Il primo indice del Tellus 27, “Dalla torre pendente alle Alpi, viaggi e altri viaggi”, poi dimezzato perché praticamente le pagine sarebbero state quattrocento, riserva molte sorprese e fra queste c'è un lungo componimento poetico di Marco Cipollini. Il suo “viaggio” era ed è diretto verso Volterra.
Claudio Di Scalzo
MARCO CIPOLLINI: POCHE PAROLE DI PRESENTAZIONE
La mia famiglia si trasferì a Volterra alla fine di dicembre del terribile inverno del ’55; appena rintanati nella casa di via Gramsci, prese a crollare dal cielo tanta di quella neve quanta io, in Valdarno, veduta non avevo mai. Era per me iniziata la quarta elementare, e sarei rimasto in questa città fino alla conclusione della prima media inferiore. Fu quell’ultimo anno, se ben ricordo, che scrissi i miei primi versi, dico versi e non poesie compiute, e li lessi intimidito alla nostra buona docente, così come fece un altro alunno con i suoi inchiostri; e anche lei ci lesse una sua poesia. Di tutto questo rammento solo la mia acerba primizia, anzi, solo l’incipit:
O Volterra fatta di masso,
che al vento forte resisti…
Ma era “masso” o “sasso”? Non fa molta differenza. Ripensando a questo primo soffio della Musa, sono colpito dal fatto che, cinquant’anni dopo, il mio carme tratti il medesimo tema e che sia elaborato su un ritmo ternario, come quello, sebbene incerto, di quei versi. Saranno piccole cose, ma mi riempiono il cuore, perché alle coincidenze del caso io credo sempre di meno. Sono queste comunque le vere sorprese della vita, quando in te all’improvviso si spalanca un immenso spazio sacro, l’ombrosa cattedrale della memoria beatamente squarciata da fasci di superiore luce, e tu intravedi quella fuga di arcate decennali perdersi aldilà del tuo inizio, della tua fine in questa terra. E quando scrivo:
perché nel tuo grembo, fanciullo, mi apparve
la Dea che da allora sussurra nel cuore:
fu qui in questa via, in questo punto, e vacillo,
ebbene, non è invenzione poetica, ma solida memoria di un hic et nunc in cui qualcosa di non semplicemente naturale accadde, accadde in un luogo preciso che potrei calcare ancor oggi. Il nostos invernale, con gli amici e le varie visite (qui un pochino d’invenzione c’è), avvenne però anni addietro rispetto alla recente data di composizione. Sì, ci volevano cinquant’anni perché accadesse il miracolo prospettico. E d’un tratto la vita singola si rivela un segmento temporale della comune esistenza umana: di ciò che con enfasi sbrigativa si chiama Storia. Del cui senso (significato, direzione) forse la Poesia, da Omero in poi, dà una delle spiegazioni (non giustificazioni!) meno assurde. Comunque, meno incompatibili con la nostra vicenda così breve.
Gennaio MMV
RITORNO A VOLTERRA
Ed eccola, in vetta al profilo del monte, IN VIAGGIO
sul bordo del cielo spellato da un vento
tagliente, là in bilico al nulla, Volterra.
Andarvi a dicembre non è da turisti;
fu voglia di un ilare gesto di sfida, 5
tra noi meritevole poi di un racconto
al fuoco, a sbucciare castagne, invecchiati.
Tre macchine siamo, due coppie ogni noce,
gherigli imbottiti di panni, che a stento
possiamo girarci, motivo di risa. 10
Corriamo la lunga salita ritorta,
da cui ad ogni curva ritorna ingrandita
la cresta di tufo e si fa concrezione
via via più distinta di tetti e di case...
Le Balze: paurosi dirupi che hanno 15
necropoli e mura col tempo ingoiato,
e appare sull’alto pianoro il convento,
relitto di pietra che attende paziente
la sua abolizione nel baratro vivo…
Attende; ma gli anni involati da quando 20
da prima lo vidi, moltissimi sono
per me, non per esso, sebbene ogni giorno
si allarghi una crepa, una ruga in entrambi.
