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Marco Cipollini: Ritorno a Volterra.
Volterra: palazzo dei Priori a dicembre
Volterra: palazzo dei Priori a dicembre 
09 Agosto 2007
 

Il primo indice del Tellus 27, “Dalla torre pendente alle Alpi, viaggi e altri viaggi”, poi dimezzato perché praticamente le pagine sarebbero state quattrocento, riserva molte sorprese e fra queste c'è un lungo componimento poetico di Marco Cipollini. Il suo “viaggio” era ed è diretto verso Volterra.

Claudio Di Scalzo



MARCO CIPOLLINI: POCHE PAROLE DI PRESENTAZIONE

 

La mia famiglia si trasferì a Volterra alla fine di dicembre del terribile inverno del ’55; appena rintanati nella casa di via Gramsci, prese a crollare dal cielo tanta di quella neve quanta io, in Valdarno, veduta non avevo mai. Era per me iniziata la quarta elementare, e sarei rimasto in questa città fino alla conclusione della prima media inferiore. Fu quell’ultimo anno, se ben ricordo, che scrissi i miei primi versi, dico versi e non poesie compiute, e li lessi intimidito alla nostra buona docente, così come fece un altro alunno con i suoi inchiostri; e anche lei ci lesse una sua poesia. Di tutto questo rammento solo la mia acerba primizia, anzi, solo l’incipit:

 

O Volterra fatta di masso,

che al vento forte resisti…

 

Ma era “masso” o “sasso”? Non fa molta differenza. Ripensando a questo primo soffio della Musa, sono colpito dal fatto che, cinquant’anni dopo, il mio carme tratti il medesimo tema e che sia elaborato su un ritmo ternario, come quello, sebbene incerto, di quei versi. Saranno piccole cose, ma mi riempiono il cuore, perché alle coincidenze del caso io credo sempre di meno. Sono queste comunque le vere sorprese della vita, quando in te all’improvviso si spalanca un immenso spazio sacro, l’ombrosa cattedrale della memoria beatamente squarciata da fasci di superiore luce, e tu intravedi quella fuga di arcate decennali perdersi aldilà del tuo inizio, della tua fine in questa terra. E quando scrivo:

 

perché nel tuo grembo, fanciullo, mi apparve

la Dea che da allora sussurra nel cuore:

fu qui in questa via, in questo punto, e vacillo,

 

ebbene, non è invenzione poetica, ma solida memoria di un hic et nunc in cui qualcosa di non semplicemente naturale accadde, accadde in un luogo preciso che potrei calcare ancor oggi. Il nostos invernale, con gli amici e le varie visite (qui un pochino d’invenzione c’è), avvenne però anni addietro rispetto alla recente data di composizione. Sì, ci volevano cinquant’anni perché accadesse il miracolo prospettico. E d’un tratto la vita singola si rivela un segmento temporale della comune esistenza umana: di ciò che con enfasi sbrigativa si chiama Storia. Del cui senso (significato, direzione) forse la Poesia, da Omero in poi, dà una delle spiegazioni (non giustificazioni!) meno assurde. Comunque, meno incompatibili con la nostra vicenda così breve.

 

Gennaio MMV

 

 

                        RITORNO A VOLTERRA

 

Ed eccola, in vetta al profilo del monte,                   IN VIAGGIO

sul bordo del cielo spellato da un vento

tagliente, là in bilico al nulla, Volterra.

Andarvi a dicembre non è da turisti;

fu voglia di un ilare gesto di sfida,                          5

tra noi meritevole poi di un racconto

al fuoco, a sbucciare castagne, invecchiati.

Tre macchine siamo, due coppie ogni noce,

gherigli imbottiti di panni, che a stento

possiamo girarci, motivo di risa.                             10

Corriamo la lunga salita ritorta,

da cui ad ogni curva ritorna ingrandita

la cresta di tufo e si fa concrezione

via via più distinta di tetti e di case...

Le Balze: paurosi dirupi che hanno                          15

necropoli e mura col tempo ingoiato,

e appare sull’alto pianoro il convento,

relitto di pietra che attende paziente

la sua abolizione nel baratro vivo…

Attende; ma gli anni involati da quando                   20

da prima lo vidi, moltissimi sono

per me, non per esso, sebbene ogni giorno

si allarghi una crepa, una ruga in entrambi.

