Aqui no hay futuro, dicono tutti. E forse è vero.
Cazzo di futuro vuoi che ci sia in un paese dove la gente abbandona il lavoro per rincorrere un turista? Qui per una donna con un bel corpo fare la jinetera è il solo mestiere che rende, il migliore possibile. Si mette in società coi nuovi ricchi che affittano case agli stranieri e via con la bella vita. Per gli uomini resta poca scelta. Vendere sigari e rum. Rubare. Questo è il nostro presente e anche il futuro, purtroppo.
Ecco perché oggi questa lezione su Miguel Cervantes proprio non la reggo. Don Chisciotte non mi va né su e né giù. Mi pare soltanto un povero fesso, lui che dirige la sua spada Durlindana contro i mulini a vento. Come mi fa pena quel povero Sancho Panza che cerca di fermarlo… sa che sta seguendo un folle però vuol bene al suo padrone. Anche noi stiamo seguendo un pazzo, per Dio. Anche noi. E non gli vogliamo neppure più tanto bene, se proprio devo dirlo.
Mi sta sul cazzo Cervantes. Mi ricorda troppo Cuba e i problemi che ogni giorno devo affrontare. La lotta contro i mulini a vento è una costante della nostra storia. Adesso però ci siamo rotti le palle. Datemi pure del controrivoluzionario, tanto non ci capisco più niente. Vorrei proprio saperlo quel che è rimasto in piedi della rivoluzione.
Sfoglio le pagine di Gutierrez senza farmi vedere. Il professore parla di Cervantes e io leggo Il re dell’Avana che tengo nascosto sotto il banco. L’ho comprato di contrabbando in una bancarella di libri usati del Prado. “Ragazzo, rammenta che io non te l’ho venduto” mi ha detto il libraio. Io ne avevo sentito parlare così tanto di quel romanzo, chi viene dall’Europa ne ha portato qualche copia che si è subito diffusa a macchia d’olio. Ne hanno fatto edizioni pirata e fotocopie sbiadite. Parla di Cuba, di come è davvero e non di quel che si vorrebbe che fosse. Mi piacerebbe conoscere Gutierrez. Dicono che insegni all’Università dell’Avana ma si fa vedere poco in giro. E poi forse non ne vorrebbe neppure parlare di questi libri che pubblica all’estero. Il governo li tollera, fa finta di niente. A Cuba lui parla alla radio, fa conferenze, scrive racconti fantastici, insegna…
Tra poco ci sarò anch’io tra quelli che pubblicano all’estero. Non mi pare neppure vero. Alejandro Torreguitart, uno studente avanero che suona rock e scrive racconti, pubblica in Italia. Se lo sapesse Gutierrez forse con me ci parlerebbe, magari ci potremmo anche incontrare. Avremmo tante cose da dirci, credo. Ma io mica lo posso andare a raccontare che pubblico in Italia, soprattutto dopo le cose che ho scritto su quel romanzo. Mica sono Gutierrez, io. A me non la farebbero passare così liscia. E poi si fa presto a dire Italia. Io spedisco tutto là, spendo una fortuna in francobolli. A volte mando via pacchi legati forte con lo spago insieme a qualche amica che se ne va perché si è sposata. Non è difficile trovare qualcuna che faccia la spola con l’Italia. Qui è tutto un fuggi fuggi. Si sposano. Si separano. Tornano a Cuba. E poi partono di nuovo. Però a me fa comodo, adesso. Quindi sfruttiamo la situazione e non facciamo tanto i moralisti. L’ultima volta nel pacco c’erano i miei ultimi racconti e poi anche il secondo romanzo. Mando tutto al marito di mia cugina, lui pensa ai contratti, fa pubblicare, riscuote le percentuali pattuite. Per quel che ne so mi potrebbe pure fregare.
Anzi, già che ci siamo, quando traduci questo di racconti vedi un po’ se ti fai sentire più spesso che almeno me ne sto più tranquillo.
