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Cannibal Holocaust, una pellicola cult
09 Novembre 2005
 

Il cinema cannibalico di Deodato può dirsi a pieno titolo cinema cult soprattutto grazie alla sua opera più discussa e celebrata: Cannibal Holocaust (1979). Quando parliamo di cinema cult dobbiamo fare attenzione a non cadere nel soggettivo, come giustamente fa notare Mauro Giorgi nell’ottimo saggio I cult movie pubblicato da Xenia nel 2001. Perché cult può essere qualsiasi cosa, se non impostiamo la nostra indagine secondo criteri oggettivi di valutazione. Infatti spesso anche la pellicola più scadente o bislacca può diventare oggetto di culto, come per il collezionista è cult tutto ciò che non riesce a reperire. Ci sono passioni immotivate e inspiegabili che muovono gli interessi di molti, ma qui siamo chiaramente nel campo del cult soggettivo.

Il cinema cannibalico di Deodato, come la sexeploitation di Joe D’Amato (anche Deodato ha avuto contatti con quel genere) invece sono vero cinema di culto. I giovani che amano il sensazionale e l’horror qui trovano ciò che cercano e non sono tratti in inganno da pellicole furbette che accarezzano il pelo al gusto giovanile ma in sostanza restano rassicuranti. Tutt’altro. Questo tipo di cinema è disturbante al massimo e vuole essere cinema duro, estremo, violento, controtendenza. In poche parole fa propria l’affermazione di Allen Ginsberg: «Ribellati contro i governi, contro Dio. Resta irresponsabile. Dì solo quel che sappiamo e immaginiamo. Gli assoluti sono coercizione. Il cambiamento è assoluto». Il discorso sui cult movies ci porterebbe fuori strada. Per l’analisi accurata si rimanda al testo citato, una miniera di informazioni.

Cannibal Holocaust è il cannibal movie per eccellenza e incarna tutta la filosofia di un genere costruito attorno al tema degli atti cannibalici da parte di indigeni. L’ambientazione di queste pellicole è sempre nelle foreste inesplorate dove una spedizione occidentale incappa in brutte avventure di stampo antropofago. Deodato, all’epoca solo un giovane regista di talento, porta nella pellicola l’esperienza di Ultimo mondo cannibale ed estremizza le atmosfere create da Sergio Martino ne La montagna del dio cannibale.

Cannibal Holocaust è recitato da un cast di attori semi sconosciuti: Robert Kerman (pseudonimo di Richard Bolla, noto porno divo che aveva interpretato ruoli hard in pellicole di Gerard Damiano), Francesca Ciardi, Luca Barbareschi (al suo primo film), Gabriel Yorke, Perry Pirkanen e Salvatore Basile. Lamberto Bava è l’aiuto regista e le musiche sono dell’ottimo Riz Ortolani. La sceneggiatura è di Gianfranco Clerici che aveva collaborato anche a Ultimo mondo cannibale.