 

Entriamo nel borgo, le case più nuove.                    ALL’ACROPOLI

Le vie son deserte, portoni e finestre                      25

sigillano al caldo famiglie festive.

Dei peneri azzurri di fumo sui tetti,

fantasmi di vita stracciati dal vento.

Scendiamo: uno schiaffo di freddo (freddure).

Qua e là, pur nel vivo del giorno, si accende            30

un lume, e poi un altro, nei vicoli stretti.

Tra ruvidi muri, saliamo su all’ampio

crinale, nel regno assoluto del vento.

L’acropoli: basi di templi distrutti,

distese di erba che sibila secca,                            35

di Dei il disperato lamento, dispersi

a ondosi infiniti orizzonti... A ponente

lingueggia d’argento la soglia del mare?

Non lungi, si erge l’enorme fortezza

medicea, città carceraria, poggiata                        40

sul dosso, un molosso sdraiato con occhi

socchiusi, di guardia alla mandra dei tetti.

 

In basso il viottolo scorgo (una fitta                        IL VECCHIO GIARDINO

nel petto) che gli orti di retro costeggia…

Ricordo là il mio, ch’era a piani ed a scale,                45

di rose e peonie e di glicini denso:

a maggio un dorato ronzio di cetonie

e di api aleggiava ai sentieri odoranti.

Bambino, in un libro illustrato ne apparve

un simile al mio, ma fastoso di palme e                    50

di cedri e di pergole e fonti lucenti,

tra cui Semiramide, lenta nei veli,

con cento sue ancelle aggiravasi ebbra

di aromi esalanti da fiori impudichi,

da cune carnali… Io il nulla aspiravo.                        55

Confesso agli amici che devo, sì, andare…

Fa’ pure con comodo, qua si sta bene!”

Semmai all’obitorio ci porti dei fiori!”

Che sei sempre qui?” Premurosa mia moglie

mi segue. Percorro quel tratto fra i muri,                  60

rifletto: quell’uscio? quell’altro? Mi sembra…

Mi arrampico a sforzo, Lucia mi sorregge.

Mi affaccio, da ladro: terribile appare,

spogliato, attrappito, il mio piccolo eden,

cadavere (aiole disfatte) di un sogno…                     65

Il frutto proibito: addentare un ricordo.

Mi lascio cadere all’indietro. “L’hai visto?”

sorride gelata. Fo sì con la fronte,

sorrido sforzato; lei sa il disinganno.

Torniamo agli amici, che battono i denti.                  70

Domande stornate. Scendiamo alle case.

 

Città più raccolta e segreta in Toscana                     PER LE ANTICHE VIE

non c’è, con la sua geologia dell’umano

che in pietre corrose e tenaci si aggruma

in forma di torri, qua e là scapezzate…                     75

di un arco che allude a saloni silenti,

dal quale protubera un logoro stemma…

di chiesa, che oltre la brusca facciata

si fa vacuità le cui ombre candela

indora di aureole o improfonda più in pale                80

di estatici santi dal fondo annerito…

E più percepisco l’enigma dei giorni

se rado con mano i mattoni ed il tufo

di un muro scrostato, che esprime il travaglio

(realtà è allegoria?) delle guerre, di pèsti,                85

di nascite e morti, di oscure miserie:

è il duro volere che fa da diaframma

al nostro lucignolo acceso, protetto

dal fiume di ferrëa aria che fischia

agli angoli vivi di vicoli e strade,                              90

degli anni, dei secoli il vento incessante…

Ed ho all’improvviso, con palpebre lente,

la vitrea coscienza che istante e millennio

non son che ondulanti riflessi di umano

sull’acqua dell’essere, immobile, e scorre                 95

non l’acqua ma immersa la mano, e la mano

è pròtesi d’anima, scorre sul muro

e plasma l’informe in mattoni ed in tufo...