Entriamo nel borgo, le case più nuove. ALL’ACROPOLI
Le vie son deserte, portoni e finestre 25
sigillano al caldo famiglie festive.
Dei peneri azzurri di fumo sui tetti,
fantasmi di vita stracciati dal vento.
Scendiamo: uno schiaffo di freddo (freddure).
Qua e là, pur nel vivo del giorno, si accende 30
un lume, e poi un altro, nei vicoli stretti.
Tra ruvidi muri, saliamo su all’ampio
crinale, nel regno assoluto del vento.
L’acropoli: basi di templi distrutti,
distese di erba che sibila secca, 35
di Dei il disperato lamento, dispersi
a ondosi infiniti orizzonti... A ponente
lingueggia d’argento la soglia del mare?
Non lungi, si erge l’enorme fortezza
medicea, città carceraria, poggiata 40
sul dosso, un molosso sdraiato con occhi
socchiusi, di guardia alla mandra dei tetti.
In basso il viottolo scorgo (una fitta IL VECCHIO GIARDINO
nel petto) che gli orti di retro costeggia…
Ricordo là il mio, ch’era a piani ed a scale, 45
di rose e peonie e di glicini denso:
a maggio un dorato ronzio di cetonie
e di api aleggiava ai sentieri odoranti.
Bambino, in un libro illustrato ne apparve
un simile al mio, ma fastoso di palme e 50
di cedri e di pergole e fonti lucenti,
tra cui Semiramide, lenta nei veli,
con cento sue ancelle aggiravasi ebbra
di aromi esalanti da fiori impudichi,
da cune carnali… Io il nulla aspiravo. 55
Confesso agli amici che devo, sì, andare…
“Fa’ pure con comodo, qua si sta bene!”
“Semmai all’obitorio ci porti dei fiori!”
“Che sei sempre qui?” Premurosa mia moglie
mi segue. Percorro quel tratto fra i muri, 60
rifletto: quell’uscio? quell’altro? Mi sembra…
Mi arrampico a sforzo, Lucia mi sorregge.
Mi affaccio, da ladro: terribile appare,
spogliato, attrappito, il mio piccolo eden,
cadavere (aiole disfatte) di un sogno… 65
Il frutto proibito: addentare un ricordo.
Mi lascio cadere all’indietro. “L’hai visto?”
sorride gelata. Fo sì con la fronte,
sorrido sforzato; lei sa il disinganno.
Torniamo agli amici, che battono i denti. 70
Domande stornate. Scendiamo alle case.
Città più raccolta e segreta in Toscana PER LE ANTICHE VIE
non c’è, con la sua geologia dell’umano
che in pietre corrose e tenaci si aggruma
in forma di torri, qua e là scapezzate… 75
di un arco che allude a saloni silenti,
dal quale protubera un logoro stemma…
di chiesa, che oltre la brusca facciata
si fa vacuità le cui ombre candela
indora di aureole o improfonda più in pale 80
di estatici santi dal fondo annerito…
E più percepisco l’enigma dei giorni
se rado con mano i mattoni ed il tufo
di un muro scrostato, che esprime il travaglio
(realtà è allegoria?) delle guerre, di pèsti, 85
di nascite e morti, di oscure miserie:
è il duro volere che fa da diaframma
al nostro lucignolo acceso, protetto
dal fiume di ferrëa aria che fischia
agli angoli vivi di vicoli e strade, 90
degli anni, dei secoli il vento incessante…
Ed ho all’improvviso, con palpebre lente,
la vitrea coscienza che istante e millennio
non son che ondulanti riflessi di umano
sull’acqua dell’essere, immobile, e scorre 95
non l’acqua ma immersa la mano, e la mano
è pròtesi d’anima, scorre sul muro
e plasma l’informe in mattoni ed in tufo...