Il film si apre con la stupenda musica di Riz Ortolani che accompagna i titoli di testa e fa da sottofondo a una veduta aerea della foresta colombiana, scenario di gran parte della pellicola. Si apprende subito da un servizio televisivo che quattro reporter (Ciardi, Barbareschi, Pirkanen e Yorke), incaricati dalla BBC di girare un documentario sulle tribù cannibali in Amazzonia, non danno notizie da più di un mese. Il professor Harold Monroe (Robert Kerman) viene incaricato di effettuare le ricerche e parte in compagnia di una spedizione militare. Si alternano scene rassicuranti e distensive a terribili filmati di repertorio che inquadrano cannibali intenti a spolpare carni umane. Lo spettatore viene immerso in un mondo primitivo dove l’antropofagia è regola di vita. Muore uno dei militari avvelenato da una freccia al curaro e viene catturato un indigeno che ha in mano un accendino. Cominciano ad affiorare i primi sospetti che i quattro abbiano fatto una brutta fine. Monroe concorda con i funzionari locali i particolari di una spedizione nella giungla e si fa accompagnare da una guida esperta (personaggio un po’ troppo convenzionale), un giovane indio e uno schiavo Yakumo. Nella foresta incontrano di tutto: caimani, sanguisughe, tigri e bestie feroci (qui l’influenza dei mondo movies si fa sentire). Lungo il cammino rinvengono pure il cadavere di un vecchio amico della guida divorato dai vermi e un guscio di tartaruga, che pare la prova del passaggio dei quattro reporter. Altre scene servono solo ad accentuare i toni macabri: la guida che sniffa cocaina e costringe lo schiavo Yakumo a fare altrettanto, ma soprattutto l’indio che cattura un topo muschiato e lo sgozza in diretta senza l’ausilio di effetti speciali. Quindi c’è uno stacco improvviso che inserisce una sequenza truculenta: l’uccisione rituale di un’adultera che viene trascinata dal marito fino a un palo di legno e poi violentata con un fallo di pietra. La scena è sottolineata dal cupo sottofondo musicale di Riz Ortolani costruito appositamente per i punti più caldi del film. Monroe e i suoi raggiungono un villaggio dove hanno notizie per niente rassicuranti sui reporter scomparsi. Il capo tribù gesticola indicando capanne bruciate e resti umani come a far capire che sono passati di là lasciando quella desolazione. La spedizione passa altre avventure e conosce nuove tribù, assistiamo alla precipitazione di una donna dal grande albero dove abitano gli indios Shamatari e la colonna sonora sottolinea la scena agghiacciante. Finalmente i nostri arrivano all’insediamento dei cannibali e il professore ritrova i corpi putrefatti dei giovani reporter con il materiale da loro girato. La spedizione viene invitata al pranzo cannibale e su questa scena termina il primo tempo. La seconda parte è il vero capolavoro, come dice lo stesso Deodato. Si comincia a New York negli studi della BBC, dove Monroe e i responsabili della rete televisiva visionano il materiale girato dai quattro reporter. Lo stratagemma del film nel film viene spezzettato da frequenti ritorni in diretta e dialoghi tra i protagonisti. Sono cinque i filmati proiettati negli studi BBC mentre i dirigenti si interrogano sull’opportunità di passare il materiale. Prima viene visionato un documentario che i quattro avevano girato tempo addietro: un movie truculento ricco di esecuzioni e violenze che serve a preparare lo spettatore agli orrori che lo attendono. Poi si parte con i filmati girati in Amazzonia e si vedono i quattro scherzare in aereo e in camera. Uno stacco ci porta dal professor Monroe a colloquio con i parenti delle vittime e comprendiamo che i reporter morti in Amazzonia non erano proprio dei bravi ragazzi. Si torna al filmato girato dai quattro e si assiste alla parte più contestata del film: le uccisioni di animali in diretta. I reporter trascinano fuori dal fiume una tartaruga gigante e la squartano con un coltello. Poi vediamo l’uccisione di un ragno velenoso, una gamba amputata per il morso di un serpente, gli indigeni Yakumo e altre immagini di carattere antropologico. Il filmato successivo ci mostra i quattro alle prese con la finta ricostruzione di un attacco da parte di una tribù nemica. I reporter radunano gli indigeni in una capanna, appiccano il fuoco e li fanno morire bruciati vivi mentre filmano la scena. Tutto è chiaro e finalmente comprendiamo che genere di macabro reportage voleva girare la diabolica troupe. Poi c’è una scena di sesso quasi rubata, come un accoppiamento selvaggio, girata da Deodato acuendo il senso di tensione. Altro pezzo di filmato e nuovi orrori. Una donna ammalata e incinta viene uccisa con il suo bambino e alcuni vecchi poco distante attendono di morire per mano dei sadici reporter. Una giovane indigena viene stuprata e impalata. Questa è la scena simbolo di tutto il film, quella con cui è universalmente conosciuto. Le immagini sono così realistiche che vennero accusate di snuff. In realtà furono realizzate facendo sedere la ragazza su di un sellino legato al palo e la sensazione che il legno avesse trapassato tutto il corpo fu resa possibile mettendole un piccolo paletto appuntito in bocca. Le scene finali sono davvero geniali e mostrano la morte in diretta dei protagonisti girata dalle loro stesse macchine da presa. Qualcosa del genere è stato ripreso in tempi recenti con Il mistero della strega di Blair, spacciando per nuova frontiera dell’horror un plagio sfacciato di quello che Deodato aveva ideato vent’anni prima. Il film si conclude a New York con i dirigenti BBC e il professore che considerano tra loro sulla impossibilità di trasmettere i filmati. Nell’ultima sequenza compare il dubbio che passa dallo schermo allo spettatore: “Chi sono i veri cannibali?”.