Tra ignari compagni, perdendomi come

chi va trasognato, ritrovo i miei passi                       100

bambini nel pio labirinto del tempo, o

città che reliquie hai di te dai primordi,

al pari dei cerchi di quercia perenne

che non come sasso nell’acqua li sperde,

ma in sé li racchiude a un crescente orizzonte,         105

delle altre in cui vissi mi resti più cara

perché nel tuo grembo, fanciullo, mi apparve

la Dea che da allora sussurra nel cuore:

fu qui in questa via, in questo punto, e vacillo…

Domanda l’amata, tremante, se ho freddo.              110

 

O sale deserte ove più di seicento                          NEL MUSEO ETRUSCO

si allineano urne di ceneri, o sale e

poi sale ove arcani antenati, poggiando

il gomito sopra il sofà di alabastro,

si levano un poco e ci guardano, estranei                115

per casa; ed un vecchio signore, cui l’ombra

più scava il corruccio del viso, mi parla:

¯ che hai da fissarmi, indiscreto? Chi sono

lo sai? Oh, il tuo loculo voglio vederlo

se al pari del mio avrà decoro! Su, leggi                  120

la guida che hai in mano (non credo altrimenti

tu sappia gran che). Con squisito rilievo

scolpiti, qui Pelope vedi e Ippodamia,

e come procedi, la presa di Troia,

e Ulisse e le dolci funeste Sirene,                          125

Perseo, e Meleagro, i Centauri (gentaccia),

e il ratto di Elena, e Paride, e Ulisse

di nuovo, Agamennone, Troilo morente…

Cultura, ragazzo, e ci tengo a esibirla!

Vi dite, o moderni, istruiti, aggiornati!                    130

Ponendo a un domani l’età di Saturno,

che noi saggiamente dicemmo perduta,

chiamate progresso la ruota del tempo,

la gran metamorfosi a cui ora più lenta,

più rapida ora, non sfugge ogni cosa,                     135

e come correte! a raggiungere cosa?

Quest’urna! Che vita mai fate se morte

per voi è migliorare? E coi secoli evolve

la stirpe? Così, più di venti ne sono

trascorsi, dovreste esser Dei divenuti!                    140

E invece, permetti, mi fate un po’ pena.

Di sera noi usciamo (tuttora è la nostra

città), lo vediamo il livello sociale,

qual è l’istruzione, il costume… Barbarie!

Più era uno schiavo educato, ai miei giorni,             145

di un ricco dei vostri, di sangue plebeo.

Non è verità che va a rotoli il mondo?

Ma basta, rivolgiti altrove… ¯ Già vado,

assai indispettito, però non ribatto

a chi, lucumone o che altro, coltiva                        150

perpetua la boria di un censo defunto;

che questi con voce modesta mi ferma:

¯ qua dentro è un eterno crepuscolo… scusi,

è sera? Che ora?… ¯ Controllo il quadrante,

e dico ai compagni: “si è fatto tardino”.                  155

Lasciamo la pace inquietante dei morti…

Il gelido vento ci spazza le facce.

 

Entriamo in un caldo caffè, vaporoso                      DENTRO UN CAFFÈ

di aromi, e c’è vita, qualcuno seduto

(occhiate: son matti qua in libera uscita?)              160

che stringe le mani a una tazza fumante,

che legge lì solo il giornale, che parla

(ragazzo e ragazza), e una radio scatarra

poltiglia di note e parole bucciose…

non spiace però, per quel flebile umano                  165

che oppone alle forze bestiali là urlanti,

sfrenate, che l’augure odierno prevede,

ma più non potrà soggiogare, invocato,

un Dio scagliafulmini (a volte riusciva).

Caffè! Cioccolata bollente! Dei dolci!                      170

È bello qua starsene al caldo, tra amici

insieme attempati, che giovani insieme

venimmo qua avidi già di bellezza,

ed era, scoprirla, un tesoro razziato,

serbata e goduta, con tenue candela a                  175

riandarvi, in paurose caverne del cuore.

In più qualche ruga, i capelli sbiaditi,

e noi tuttavia sorridiamo, ché il tempo

non è che un perpetuo presente a chi ama.

Staccatisi i figli cresciuti, risiamo                           180

qua uniti, non più corteggiando l’un l’altra,

ma sposi, e intrecciare i ricordi degli anni

festosi è soave, ed è sùbito amaro.