Tra ignari compagni, perdendomi come
chi va trasognato, ritrovo i miei passi 100
bambini nel pio labirinto del tempo, o
città che reliquie hai di te dai primordi,
al pari dei cerchi di quercia perenne
che non come sasso nell’acqua li sperde,
ma in sé li racchiude a un crescente orizzonte, 105
delle altre in cui vissi mi resti più cara
perché nel tuo grembo, fanciullo, mi apparve
la Dea che da allora sussurra nel cuore:
fu qui in questa via, in questo punto, e vacillo…
Domanda l’amata, tremante, se ho freddo. 110
O sale deserte ove più di seicento NEL MUSEO ETRUSCO
si allineano urne di ceneri, o sale e
poi sale ove arcani antenati, poggiando
il gomito sopra il sofà di alabastro,
si levano un poco e ci guardano, estranei 115
per casa; ed un vecchio signore, cui l’ombra
più scava il corruccio del viso, mi parla:
¯ che hai da fissarmi, indiscreto? Chi sono
lo sai? Oh, il tuo loculo voglio vederlo
se al pari del mio avrà decoro! Su, leggi 120
la guida che hai in mano (non credo altrimenti
tu sappia gran che). Con squisito rilievo
scolpiti, qui Pelope vedi e Ippodamia,
e come procedi, la presa di Troia,
e Ulisse e le dolci funeste Sirene, 125
Perseo, e Meleagro, i Centauri (gentaccia),
e il ratto di Elena, e Paride, e Ulisse
di nuovo, Agamennone, Troilo morente…
Cultura, ragazzo, e ci tengo a esibirla!
Vi dite, o moderni, istruiti, aggiornati! 130
Ponendo a un domani l’età di Saturno,
che noi saggiamente dicemmo perduta,
chiamate progresso la ruota del tempo,
la gran metamorfosi a cui ora più lenta,
più rapida ora, non sfugge ogni cosa, 135
e come correte! a raggiungere cosa?
Quest’urna! Che vita mai fate se morte
per voi è migliorare? E coi secoli evolve
la stirpe? Così, più di venti ne sono
trascorsi, dovreste esser Dei divenuti! 140
E invece, permetti, mi fate un po’ pena.
Di sera noi usciamo (tuttora è la nostra
città), lo vediamo il livello sociale,
qual è l’istruzione, il costume… Barbarie!
Più era uno schiavo educato, ai miei giorni, 145
di un ricco dei vostri, di sangue plebeo.
Non è verità che va a rotoli il mondo?
Ma basta, rivolgiti altrove… ¯ Già vado,
assai indispettito, però non ribatto
a chi, lucumone o che altro, coltiva 150
perpetua la boria di un censo defunto;
che questi con voce modesta mi ferma:
¯ qua dentro è un eterno crepuscolo… scusi,
è sera? Che ora?… ¯ Controllo il quadrante,
e dico ai compagni: “si è fatto tardino”. 155
Lasciamo la pace inquietante dei morti…
Il gelido vento ci spazza le facce.
Entriamo in un caldo caffè, vaporoso DENTRO UN CAFFÈ
di aromi, e c’è vita, qualcuno seduto
(occhiate: son matti qua in libera uscita?) 160
che stringe le mani a una tazza fumante,
che legge lì solo il giornale, che parla
(ragazzo e ragazza), e una radio scatarra
poltiglia di note e parole bucciose…
non spiace però, per quel flebile umano 165
che oppone alle forze bestiali là urlanti,
sfrenate, che l’augure odierno prevede,
ma più non potrà soggiogare, invocato,
un Dio scagliafulmini (a volte riusciva).
Caffè! Cioccolata bollente! Dei dolci! 170
È bello qua starsene al caldo, tra amici
insieme attempati, che giovani insieme
venimmo qua avidi già di bellezza,
ed era, scoprirla, un tesoro razziato,
serbata e goduta, con tenue candela a 175
riandarvi, in paurose caverne del cuore.