Il Mereghetti assegna due stelle al film ed è un successo che il cinema di genere non ripete molte volte nelle pagine della monumentale opera del critico milanese.

Riportiamo per intero il suo commento.

Un’operazione gelida e sgradevole, ma a suo modo abile: l’espediente del film nel film non solo avvolge di un alone inquietante da finto snuff la violenza mostrata ma costituisce una precisa riflessione sulla prassi dei mondo movies, una pietra tombale e una satira del genere.

Conclude Mereghetti che il film è un documento indiretto sul malessere dell’epoca e una tappa fondamentale per chiunque voglia riflettere sulla rappresentazione della violenza.

Dato che molti attori erano semi sconosciuti si sparse la voce che le riprese fossero reali e Deodato giocò su questa cosa per creare maggior interesse nel pubblico. Pare che una clausola precisa del contratto imponesse agli attori di sparire temporaneamente di circolazione. I quattro che avevano interpretato la parte dei reporter diabolici non dovevano girare altri film per i due anni successivi, così da dare l’impressione di essere davvero morti.

Per questo vennero presi all’Actors Studio di New York due attori che non avevano mai lavorato. Luca Barbareschi era italiano ma stava a New York, Francesca Ciardi era una pariolina amica di Deodato (moglie del giornalista Paolo Frajese che prese male il fatto che doveva girare alcune scene nuda) e la sequenza della concubina penetrata dal fallo di pietra venne girata addirittura dalla sarta di scena (Lucia Costantini).

C’è da dire che soprattutto all’estero questo film venne spacciato per un documentario alla Mondo Cane e che in paesi come il Giappone fu proprio la produzione a imporre questo tipo di commercializzazione. Oggi nessuno ci crede più e tutti sappiamo che le uniche violenze furono quelle perpetrate ai danni degli animali. Quelle purtroppo sono scene vere e sono costate al regista feroci critiche da parte di associazioni ambientaliste e animaliste.

Cannibal Holocaust è girato in modo del tutto realistico e soprattutto la parte del finto documentario gioca con l’espediente tecnico della pellicola graffiata per dare la sensazione del vero filmato non professionale. Poi, come fa giustamente notare Antonio Tentori, c’è anche un differente uso della fotografia e dello stile che contrappone la parte dedicata ai filmati della troupe al resto della pellicola. Tutto questo contribuisce a creare un notevole impatto emotivo nello spettatore, ma al tempo insinuò in molti il sospetto dello snuff e portò Deodato a fare i conti con la giustizia. Il film venne sequestrato e condannato e sollevò un coro unanime di esecrazione. Durante il processo venne chiarito che le sequenze incriminate erano pura finzione e che non erano stati girati veri riti cannibali. Il regista e gli attori rischiarono ugualmente la galera quando venne fuori che le uccisioni degli animali erano vere. Deodato si difese abilmente asserendo che le mutilazioni agli animali erano state riprese con spirito documentaristico. Tutto faceva parte delle usanze locali e gli indigeni alla fine delle riprese si cibavano degli animali uccisi. In pratica Deodato disse che si era limitato a riprendere bestie uccise per mere finalità alimentari dagli indigeni locali. Per noi occidentali può apparire strano ma è vero che la tartaruga e il topo gigante sono alimenti serviti regolarmente sulle mense tribali. Il porcellino squartato in primo piano da Luca Barbareschi è l’unica vittima che pare sia stata consumata anche dalla troupe di Deodato. Ma chi di noi non ha mai mangiato un porcellino? Può far compassione vederlo morire, certo. Ma se lo troviamo in tavola di sicuro diciamo che è un piatto molto appetitoso. E poi tutto quello che è stato fatto servì a realizzare un capolavoro del cinema, un film che resterà una pietra miliare dell’exploitation italiana.