Raspare sui vetri appannati si sente

a tratti la sizza rabbiosa; ma dentro                       185

c’è caldo, c’è aperta amicizia, seppure,

succhiando degli attimi il dolce midollo,

si scorda chi fu insieme a noi ma dagli occhi

reciso è per sempre… Un nome riaffiora,

si spengono un poco i sorrisi. Ma siamo                  190

venuti per starcene al chiuso? Sortiamo!

 

Così, rinfrancati, di nuovo azzardiamo                    PIAZZA DEI PRIORI

le vie mugolanti, deserte, sbucando

a un gran spalancarsi di luce quadrata:

la piazza che fu dei Priori, imponente                     195

di moli turrite: uno scabro portento.

La sede severa del vecchio Comune,

con l’esile torre, sovrasta merlata

la grigia falesia degli erti edifici,

occhiuti di bifore, i fondaci un tempo                      200

(rammento) adibiti a mercato coperto…

Dal suo cornicione con gran crocidare

si staccano i corvi, che volano oltre

lo spazio di cielo su noi scoperchiato.

E tutto è silenzio di pietra, un soffiare                     205

mugliante … Soltanto noi immobili, vivi.

Tra quinte giganti, tetragone al vento,

noi stiamo, comparse su un palco deserto,

nel vuoto di un dramma che è fuori del tempo…

Giriamo, fra sciarpe e cappelli, gli sguardi                210

increduli e lieti che esista una patria

antica ma non di rottami libreschi,

ma mura abitate di padre poi in figlio,

qua dove l’esistere è sordo al richiamo

del caos che irretisce babeliche masse.                   215

Nel guscio intanata è la génerazióne

presente, e sarà un’altra ancora, ed un’altra,

e un’altra, nei simili giorni d’inverno:

la mente si fa prospettiva infinita

di vite e di secoli, e piace pensare                          220

che nulla è più vivo di questo deserto

di pietre squadrate, percosse dal vento.

(Che il tempo più vero sia fuori del tempo?)


Di più delle glorie tue estinte, o Toscana,                ALLA TERRA DEI PADRI

ti onorano quante in te vivono viva                        225

e fanno di te ininterrotta dimora

dell’uomo, uno scrigno di spirito ed arte.

Se questo pianeta, già solo, soverchia

in me ogni appetito di averne esperienza

e il cielo notturno è lassù un lampadario                  230

che spengo dormendo, che al nulla si perda

il vuoto ormai a rendere delle galassie!

In questo universo di abissi su abissi

sei il mio microscopico nido, o Toscana,

e ti è la Via Lattea fosforea cornice.                        235

Ripeto fra me quanto dissi una notte

in cima a una torre, guardando il Valdarno

cosparso di lumi qua e là faticosi,

e sopra di me il firmamento brillava:

non sono creatura del caso, nel vuoto                    240

precipite in mezzo a milioni di occhi

che fissano, fissano il cuore che batte

al volto agghiacciante del Tutto che è Nulla,

ma sono chi sento di essere, e un senso

a questa silente esplosione di astri                          245

lo dà l’istantaneo brillio del mio occhio

che spera oltre il tempo la patria immortale.”

Da giovane osai, come a esperidi pomi,

la mano allungare alle nubi dorate,

bramare bellezze smaganti, che in bestia,                 250

mi accorsi, trasformano, appena godute,

e il cuore scagliare oltre i solidi cippi

là dove in follia s’infinisce il pensiero…

Osai, e mi ritrassi scoprendo il tuo vero,

o paese sospeso tra il cielo e la terra,                      255

che incarni lo spirito eterno nel tempo,

per cui ogni tua cosa sta nuda e perfetta,

la pietra squadrata è pensiero di roccia,

realtà è verità che si fa allegoria.

Capii che ogni bene impugnato si perde,                   260

che è quello nell’anima assurto a durare,

che resta per noi e per chi resta; pertanto,

ritroso ai richiami di un’era trionfale

che tutto sprezzava quant’era alle spalle,

protesa a morgane ogni volta irraggiunte,                 265

non io, con eroi improvvisati, eccitati

da grida di guerra rivolte al futuro,

un’Elena volli inseguire oltremare

(lo dissi, deriso, che era un fantasma)

ad ardere templi, accecare Ciclopi.                         270

Ma stetti nell’isola stretta e pietrosa,

cui giunsero, radi con gli anni, i relitti

di chi aveva in mare schiumato acrostoli.