Questi italiani sono dei gran taccagni. Già mi pare di sentirlo. “Telefonare a Cuba costa”. “Non sono mica miliardario”. Dice sempre le stesse cose. L’ultima volta che ha chiamato mi ha dato la bella notizia che l’editore pubblicherà il primo romanzo nel 2003. Cazzo, un po’ di più non poteva aspettare? Problemi di programmazione editoriale, sostiene il camajan. Che poi il camajan sarebbe quello che ha sposato mia cugina. Ha detto che in Italia quando un editore ha raggiunto un certo numero di titoli in un anno si ferma e attende l’anno successivo per pubblicare ancora. Funziona così, ha detto. Io che cazzo ne so se è vero. A Cuba non si pubblica perché manca la carta. Questo lo so. Come so che se uno si chiama Abel Prieto magari la carta la trovano. Non resta che fidarsi. L’esperto di editoria italiana è lui. Adesso ha detto che l’editore sta leggendo anche il secondo romanzo e un po’ di racconti. Speriamo bene. Speriamo che non decida di pubblicare tutto nel 2004. Se no hai voglia ad aspettare i soldi delle vendite, che in Italia gli anticipi non li dà nessuno.
“Mica siamo in America!” Ha detto ridendo il camajan l’ultima volta che è venuto a Cuba “Magari dessero gli anticipi…”.
Vediamo un po’ allora come siamo messi.
Assodato che scrivere mi interessa e che voglio continuare a farlo resta il problema della sopravvivenza, che è sempre un bel problema. L’università poi la devo finire. Dice mio padre che può sempre servire, la situazione cambierà, prima o poi. Intanto lui porta a giro gli stranieri con il taxi abusivo e io gli do una mano con il sidecar. E non basta mai. L’università mi piace, tutto sommato. A parte la palla di oggi su Cervantes. Mi interessa la rivista che abbiamo tirato su con gli amici, che se troviamo la carta continuiamo a pubblicarla. A parte la polizia che rompe e che vuole leggere ogni numero da cima a fondo prima di dare il visto. Hanno paura che scriviamo cose controrivoluzionarie. Non siamo mica fessi. Realismo magico, narrativa fantastica, articoli su Carlos Varela e Leonardo Padura Fuentes, un po’ di musica tradizionale. Tutto qui. Magari di Abel Prieto non parliamo, quello sarebbe troppo. Lui ha già il ministero della cultura come press agent. La rivista la facciamo per passione. Non ci dà da mangiare. Come non ce lo dà il complesso dove suono. Rimedio pochi pesos, qualche invito a cena. Niente più. E allora per sopravvivere resta lo sport nazionale, quello più praticato dopo il baseball, o forse adesso pure di più. La caccia al turista. Vendere tabacos rubati e cispes al posto del rum, fare da guida per L’Avana Vecchia e portare lo straniero nella paladar che ha promesso una mancia. Non c’è altra soluzione. Tra un racconto e l’altro, tra una raffica di vento che spazza via le nubi dal cielo e un palazzo che crolla, tra le pagine di un romanzo che racconta la mia vita. Squillerà il telefono, prima o poi. Si tratta solo di tenere duro qualche mese, poi il camajan mi dirà che il romanzo è uscito e allora arriveranno i soldi dei diritti a cambiarmi la vita.
La voce del professore rimbomba nel silenzio dell’aula e mi riporta alla realtà. Fa caldo. Cervantes non mi interessa per niente, anche se dovrò studiarlo per l’esame. Adesso pare che la tortura sia finita. Chiudo il libro che leggevo sotto il banco, lo ripongo nella borsa insieme ai testi di letteratura spagnola e a Don Chisciotte. Stasera andrò da Juliana. Ho da dirle un sacco di cose. Il romanzo che parla di lei è arrivato in Italia e l’editore lo sta leggendo. Mi spiace soltanto che questa sarà una delle ultime sere che passeremo insieme. Juliana ha vinto il bombo e presto partirà per Miami. L’ho scritta anche nel libro questa cosa e purtroppo non è una mia invenzione. Scappano tutti da questa terra malandata. Scappano e poi la rimpiangono. Spesso ritornano delusi. Io non vorrei fuggire. Vorrei vivere qui con qualche dollaro in tasca. Vorrei poter sperare nel futuro. Vorrei che l’orologio della storia tornasse vent’anni indietro. E vorrei che quel maledetto telefono suonasse, maledizione!
Alejandro Torreguitart Ruiz