In ogni caso l’ondata di disgusto dal sapore censorio bloccò per lungo tempo il film e impedì a Deodato di raccogliere subito i frutti del suo lavoro. La pellicola venne riproposta nelle sale durante la stagione cinematografica 1983-84 dopo alcuni tagli e varie cause legali. Adesso grazie al circuito della Home Video molti appassionati hanno potuto apprezzarla in versioni quasi totalmente uncut. Se riuscite a reperire la versione olandese sappiate che è ancora più integrale, ma il contenuto della VHS italiana basta e avanza. La pellicola contiene immagini forti e, come si usa dire oggi, politicamente scorrette, ma la violenza esibita serve anche a trasmettere un messaggio di alto valore etico e cinematografico.

Cannibal Holocaust è il primo film che inaugura il meccanismo geniale della VHS ritrovata e che viene girato come un documentario realistico. Il famoso e recente The Blair Witch Project (1998) di Daniel Myrick e Eduardo Sanchez copia di sana pianta l’espediente e questa cosa ha infastidito molto Deodato, che ha meditato sull’opportunità di intentare una causa civile per plagio. Non ne ha fatto di niente ma ci sarebbero stati gli estremi per agire in giudizio. Tra l’altro Il mistero della strega di Blair è un pessimo film che gioca tutte le sue carte sulla trovata del finto documentario. Pare quasi impossibile che il pubblico abbia assistito a un lavoro così mal girato senza protestare più di tanto. La trama vede tre studenti che per un saggio di fine corso si recano nei boschi di Maryland sulle tracce della leggendaria strega che fa sparire i bambini. Portano una video camera digitale e una cinepresa in sedici millimetri, con la quale filmano il crescendo di paura e tensione sino alle scene finali che precedono la loro morte. Il materiale girato dai tre studenti viene rinvenuto un anno dopo e distribuito nelle sale come documentario. Questo è il gioco che si tenta di far credere per mezzo di un sito internet costruito appositamente e tramite una straordinaria campagna di stampa. Il film ha un successo commerciale notevole, a dimostrazione di come si possano costruire a tavolino pellicole miliardarie che in realtà nascondono soltanto pessimi prodotti. L’unica cosa interessante resta lo stratagemma della pellicola ritrovata nel bosco e del finto documentario, ma sono cose già viste in Cannibal Holocaust vent’anni prima. Tra l’altro l’idea sviluppata da Deodato ispirò nel 1998 anche un’altra produzione americana: The last broadcast (L’ultima trasmissione) che racconta la storia di una troupe che deve girare un documentario sul diavolo del Jersey. Anche in questo caso la spedizione nei boschi non farà ritorno. Nel soggetto del film il documentario viene indicato come Jersey devil project. Dato che è girato un anno prima de Il mistero della strega di Blair c’è il sospetto del doppio plagio!

