uomini vengono pagate le trasferte e concessi i passaporti e alle donne no; i loro stipendi sono sempre minori di quelli degli uomini e vengono persino considerate «femmine che è meglio non sposare». Non che siano molto preoccupate per quest'ultimo punto: tutte hanno attestato che quello che desiderano in primo luogo non è un marito, ma libertà di stampa ed equità di genere.
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Le due questioni sembrano inestricabilmente legate, soprattutto in questi giorni nello Yemen, dove dal 16 luglio scorso le giornaliste e la società civile protestano e tengono sit-in davanti al palazzo del governo. L'agenzia di stampa femminile yemenita “Giornaliste senza catene” è stata infatti bloccata dal governo, che le impedisce di distribuire il proprio lavoro.
Perché? «Perché è un servizio prodotto da donne», hanno risposto candidamente i funzionari.
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Alle Barbados il governo si avvale di un Ufficio per gli affari di genere che ha appena lanciato (in agosto) il Gender Management System: una rete di strutture, meccanismi legislativi e buone pratiche che avrà la funzione di monitorare l'implementazione dell'analisi di genere, a cominciare dai propri ministeri e uffici. Duecento persone sono già state formate per seguire il programma.
L'iniziativa fa parte del “Piano strategico nazionale” e sarà completamente operativa nel 2008. La direttrice dell'Ufficio citato, Nalita Gajadhar, ha spiegato che il piano d'azione si è evoluto attorno a quattro indicatori: “Genere, diritti umani e legge”; “Genere e sradicamento della povertà”; “Genere e benessere economico”; “Genere ed istruzione pubblica”.
Nalita Gajadhar ha anche dichiarato che uno sviluppo “sostenibile” è irraggiungibile senza equità di genere.
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«Facciamo due passi avanti e tre indietro». È l'amaro commento di un'impiegata di banca di Riyadh alle nuove misure che le sono state imposte sul lavoro dalla fine del giugno scorso. Non è la sola a protestare, ma sembra che il governo dell'Arabia Saudita non voglia assumersi responsabilità e non stia ascoltando. Le impiegate di banca sono infatti state bandite dagli uffici “misti” e segregate per sesso in reparti loro destinati (a piano terra, di modo che non debbano prendere l'ascensore con i colleghi di sesso maschile). Non possono spostarsi, e devono trattare con gli uomini tramite telefono o stando dietro un paravento.
«È per scoraggiarci», dicono le lavoratrici. «Vogliono che lasciamo il lavoro. Sarà difficile rovesciare questa situazione, perché la gerarchia religiosa ha stabilito che le nostre azioni sono offensive. Sarà difficile, ma noi non torneremo a casa».
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In India, invece, la Corte Suprema di Allahabad ha sentenziato il 7 agosto che la segregazione per sesso nelle scuole è «una pratica obsoleta», nonché «una violazione degli articoli 14 e 15 (diritti fondamentali) della Costituzione». Le studentesse, ha aggiunto il giudice Sunil Ambawani, devono avere la possibilità di scegliere che istituti frequentare e l'opportunità di raggiungere i più alti gradi d'istruzione.
La questione è finita davanti ad un tribunale grazie alla denuncia di un comitato di studentesse del distretto di Jalaun, alle quali il governo regionale permetteva di frequentare determinate scuole, riservate ai maschi, solo se esse fossero riuscite a dimostrare che non vi erano istituti femminili alla loro portata.
E poi c'è chi dice che non c'è niente da imparare dalle giovani...
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«Alcuni uomini vengono qui per prenderci in giro, e ridono di noi. Come può una donna dirigere un negozio?, dicono. Ma io non lascio che lo facciano, li contrasto. Sono felice di fare questo lavoro, era quello che sognavo, ma pensavo che non ci sarei mai riuscita in un ambiente così difficile. Oggi non ho più paura, e penso che noi donne possiamo fare tutto».
È Raqiba, afgana quarantenne, a dire questo. Assieme ad altre quattro pioniere, tiene aperto uno dei cinque negozi gestiti da donne che sono stati aperti di recente a Mazar-E-Sharif, nella provincia di Balkh, con l'aiuto del Dipartimento per gli affari delle donne. È la prima volta, per Mazar, e Friba Majid, la direttrice del Dipartimento, ha in progetto nella zona anche l'apertura di un mercato fatto da donne: «Uomini e donne hanno eguali diritti», dice. «Vogliamo che le donne entrino a pieno titolo nelle sfere politiche e sociali, e vogliamo che migliorino le loro condizioni economiche. A me non risulta che le donne siano fatte per stare dentro casa a far le pulizie».
«Le donne si sentono a loro agio a comprare da noi», aggiunge Kamila, un'altra delle nuove commercianti. «Alcune famiglie sono molto severe e non permettono alle donne di entrare in negozi in cui il gestore è un uomo».
Naturalmente c'è anche chi è terribilmente preoccupato da questa faccenda, come il mullah Abdul Nasir, che tuona: «Le donne stanno passando il limite. Non solo gestiscono i negozi, ma alcune di esse indossano pantaloni. Sono delle corruttrici, stanno incoraggiando altre donne a reclamare maggior libertà». Con trent'anni di guerra alle spalle, e una guerra in corso, e il mio paese distrutto, nei panni di Nasir io mi angustierei per qualcos'altro, ma vedete, ha messo il dito nella piaga. E la piaga è che la libertà delle donne fa paura.
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Forse ricordate che, nel gennaio di quest'anno, vi avevo parlato della prima squadra di interposizione delle Nazioni Unite completamente composta da donne ed inviata in Liberia. La missione doveva terminare in luglio, ma ha avuto un tale successo che è stata prolungata di altri sei mesi.
Le 105 poliziotte provengono dall'India e sono tutte delle esperte nel gestire i conflitti. La loro presenza, molto visibile, sta segnando la campagna contro la violenza sessuale, e i colloqui che hanno avuto con le poliziotte locali hanno contribuito tra l'altro a far arruolare nella polizia liberiana un gran numero di ragazze.
«È un buon momento per le donne, qui, per farsi avanti», dice la comandante in seconda Poonam Gutpa. «Come donna, quando metti le mani in pasta e hai successo diventi un modello e uno stimolo per le altre».
Maria G. Di Rienzo
(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 188 del 21 agosto 2007)
Fonti: Arab Women Media Center, Caribbean News, Associated Press, The Telegraph Calcutta, Yemen Times, New York Times, Inter Press Service, Bbc.