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Maria G. Di Rienzo. Donne in Afghanistan
29 Luglio 2007
 

La popolazione afgana è stimata attorno ai 24 milioni e 900.000. Circa il 70% vive con meno di un euro al giorno. Tra il 20 e il 40% della popolazione rurale soffre di denutrizione. Più dei due terzi degli afgani sopra i 15 anni sono analfabeti, e l'80% di questi analfabeti sono donne. Un quarto dei nascituri afgani muore per complicazioni legate al parto. I matrimoni forzati ammontano tra il 60 e l'80% del totale. Almeno il 57% delle fanciulle va sposa prima dei 16 anni. I “delitti d'onore” sono assai diffusi. Le vittime di stupro non denunciano la violenza subita per timore di essere accusate del crimine di “sesso fuori dal matrimonio”. Un crescente numero di donne si suicida dandosi fuoco. Rischiano il rigetto da parte delle loro famiglie, rischiano pestaggi e persino di essere uccise, magari semplicemente perché escono di casa da sole per andare a scuola o al lavoro. Pure, le donne afgane continuano a farlo: sono determinate a migliorare il futuro dei loro bambini, del loro paese, persino se dovessero pagare ciò con le loro vite.

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Prendete Reza Gull, che fa affidamento sui suoi figli come guardie del corpo, figli che vegliano la notte per proteggerla. Lavorando come consigliera nell'amministrazione provinciale di Helmand, Reza, che ha quarant'anni, ha messo la sua esistenza a rischio. Riceve numerose minacce di morte, per lo più in forma di lettere minatorie che vengono lasciate presso la sua casa durante la notte. Reza è stata la prima consigliera di sesso femminile ad essere eletta nell'intera regione: «L'ho fatto per servire il mio paese, la mia gente, ed in special modo le donne. In Afghanistan le donne hanno bisogno di aiuto in ogni campo. Quando andai a registrarmi come candidata, tutti gli uomini presenti mi risero in faccia. Mi dissero che non sarei mai stata votata al Consiglio. Mi dissero che ero pazza se pensavo di avere una sola possibilità. Ma non è andata così».

Parlando della possibilità di essere uccisa, Reza dice senza la minima traccia di autocompassione: «So che me la faranno pagare, presto o tardi. Ma almeno morirò in dignità, me ne andrò sapendo che ho vissuto la mia vita facendo le cose giuste. Non morirò nella vergogna». E aggiunge: «Non sarebbe possibile, per me, fare questo lavoro se non avessi il sostegno della mia famiglia. Verrei rigettata, da loro e dalla società, ma io sono fortunata perché i miei cari sono dalla mia parte».

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Khadija Shojaee, ventitreenne, ha assaporato l'amaro destino dei profughi assieme alla sua famiglia, fuggita assieme a quasi altri quattro milioni e seicentomila afgani durante il regime talebano: «Ho voluto disperatamente tornare, perché voglio servire il mio paese». Khadija ha deciso di entrare in polizia. «Quando mi sono arruolata, i miei colleghi mi chiedevano perché ero lì. Ma ora sono cambiati, la mia determinazione li ha cambiati, e mi aiutano. Di solito mi tolgo l'uniforme prima di tornare a casa, per evitare molestie alla mia famiglia, ma pian piano abituerò le persone attorno a me ad accettare la mia scelta. Alcune ragazzine del vicinato parlano già di imitarmi. Credo che dar loro un buon esempio sia la cosa migliore che io posso fare per il mio paese».

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Nanjia Haneefi, ventinovenne di Kabul, è la direttrice del Centro per l'istruzione delle donne, ed era una delle coraggiose insegnanti che gestivano scuole segrete durante il dominio talebano. Oggi si batte per assicurare condizioni migliori alle detenute ed il suo Centro fornisce alle donne formazione professionale, alfabetizzazione e consulenza legale. Nanjia ha visto la morte in faccia parecchie volte: in tre occasioni è stata minacciata direttamente da uomini armati: «Mi aspetto di essere ammazzata, sempre. Ma andarsene di qui sarebbe troppo facile, non posso farlo, mi sentirei come se tradissi il mio paese e soprattutto le donne che fanno affidamento su di me».

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Malali Muska, oggi ventiduenne e giornalista radiofonica, ha potuto studiare solo perché donne come Nanjia hanno rischiato la vita. Ricordando i giorni in cui frequentava la sua scuola segreta, dice: «La copertura usuale, se ci scoprivano, era pretendere di star studiando il Corano. Di solito c'erano 100-150 bambine per sole tre insegnanti. In diverse occasioni alcune delle bambine vennero messe in prigione. Guardando indietro, non so perché non fossi più spaventata, ma era quello il mondo che conoscevo. Una volta, avevo undici anni, stavo camminando con la mia mamma attraverso il mercato e un talebano ci fermò. Indossavo jeans e una giacca e forse perché ero alta ha pensato che fossi un'adulta. Mi disse che mi avrebbe picchiata, mentre mia madre implorava pietà: riuscì a convincerlo che io ero mentalmente disturbata, così ci lasciò andare».