Il film di Deodato non si limita a un esercizio sterile di tecnica di ripresa e alla esibizione della capacità di girare una storia spacciandola per vera. È molto di più. Cannibal Holocaust è un film disperato e lirico, indimenticabile nella sua incredibile rappresentazione della violenza. Un’opera di culto nell’exploitation italiana che non può lasciare indifferenti. I fotogrammi finali restano scolpiti nella mente dello spettatore e raggiungono lo scopo di sconvolgere e disturbare. Il finale recita una morale che può sembrare banale ma che non lo è se la storicizziamo. Cannibal Holocaust, come dice lo stesso Deodato, è un film di denuncia e vuole mettere alla berlina gli scoop sensazionalistici, i mondo movies, i documentari che dovevano sconvolgere per forza. Deodato sconvolge ancora di più con una crudele e spietata rappresentazione della violenza. «Mi domando chi siano i veri cannibali» dice nell’ultima scena del film il dottor Monroe. Ne emerge anche un messaggio ecologico, sebbene Deodato sia stato tacciato più volte di bieche violenze su animali offerte in sacrificio alla sua pellicola e ai suoi spettatori. In realtà sono proprio quelle uccisioni in diretta che lanciano il messaggio di disgusto e raccapriccio e che a loro modo sono dalla parte degli animali. Così come il film è dalla parte dei selvaggi che reagiscono soltanto perché tormentati e aggrediti. I veri cannibali siamo noi che non abbiamo rispetto per chi è diverso e perché usiamo i più deboli e indifesi soltanto per i nostri scopi. Cannibal Holocaust è un film che vuol sconcertare e far pensare allo scempio che la civiltà ha perpetrato e continua a perpetrare ai danni della natura incontaminata e delle popolazioni primitive dell’Amazzonia. Ecco perché non comprendiamo il senso di tante accuse superficiali e prevenute. Lo spettatore esce dalla sala e non può scordare niente di quel che ha visto. Soprattutto si sente dalla parte di quei cannibali che divorandosi la troupe diabolica hanno fatto soltanto giustizia.

Deodato ha detto a Nocturno che quando fece quel film era molto incazzato per i suoi problemi personali con la Dionisio. La coppia stava divorziando e questa cosa come si può immaginare veniva vissuta in modo traumatico. Deodato confessa che tutta la cattiveria che ha inserito nel film viene da questo suo particolare stato d’animo. Ci crediamo. La situazione personale si riflette sempre nelle cose che si fanno. Pare poi che la storia fu suggerita dal figlio che all’epoca non voleva guardare la televisione perché scioccato da tutti quei reportage violenti che passavano, i morti ammazzati dalle Brigate Rosse e via dicendo.

Sentiamo adesso in presa diretta dal regista quel che ricorda di Cannibal Holocaust. Alcune delle risposte sono estratte dalla già citata intervista rilasciata a Nocturno, altre sono una nostra esclusiva.

- Dove venne girato il film e quanto durarono le riprese?

Lo girammo interamente a Leticia in Colombia, a parte due scene: la proiezione del filmato nella saletta televisiva e la fucilazione del vietnamita. Furono sufficienti nove settimane, tant’è vero che in coda a Cannibal Holocaust diressi La casa sperduta nel parco, anche quello girato in poche settimane.

Aggiungiamo noi che molte scene orripilanti, come quella della fucilazione a cui si assiste durante il filmato promozionale realizzato dalla troupe dei quattro ragazzi, sono state girate alla De Paolis e sotto le mura di Roma. Anche scene come queste sono piccoli capolavori di ingegneria registica. Ci sono pezzi di filmati veri e pezzi falsi ben incastrati che danno l’idea del documentario realistico.

- Qual è la parte migliore del film?

Il secondo tempo per me è un vero capolavoro. Realizzai le riprese in sedici millimetri con la macchina a mano e il risultato è di un realismo esasperato.

- Raccontaci i tuoi problemi con la giustizia.