O secolo stolto, che fai un monumento

al vacuo momento ed assiduo rovina,                      275

un’alta piramide eretta sui sogni

è sabbia a confronto di un sasso ben posto,

che bene significa un atto di vita.

Capii, mentre andavo per pievi, tra ulivi

piantati da chi mai ne avrebbe raccolto,                  280

che figlio è l’eroe all’occasione, ma giusti

si nasce a fatica a ogni sole risorto.

Così questa cerchia di monti azzurrini

mi basta che, in grazia di alacri millenni,

è un mondo compiuto di colli e campagne,                285

di piccole e grandi città senza pari,

gentili, ove nulla è di troppo ed è fusa

bellezza a virtù senza inutili orpelli,

e ancora, mia terra, a vederti il mio cuore,

che al centro dell’essere i battiti espande,                290

trabocca gioioso del mosto dei giorni.

O madre antichissima, o solido sogno

di come natura può mite umanarsi,

o aiola fiorita di opere eccelse,

in cui hanno riposo le ossa dei padri                         295

che, génerazióne con génerazióne

di donne e di uomini, umili o grandi,

ti fecero quale tu sei, e ne fan parte

le ossa coi sassi e son fatte Toscana,

dal labbro di chi accoglierai infine in grembo             300

accetta quest’inno tu ingenuo di lode.

 

Ed ecco vediamo, in silenzio, commossi                   LE DUE DEPOSIZIONI

così che lo fummo alla prima venuta,

la Déposizióne che è in duomo, che si apre,

lentissima estasi, a tutto il dolore                           305

del mondo, fra i bracci accogliendolo Cristo.

Perché la bellezza ci fissa con occhi

terribili, tali che i nostri giriamo?

Parlare di estetica, ora, è blasfemo…

Un pezzo non è della “storia dell’arte”                      310

quel gruppo che incarna il più alto valore,

per cui si sacrifica Dio alla creatura

più cara, infedele, ed è l’atto d’amore

con forme sì terse trasceso in eterno

che par gregoriano scolpito, e l’autore                     315

nell’opera sta, senza nome, compiuto.

Promessa tangibile sei, o monumento,

che il male è redento dal santo dolore

di Dio che si umana e fa l’uomo divino.

Oh tanta bellezza potrà generare                            320

la fede da cui fu quei dì generata?

E andiamo al vicino museo, per confronto:

c’è quella del Rosso, indicibile inno

di schietti e strazianti colori, di forme

le più cristalline, demoniche e sante.                       325

Mai giovane artista il visibile a un’aspra

visione squarciò più potente di questa

catastrofe ai bordi di un mondo perfetto,

che come una quinta era lì per crollare.

Destino era dunque che l’evo finisse                        330

in cui ogni città aveva l’asse del cielo

nel suo campanile, eccelleva ogni arte,

ed era di simboli un libro natura…

Sia pure, fissato è ogni tempo, anche il nostro:

ma tanta bellezza potrà mai passare?                      335

Che cosa agli eredi mai noi lasceremo?

Se l’albero è noto dai frutti, ne tremo!

O Rosso, non è, a fronte a te, questo tempo

moderno che smorfia di un bimbo bizzoso,

che il padre detesta ma farne a di meno                  340

non può, si mortifica e adulto si vanta,

ma sta nel cantuccio e perdono non chiede.

Tu fosti la spada di luce tra un mondo

da Dio sostenuto, e ora vuoto e assordante:

è tutto, davvero, oramai consumato!                      345

Un solo conforto ci fa disperati,

che solo da perdere cenere abbiamo

del fuoco che arse per secoli in cuore.

Colpevole è il mondo e non ha più riscatto:

è questo che gridan gli astanti stravolti;                  350

e il corpo che ossessi depongono (ecco

l’angoscia che mosse il pennello) sarebbe

risorto, o per sempre sta in noi seppellito?

