Negli anni ’60, Nairobi era conosciuta come “La città verde nel sole”. Era un luogo piacevole, e assai vivibile, e aveva numerosi spazi aperti, sebbene da allora su molti si sia costruito. Il Parco Nazionale di Nairobi, un pezzo di natura selvaggia che ancora siede sull’orlo della città, allora era più grande e le praterie non erano distanti dal centro. Nairobi aveva allora meno di mezzo milione di abitanti, un sesto della sua popolazione odierna.
Nei primi anni dell’indipendenza, e durante la maggior parte del periodo di Kenyatta, lo sviluppo del paese si concentrò per lo più su Nairobi. Se non avevi niente, andavi a Nairobi. Negli anni ’60 fu la classe dei professionisti a venire in città. Sebbene Nairobi fosse relativamente piccola, se comparata, diciamo, a New York, era pur sempre con Johannesburg e Cape Town uno snodo centrale nell’Africa sub-sahariana, e noi ne eravamo fieri.
Non c’erano bambini di strada, non c’erano ghetti. Persino Kibera, che è oggi il più vasto degli slum africani, aveva pochi abitanti. Il suo territorio aveva ancora alberi e vegetazione sebbene oggi come allora fosse carente di infrastrutture (Il mezzo milione di residenti a Kibera ha ancora accesso limitato all’elettricità e all’acqua corrente).
Gli autobus di Nairobi erano sempre stracolmi, la spazzatura veniva raccolta regolarmente e l’intera città era pulita. Le mie amiche ed io giravamo tranquillamente fra i piccoli negozi e i caffè del centro città, senza alcuna paura di venire derubate o stuprate. Ci piaceva molto anche Nairobi di notte. Andavamo nei club, a chiacchierare e a ballare rock’n’roll inglese o americano, la rumba e altre danze allora di moda. Negli anni ’60 non si ballava da soli! Perciò un certo numero di giovanotti, alcuni dei quali avevano studiato negli Usa come me ad altre, usciva con noi. Ciononostante, sebbene ci divertissimo molto, ci veniva costantemente ricordato dalle nostre amiche che si sposavano che la nostra libertà non sarebbe durata per sempre.
La mia famiglia non mi fece mai pressione affinché trovassi un marito, ma zia Nyakweya, la cantastorie, si faceva un punto d’onore nel dirmi che l’orologio biologico di una donna ticchetta sempre. Ogni volta in cui presenziavo ad un matrimonio, la zia ribadiva l’importanza per una donna di sposarsi al momento giusto, e facendolo mi guardava con la coda dell’occhio, sperando io fossi in ascolto. Io le sorridevo scherzosa, ma ricevevo il messaggio!
Nell’aprile del 1966, incontrai Mwangi Mathai, l’uomo che sarebbe divenuto mio marito, tramite amici comuni. Era un brav’uomo, molto gentile, e religioso. Era cresciuto a Njoro nella Rift Valley, ed anche lui aveva studiato negli Usa. Aveva lavorato per diverse ditte, in Kenya, prima di entrare in politica.
Intanto, io ero seccata dal non essere riuscita ad entrare nel Dipartimento di Zoologia perché l’anatomia è una scienza molto specializzata e in realtà io volevo studiare qualcosa di più generale. Tuttavia, gradualmente costruivo il mio dottorato, e per far ciò dovevo usare un microscopio elettronico. A quel tempo l’Università di Nairobi ne aveva uno solo, al Dipartimento di Anatomia Umana, e perciò fu là che svolsi il mio lavoro. Il professor Mungai, capo del Dipartimento, mi permise di usarlo e di visitare i loro laboratori. Erano tutti meravigliati dal mio interesse per l’anatomia umana. Era ben diverso osservare e maneggiare i resti di un essere umano: mi ricordava la mia stessa vulnerabilità, e quanto dovremmo valutare il nostro breve tempo su questo pianeta.