Il film venne sequestrato sulla base di una vecchia legge fascista contro la tortura delle cavie, poi perdemmo il processo e certi produttori mi etichettarono, così scontai la mia pena. Nel film c’era tanta violenza che sino ad allora nessuno aveva mai avuto il coraggio di esibire sul grande schermo. Io anticipavo i tempi e la violenza ben più esplicita che sarebbe esplosa di lì a pochi anni. I giornalisti propinano indisturbati notiziari infarciti di persone crivellate dai proiettili o dilaniate dalle bombe e persino i bambini sono esposti a tali spettacoli. Cannibal Holocaust è solo un’esplicita denuncia al mestiere di giornalista così come viene concepito nell’epoca moderna.

- Perché tutte quelle violenze sugli animali?

I topi, i maiali selvatici, i coccodrilli e le tartarughe venivano uccisi dagli stessi indios che poi se li mangiavano. Io li seguivo durante le loro battute di caccia come si potrebbero seguire i macellai al mattatoio comunale e avevo sempre un incaricato della Protezione Animali alle costole. Non sono stato io a ordinare le violenze.

- Come hanno reagito gli attori nel girare quelle scene?

Abbastanza male. Per quel che riguarda il topo muschiato veniva ucciso da una comparsa. Barbareschi invece non ha avuto particolari problemi ad ammazzare il maialino, mentre per la tartaruga Perry Pirkanen piangeva. La tartaruga l’abbiamo uccisa secondo lo stesso rituale effettuato dagli indios, quindi eravamo abbastanza preparati. Quello che a me ha fatto più impressione sono state le scimmie. C’è la scena in cui gli indios ammazzano la scimmia e le succhiano il cervello. Noi avevamo quattro scimmiette di riserva. Quando tagliammo la testa a una le altre quattro sono morte di crepacuore. Quella è stata la cosa più atroce.

- Cosa rispondi agli attacchi degli animalisti?

Sono posizioni rigide. Se la prendono tanto con il cinema quando nei mattatoi comunali macellano animali in continuazione.

- Alcuni critici sostengono che certe scene del film erano vere.

In Cannibal Holocaust di vero ci sono solo alcune fucilazioni di negri che appaiono nel documentario realizzato dai protagonisti prima di partire per l’Amazzonia. Si tratta di materiale di repertorio che acquistai da una ditta inglese. Tutto il resto sono effetti speciali.

- Cosa nei pensi degli snuff movies?

Sono film clandestini che nessun regista professionista si sognerebbe di realizzare. Io non ne ho mai visti ma purtroppo so che esistono. Fanno parte del più vile mercato pornografico e non voglio assolutamente essere associato a certe porcherie. Per questo mi dà fastidio essere soprannominato Monsieur Cannibal e ho fatto di tutto per scrollarmi di dosso questa scomoda etichetta. Amo il cinema, in passato ho girato film anche per pura passione e ritengo di essere un buon tecnico.

- Sei soddisfatto del risultato finale del film?

Cannibal Holocaust è un film splendido. Ancora oggi rivedendolo stento a capire come possa essere riuscito a girarlo con tanta maestria e genialità registica. Nessuno avrebbe potuto realizzarlo meglio. Sergio Leone lo vide in anteprima e lesse nel futuro. «Caro Ruggero questo film sarà il tuo cavallo di battaglia ma ti causerà gravi problemi con la Giustizia». Aveva perfettamente ragione.

Resta da citare un aneddoto divertente che riprendiamo integralmente dalla citata intervista rilasciata da Deodato a Nocturno. Riguarda quel che successe a Bogotà durante la proiezione di Cannibal Holocaust.