Profetico specchio di noi, quegli ossessi.

 

Due volte su questa montagna premette                  355, PENSIERI SEGRETI

con l’indice Dio, benedetto quel tempo!

In queste contrade non solo nell’ombra

di duomi dagl’irti pinnacoli, pure

nell’umile pieve sperduta ti appare

la splendida statua, la pala dorata                           360

che offrì della gente campata a castagne,

e mangia ora e beve, è un cadavere vivo.

Che Dio sia soltanto di Dio ora il ricordo?

Che fede mai ebbero i nostri antenati,

remota da noi più di stella? Di certo,                        365

se i nostri gettassimo comodi aggeggi

che illusi ci fanno di vita più degna,

vedremmo che questa è un’età grossolana,

che siamo senz’anima, sterili in cuore.

Di sacro più niente creiamo, sofferta                        370

memoria è il sublime, c’invischia storditi

un’arte la cui religione è il denaro;

e mentre l’immagine antica al fedele

apriva una luce quaggiù dell’eterno,

nell’epoca in cui sermoneggia l’esperto,                    375

del nulla teologo, in suo latinorum,

un’opera aspira a un museo per morirvi,

che almen l’assicuri del nome di arte…

E al meglio sul banco l’avrà il rigattiere,

tra oggetti bizzarri di un’epoca assurda.                   380

 

Tra me queste cose pensavo, attardato,                  IL TEATRO ROMANO

che gli altri mi traggono verso il teatro

romano, adagiato ad un ripido fianco,

dall’alto del quale guardiamo i bei resti.

Rammento quel tempo in cui venne scoperto,           385

che gli occhi a vedere brillavano un pezzo

di muro ogni giorno, una testa di marmo

risorgere al sole da sotto quell’erba

su cui già avevamo ruzzato agli antichi,

e c’era sepolta altra vita, abbattute                        390

colonne venivano erette di nuovo…

Ed ebbi un pensiero tremendo: sarebbe

sulle ossa di noi poi dell’erba spuntata,

su noi batterebbero in corsa dei piedi,

finché qualche mano, sbarbando una zolla,               395

trarrebbe uno strano balocco ammaccato.

Fu questa la scuola di quelle rovine

che ammirano amici aggobbiti dal vento

urtante su questa muraglia scoscesa.

Addito la scritta di dedica, in marmo,                       400

con cui la famiglia dei Caecina offerse

(i ricchi di un tempo) quel pubblico bene

al popolo, che oggi è un fastello slegato.

All’ultimo sole, qua e là nella valle

il Cecina è come un brillio di stagnola,                      405

il fiume il cui nome deriva da tale

progenie, che qua dominò per millenni,

e scritta la vidi in un’urna del Louvre;

dico millenni, non secoli: è questa

Volterra, astronave di pietra nel tempo.                   410

 

In basso la cavea si colma di ombre,                       LA PARTENZA

si allungano là sulla piana, e i dirupi

dei monti si fanno via via più profondi,

par quasi che voglia l’oblio ringoiare

l’emerso prodigio concesso quest’ora                       415

d’inverno, che notte precoce sovrasta…

che ignoto destino sovrasta, alla fine

di un’era… Ne prego il buon Dio per i figli.

Ma su, stiamo allegri finché c’è salute!

Tra noi siamo in pace, e lo siamo col mondo.            420

È tempo di andarcene a casa (fa freddo!).

In auto, fagotti pigiati, le mani

sguantate scaldandoci al fiato, e si parte.

Scendiamo, che mai non finisce la china,

tra curve continue, e ad ognuna rispunta                 425

lassù la città, sempre più scomparendo

nel buio… Finché non profilo di torri,

di chiese e palazzi scorgiamo sul bordo

di un tragico cielo, com’è nel fondale

di cupo zaffiro dipinto dal Rosso,                             430

ma un grumo di piccoli lumi, distinti

dagli astri perché meno aspri di luce.

 

30 settembre – 31 dicembre MMIV

 

Marco Cipollini


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  Marco Cipollini: Decalogo di poesia
  Rosaria Chiariello. L'Analisi dei “Rapports” cabanisiani di E.M. Cipollini
 
 
 
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