Malali è del distretto di Wardak, ad ovest di Kabul, e il suo programma radiofonico è diretto agli adolescenti, a scopi informativi ed educativi. Malali parla di droga, di matrimoni forzati, e di tutta un'altra serie di argomenti tabù per i fanatici religiosi: «Di recente ho avuto una chiamata da una donna che stava per acconsentire al matrimonio della figlia dodicenne con un uomo di quarant'anni. Era triste e confusa. Abbiamo parlato per un bel po', ed alla fine ha cambiato idea. Non darà via sua figlia».

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Ancora troppe bambine afgane vanno spose, per lo piu' per ragioni economiche. Un altro motivo dietro ai matrimoni forzati è la composizione delle dispute: dall'omicidio ai debiti, si può ripagare la famiglia offesa con una figlia o una sorella. Non che funzioni davvero. Quattro su cinque delle bambine o ragazze offerte a questo scopo, come ha rivelato l'inchiesta della deputata afgana Malalai Shinwari, finiscono male. Pagano per le offese commesse dai parenti maschi, con una vita d'inferno o con la morte.

Ragazzine come Marjan, oggi sedicenne, che si è data fuoco l'anno scorso per fuggire da un matrimonio imposto e da un marito violento. Marjan è sopravvissuta al suo gesto disperato, è riuscita ad ottenere il divorzio, può raccontare: «Aveva 25 anni più di me. Quando non riusciva a trovare eroina o narcotici mi torturava. Cominciava a battermi dopo la mezzanotte. Quella notte mi picchiò molto, anche sulla testa, e il sangue mi usciva dal naso. Gli chiesi perché lo faceva, e mi picchiò ancora. Quando se ne andò mi versai addosso della benzina e accesi un fiammifero». La maggior parte del suo corpo è devastata dalle ustioni: Marjan ha già affrontato parecchie operazioni chirurgiche e altre dovrà affrontarne.

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La siccità dell'anno scorso ha gettato nella miseria più nera famiglie e famiglie di contadini: due milioni e mezzo di afgani hanno perso fra l'80 e il 100% delle loro coltivazioni. La soluzione a portata di mano, per non morire di fame, è vendere una figlia.

Sahatgul, del villaggio di Houscha, ha trent'anni ed è madre di cinque bambine: «Se la siccità peggiora dovrò darle in sposa tutte. L'anno scorso si e' sposata la maggiore, quest'anno sarà Azizgul, che ha dieci anni. Non abbiamo cibo, e il prezzo della sposa ci permette di comprarlo. Una volta non eravamo cosi' disperati, non c'era la necessità di dare in matrimonio le figlie così giovani».

Somaya è stata venduta dal padre per 3.000 dollari a un ventiduenne del medesimo villaggio. Somaya, di anni, ne ha otto. «Il promesso sposo ci ha già dato 600 dollari, che abbiamo usato per acquistare vesti calde e cibo», spiega il padre della bambina. «Adesso si trova in Iran, ci è andato per guadagnare il resto del prezzo della sposa». Somaya sa che sta per diventare moglie di qualcuno, ma ovviamente non è conscia di ciò che la faccenda comporta. Ha le sue cose da fare: per esempio un viaggio di tre ore ogni giorno per raccogliere legna e acqua.

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Sono i convogli che portano aiuto a questa gente (Houscha è nella provincia di Herat) ad essere assaliti e depredati. A morire in massa, di denutrizione, sono i bambini più piccoli. «Sono molto deboli», spiega una madre del villaggio di Sya Kamarak. «Tutto quello che abbiamo per nutrirli sono patate e acqua bollita con lo zucchero».

Jan Bibi, quarantenne, ha tentato di far sopravvivere la figlioletta di tre mesi ad acqua bollita e zucchero, ma la piccola le è morta fra le mani: «Volevo nutrirla al seno, ma non producevo abbastanza latte».

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Ora vi prego di perdonare la mia ingenuità e la mia ignoranza, ma ho delle domande da porre. In Afghanistan, in questo paese di cui vi racconto le vite delle donne, ci sono italiani in “missione di pace”. Non ne so nulla. La stampa italiana, a differenza di quella straniera, sembra strafregarsene della nostra politica estera non appena questa esce dalle diatribe parlamentari. Abbiamo mandato i soldati in Afghanistan e sappiamo tutto su chi ha votato che cosa e chi ha polemizzato con chi. Non sappiamo cosa fanno i soldati. Di pacifico e utile, intendo. Potrebbero proteggere i convogli degli aiuti umanitari? Potrebbero stabilire un servizio di trasporto per le madri partorienti dei villaggi, visto che gli ospedali distano al minimo un giorno di viaggio da essi e le donne e i piccoli muoiono prima di poterli raggiungere? E se invece tutto quel che fanno e' aggiungere piombo al piombo e dolore al dolore, potrebbero tornare a casa?

 

Maria G. Di Rienzo

(da Notizie minime della nonviolenza in cammino, n. 163 del 27/07/2007)

 

 

Fonti: Bbc, The Sun, Human Rights Watch, Medica Mondiale, The Observer, Irin News, Associated Press.


 
 
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