Quando il film uscì a Bogotà c’era la fila per andarlo a vedere. Il fonico del film, un colombiano mio amico, per farsi pubblicità fomentò una polemica secondo la quale il film attaccava gli indios. Poi disse che ero un pazzo che uccideva davvero le persone. Contemporaneamente una mia amica hostess, con la quale avevo avuto una storia, mi disse di andare a Bogotà a vedere la fila che c’era quando proiettavano il mio film. Lei mi viene a prendere all’aeroporto e la sera mi portò a una festa dove c’erano giornalisti e gente di cultura colombiana. A un certo punto lei mi presentò come il regista di Cannibal Holocaust. Mi spinsero e mi cacciarono, sono stato anche inseguito da due giornalisti inferociti che mi urlavano dietro. Arrivato all’albergo mi telefonò un giornalista dicendomi che la mattina dopo alle sei e mezza avrei dovuto fare una conferenza. Io non ci sono andato, confesso che mi sono cacato sotto. Ho chiamato un mio amico che stava là (Salvo Basile) che mi diede il numero di un mafioso, uno della zona che aveva una fazenda, questo tizio mi venne a prendere con un’auto corazzata e mi portò con un elicottero sull’isola del Rosario. Ci rimasi per una settimana, poi prenotai un posto su di un aereo per Miami”.

Una bella avventura, non c’è che dire.

Ma torniamo all’analisi critica.

Per trama, stile e tecnica cinematografica Cannibal Holocaust è opera unica nel panorama del cinema italiano e chi parla di B-movie a proposito di questa pellicola dice una bestialità senza pari. La narrazione è crudele, spietata, fredda, distaccata, oserei dire perfetta. Il regista non si lascia mai prendere la mano da moralismi di maniera e dirige un’opera senza concessioni al romanzesco, superando in questo Ultimo mondo cannibale e le altre pellicole del filone. Le immagini si succedono con una precisione e una freddezza da documentario, lasciando l’unica traccia di giudizio al personaggio dell’antropologo. Lo stile è secco e asciutto e le trovate della pellicola rovinata ad arte e delle immagini sovra o sottoesposte servono ad aggiungere un ulteriore tocco di realismo e verosimiglianza al tutto. Gli attori sono molto presi dalla parte e sono talmente bravi da ingenerare il sospetto del cinema verità. Lo stesso discorso vale per il regista che dirige con freddezza anche le scene più macabre.

Sono interessanti anche le disavventure giudiziarie della pellicola.

Negli anni Settanta il sequestro di libri, pubblicazioni e pellicole giudicate contrarie al comune senso del pudore era prassi ordinaria. Adesso per fortuna sia la censura che il sequestro sono relitti del passato e nessuno li invoca o vi ricorre. Al tempo però la discussione sul tema era aperta e coinvolgeva progressisti e conservatori. Come tracciare un comune senso del pudore? Come definire un film o un libro “opera d’arte” e quindi scagionarlo dall’accusa di immoralità e di oscenità? Le tesi erano opposte e difficilmente componibili. Da un lato c’era l’Italia governativa bacchettona e moralista, democristiana e baciapile. Dall’altro c’erano le opposizioni progressiste. I primi però avevano dalla loro parte una nutrita schiera di magistrati che si erano eletti difensori della pubblica morale e bloccavano a colpi di censura tutto quello che superava i limiti del consentito. Soltanto che i loro limiti erano davvero angusti e le pellicole definite “inguardabili” si moltiplicavano a dismisura. In realtà spesso registi e produttori traevano soltanto benefici dai sequestri e dalla conquistata patente di film scandaloso. Una volta dissequestrata la pellicola tornava in circolazione e faceva incassi imprevisti. Non andò così per Cannibal Holocaust che fu una delle poche pellicole a fare le spese di un imperante moralismo bigotto. Il film venne sequestrato dopo un mese di programmazione e congelato per ben quattro anni.

La prima nazionale del film avvenne a Milano l’8 febbraio 1980 e i critici di regime, come da copione, lo stroncarono senza possibilità di appello.

La Repubblica scriveva: «Le scene raccapriccianti del film sono ottenute con tale arroganza e cialtroneria che non solo non riescono a mettere paura ma provocano addirittura disgusto e sdegno».

Il Corriere della Sera non era da meno: «Un film che è eufemistico definire rivoltante, affidato interamente a scene di bassa macelleria come squartamenti e infilzamenti di animali vivi, cannibalismo, lapidazioni, fucilazioni, amputazioni e mutilazioni varie, cadaveri putrefatti e simili piacevolezze…».