Mi piaceva lavorare con gli studenti del primo anno di Veterinaria. Arrivavano da noi giovani, ansiosi di imparare, vibranti. Quando cominciai ad insegnare a loro erano tutti maschi, e trovavano difficile credere che io avessi le qualifiche per istruirli in anatomia. Dopotutto ero una donna, e non ancora trentenne, perciò non ero tanto più anziana di loro. Non è stato sempre facile maneggiare le punzecchiature dei miei studenti o dei miei colleghi maschi: questi ultimi facevano quasi sempre la stessa domanda: «Ma davvero hai una specializzazione in biologia?». Dubitavano delle mie capacità, ma allo stesso tempo sapevano che avevo più qualifiche di loro. Per quanto riguarda gli studenti, in breve tempo videro che un brutto voto preso da me contava quanto uno preso da uno dei miei colleghi maschi, e questo era un linguaggio che capivano benissimo.
Ciò che mi disturbava, all’Università, era la discriminazione che le mie colleghe ed io subivano. L’Università accordava i suoi pieni benefici solo agli uomini. Una donna nubile o vedova dello staff professionale poteva ricevere l’alloggio universitario come i maschi, ma dalle donne sposate ci si aspettava che a questo provvedessero i loro mariti, e che perciò non avessero bisogno di alloggi, né di copertura assicurativa e pensione. Io litigai con la dirigenza, perché la situazione era inaccettabile ed i termini del servizio dovevano essere eguali. Le professioniste, dissi, non dovrebbero essere discriminate solo perché durante il periodo coloniale qui non ce n’erano. Assieme ad altre chiesi spiegazioni, ma i funzionari scrollarono le spalle: «Siete sposate», ci dissero, «dovete avere il salario di base e basta, perché il resto che serve agli uomini a voi non serve. I vostri mariti ottengono gli altri benefici sul loro posto di lavoro e voi dovreste servirvi di essi. Se non lo fate, peggio per voi». Fummo oltraggiate da tanta arroganza, e da uomini che rifiutavano di accettare che una donna potesse svolgere una professione a proprio pieno diritto: «Be’, mio marito non mi aiuta ad insegnare», risposi loro, suonando metaforicamente l’allarme per indicare che non avrei abbandonato la lotta. Alla fine, l’Università decise che, per pacificarci, avrebbe dato a due di noi ciò che chiedevamo. Da allora le donne continuarono ad essere pagate meno degli uomini che facevano il loro stesso lavoro, ma a me e all’altra fu conferito il titolo di “professore maschio onorario”!
Noi continuammo a protestare, cercando di spingere le donne sposate a non firmare contratti discriminatori, quelli che ad esempio negavano ai loro figli l’assistenza medica e a loro gli scatti pensionistici. Tuttavia, le nostre colleghe rifiutarono di continuare. Molte ci dissero che i loro mariti le avevano consigliate di lasciar perdere.
Forse non è tanto sorprendente. Alcune donne si opponevano alla nostra campagna, ritraendoci come mogli che non volevano vivere con i loro mariti, il che era ovviamente falso. Lottare con le donne e per le donne può essere molto difficile e persino triste, perché la società (e qualche donna) continua a dirti che siamo contente di quel che abbiamo e che non abbiamo intenzione di lottare per i nostri diritti. Spesso incontro donne che hanno aspettato fino a che quella sicurezza chiamata “uomo” è svanita dalle loro vite per ricordarsi che avrebbero dovuto proteggere i loro diritti. Sono quelle donne che dicono: “L’avrei fatto anche prima, ma lo sai come sono fatti gli uomini!”
Comunque, dai tempi che ho descritto le cose sono cambiate davvero parecchio. Adesso ci sono un bel po’ di donne in più nello staff accademico e i termini dell’impiego sono migliorati per tutti, donne incluse.
Wangari Maathai(*)
(*) Premio Nobel per la Pace. Articolo per The Globalist, giugno 2007, traduzione di Maria G. Di Rienzo