I tribunali iraniani hanno condannato due donne per aver partecipato alla campagna “Un milione di firme”, che ha lo scopo raggiungere l'eguaglianza delle donne di fronte alle leggi del paese.
Delaram Ali, ventiquattrenne, ha ricevuto la sentenza il primo luglio: 34 mesi di prigione e dieci frustate; il giorno successivo Alieh Eghdamdoust è stata condannata a 40 mesi e venti frustate.
L'avvocata di Ali, Nasrin Sotoudeh, attesta che quest'anno è la sua quarta cliente ad essere condannata per aver dimostrato in favore dei diritti delle donne: «Non ci sono precedenti per sentenze così gravi nei confronti delle donne. La pena non corrisponde affatto alle supposte violazioni di legge. Queste donne hanno partecipato a raduni pacifici, i quali sono permessi dalla Costituzione iraniana: l'articolo 27 dice che le persone posso riunirsi pacificamente, purché non portino armi o non violino le leggi islamiche: il governo deve provvedere le prove che queste donne lo abbiano fatto».
La pressione sulle attiviste è diventata sempre più pesante a partire dal giugno dello scorso anno, quando agenti delle forze di sicurezza dispersero con la violenza una dimostrazione assolutamente pacifica a Teheran: dozzine di partecipanti furono arrestate e poi rilasciate dietro cauzione. Un secondo momento molto brutto è occorso il 4 marzo 2007, quando le donne si sono riunite fuori dal palazzo del Tribunale di Teheran in sostegno alle cinque attiviste che si trovavano in quel momento davanti alla Corte, accusate di aver partecipato a dimostrazioni. (Quattro vennero condannate a diverse pene detentive, da un anno di prigione a tre: tutte sono ricorse in appello).
Gli agenti di polizia, tra l'altro, non si sono ancora presentati a rispondere alle denunce per i pestaggi ed i ferimenti. Un braccio di Delaram Ali è stato spezzato durante il suo arresto e la giovane donna ha portato il gesso per due mesi.
«Chiunque abbia protestato per fatti come questo», racconta Nasrin Sotoudeh, «ha ricevuto sentenze più pesanti. Il che espone le donne ad ulteriori violenze».
Il cinque di luglio, anniversario della nascita di Fatima, figlia del Profeta, in Iran si dovrebbero onorare le madri e le donne in genere. L'ayatollah Ali Khamenei ha avuto la faccia tosta, e l'occasione pubblica, di rincarare la dose contro le attiviste per i diritti delle donne, senza dimenticare gli uomini che sostengono le loro lotte: «Testimoniamo, nel nostro paese, che alcune donne e alcuni uomini stanno tentando di giocare con le leggi islamiche... vogliono armonizzarle alle convenzioni internazionali correlate alle donne, e questo è sbagliato. Non dovrebbero vedere una soluzione nel tentare di cambiare le leggi islamiche». Tuttavia, poiché parlava ad un pubblico di donne, per quanto muto, ha aggiunto che «Su alcune istanze relative alle donne la giurisprudenza religiosa non ha ancora detto l'ultima parola, ed è possibile che vengano date nuove interpretazioni tramite le ricerche di qualche giurista esperto». E allora, signor Khamenei, le leggi si possono cambiare oppure no?
Fariba Davoodi Mohajer, esponente del movimento delle donne, ha ricevuto una sentenza a cinque anni di galera nello scorso maggio, ma è attualmente ancora libera su cauzione, in attesa del processo di appello: «Lo scopo dei fautori della “linea dura” è di controllare il movimento delle donne, a livello locale ed internazionale. Le sentenze gravi, i ripetuti interrogatori, le minacce legali ed illegali, tutto è predisposto per fermarci: l'intento è quello di intimidire la società civile e di prevenire la crescita di movimenti sociali indipendenti. Negli ultimi anni, il movimento delle donne ha funto da catalizzatore per ridare vita al movimento studentesco e a quello operaio, che erano stati ridotti al silenzio. L'ultimo attacco alle donne è uno sforzo per azzittire la società civile, e per intimidire studenti, leader dei lavoratori, giornalisti e attivisti in genere».
Mahboubeh Abbasgholizadeh, edtirice di Farzaneh, un trimestrale dedicato alle istanze delle donne, e direttrice del Centro di formazione per ong a Teheran, è una delle 33 donne arrestate nel marzo scorso: «Una fazione dei “falchi” identifica le nostre pacifiche attività come il cosiddetto “rovesciamento soffice” del regime. Questa paranoia ha inflitto una pressione addizionale sulla comunità. Non riescono a capire che le richieste delle donne sono necessità di base, impossibili da ignorare. Da due anni, tutte le risorse destinate alla società civile, ed in special modo quelle destinate alle donne, sono state conferite alla propaganda religiosa ed alle organizzazioni di beneficenza».
Ma forse Mahboubeh Abbasgholizadeh è troppo pessimista: il suo governo ha pensato infatti ad una necessità di base delle donne, progettando una bicicletta femminile provvista di cabina, di modo che il corpo della ciclista non sia visibile. Dovete sapere che l'Iran permette alle donne di guidare auto, e persino di andare in motocicletta (purché dietro ad uomo), ma assolutamente proibisce loro di pedalare. Il solito Ali Khamenei se n'era venuto fuori con questa idiozia nel 1999, quando dichiarò che: «Le donne devono evitare in ogni modo di attrarre gli estranei, e perciò guidare biciclette o motociclette in pubblico causa corruzione ed è da oggi in poi proibito».
Forse qualcuno gli aveva raccontato cosa disse la suffragista Susan B. Anthony nel diciannovesimo secolo: «La bicicletta ha fatto di più per l'emancipazione delle donne che qualsiasi altra cosa al mondo». Peccato che l'umanità sia entrata nel ventunesimo secolo, mi dicono. Khamenei non se n'è ancora accorto.
Maria G. Di Rienzo
Fonti: Inter Press Service, Omid Memarian (giornalista iraniano, vincitore nel 2005 dell'onorificenza di “Difensore dei diritti umani” conferitagli da Human Rights Watch), Reuters, Farzaneh Milani (docente di letteratura persiana e women's studies all'Università della Virginia)