Il Messaggero rincarava: «Tra i tanti film del genere questo è forse il più orripilante e solletica i gusti sadici del pubblico di Deodato».

Subito dopo la prima nazionale e le feroci invettive dei critici, a Roma e a Milano ignoti cittadini imbrattano due manifesti pubblicitari del film che raffiguravano la famosa donna impalata. A Milano il 12 marzo 1980 il sostituto procuratore della Repubblica Nicola Cerrato, a seguito di una denuncia da parte di un cittadino, dispone il sequestro del film su tutto il territorio nazionale. L’accusa è quella di sempre: «opera contraria al buon costume e alla morale». Cerrato, già noto per la sua crociata contro le pellicole hard, si accanisce soprattutto su sedici sequenze incriminate. La stampa di regime plaude al sano esempio e chiede il rogo per Cannibal Holocaust, come già lo aveva chiesto e ottenuto per Ultimo tango a Parigi di Bertolucci e per il Salò di Pasolini. Il 4 giugno arriva la sentenza a tempo di record. Il Presidente della quinta sezione penale del Tribunale di Milano, Attilio Baldi, condanna il regista Ruggero Deodato, lo sceneggiatore Gianfranco Clerici, i produttori Franco Palaggi, Franco Di Nunzio e Alda Pia e il distributore Sandro Perrotti a quattro mesi di reclusione, quattrocentomila lire di multa e un mese di arresto, con il beneficio della condizionale. Inquisito e assolto soltanto il direttore della fotografia Sergio D’Offizi. I produttori presentano ricorso in appello, mentre Deodato se ne disinteressa e promuove il film all’estero dove ottiene le soddisfazioni che merita. La condanna viene riconfermata. Soltanto la Cassazione in ultimo grado, miracolosamente, riabilita il film. Però sono passati quattro anni e l’attenzione verso l’opera è svanita, il film viene ripresentato nel maggio 1984 richiamando poco meno di quattordicimila spettatori. Pare poi che la nuova versione fosse edulcorata rispetto all’originale.

Questa la storia di un cult “maledetto”, aborrito dai critici e amato dagli appassionati, destinato in ogni caso a lasciare una traccia indelebile nel cinema mondiale. Infatti Cannibal Holocaust è un capolavoro del cinema (e non soltanto di genere), infrange molti tabù cinematografici ed è un atto di accusa verso la società contemporanea e i suoi falsi miti. Cannibal Holocaust è uno di quei film che, con buona pace di puristi e benpensanti, fanno bene al cinema.

Gordiano Lupi


Bibliografia essenziale


Maurizio Colombo e Antonio Tentori, Lo schermo insanguinato, Marino Solfanelli Editore, Chieti 1990

Domenico Cammarota, Storia del cinema dell’orrore, Fanucci, Roma 1993

Piero Mereghetti, Il Mereghetti – Dizionario dei film 2002, Baldini e Castoldi, Milano 2002

Marco Giusti, Stracult, Sperling e Kupfier, Milano 1999

Antonio Tentori e Luigi Cozzi, Horror Made in Italy volume 1 e 2, Profondo Rosso Edizioni, Roma 2001

Nocturno Dossier “Sesso e violenza”, allegato a Nocturno Cinema di ottobre 2002

Mauro Giorgi, I cult movie, Xenia tascabili, 2001

Paolo “il criceto” Balmas, Cannibal Holocaust da www.mondoculto.it

Il ragazzo dei Parioli” – intervista a Ruggero Deodato realizzata da Manlio Gomarasca e Daniele Aramu, da Nocturno cinema n. 1, Milano 1996

Raul Alvarez, “Il mucchio selvaggio – i maestri del B-movie”, da Ciack n. 7/1987

Gordiano Lupi, Cannibal. Il cinema selvaggio di Ruggero Deodato, Profondo Rosso, 2004 (il libro si può richiedere a ilfoglio@infol.it)


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