In più qualche ruga, i capelli sbiaditi,
e noi tuttavia sorridiamo, ché il tempo
non è che un perpetuo presente a chi ama.
Staccatisi i figli cresciuti, risiamo 180
qua uniti, non più corteggiando l’un l’altra,
ma sposi, e intrecciare i ricordi degli anni
festosi è soave, ed è sùbito amaro.
Raspare sui vetri appannati si sente
a tratti la sizza rabbiosa; ma dentro 185
c’è caldo, c’è aperta amicizia, seppure,
succhiando degli attimi il dolce midollo,
si scorda chi fu insieme a noi ma dagli occhi
reciso è per sempre… Un nome riaffiora,
si spengono un poco i sorrisi. Ma siamo 190
venuti per starcene al chiuso? Sortiamo!
Così, rinfrancati, di nuovo azzardiamo PIAZZA DEI PRIORI
le vie mugolanti, deserte, sbucando
a un gran spalancarsi di luce quadrata:
la piazza che fu dei Priori, imponente 195
di moli turrite: uno scabro portento.
La sede severa del vecchio Comune,
con l’esile torre, sovrasta merlata
la grigia falesia degli erti edifici,
occhiuti di bifore, i fondaci un tempo 200
(rammento) adibiti a mercato coperto…
Dal suo cornicione con gran crocidare
si staccano i corvi, che volano oltre
lo spazio di cielo su noi scoperchiato.
E tutto è silenzio di pietra, un soffiare 205
mugliante … Soltanto noi immobili, vivi.
Tra quinte giganti, tetragone al vento,
noi stiamo, comparse su un palco deserto,
nel vuoto di un dramma che è fuori del tempo…
Giriamo, fra sciarpe e cappelli, gli sguardi 210
increduli e lieti che esista una patria
antica ma non di rottami libreschi,
ma mura abitate di padre poi in figlio,
qua dove l’esistere è sordo al richiamo
del caos che irretisce babeliche masse. 215
Nel guscio intanata è la génerazióne
presente, e sarà un’altra ancora, ed un’altra,
e un’altra, nei simili giorni d’inverno:
la mente si fa prospettiva infinita
di vite e di secoli, e piace pensare 220
che nulla è più vivo di questo deserto
di pietre squadrate, percosse dal vento.
(Che il tempo più vero sia fuori del tempo?)
Di più delle glorie tue estinte, o Toscana, ALLA TERRA DEI PADRI
ti onorano quante in te vivono viva 225
e fanno di te ininterrotta dimora
dell’uomo, uno scrigno di spirito ed arte.
Se questo pianeta, già solo, soverchia
in me ogni appetito di averne esperienza
e il cielo notturno è lassù un lampadario 230
che spengo dormendo, che al nulla si perda
il vuoto ormai a rendere delle galassie!
In questo universo di abissi su abissi
sei il mio microscopico nido, o Toscana,
e ti è la Via Lattea fosforea cornice. 235
Ripeto fra me quanto dissi una notte
in cima a una torre, guardando il Valdarno
cosparso di lumi qua e là faticosi,
e sopra di me il firmamento brillava:
“non sono creatura del caso, nel vuoto 240
precipite in mezzo a milioni di occhi
che fissano, fissano il cuore che batte
al volto agghiacciante del Tutto che è Nulla,
ma sono chi sento di essere, e un senso
a questa silente esplosione di astri 245
lo dà l’istantaneo brillio del mio occhio
che spera oltre il tempo la patria immortale.”
Da giovane osai, come a esperidi pomi,
la mano allungare alle nubi dorate,
bramare bellezze smaganti, che in bestia, 250
mi accorsi, trasformano, appena godute,
e il cuore scagliare oltre i solidi cippi
là dove in follia s’infinisce il pensiero…
Osai, e mi ritrassi scoprendo il tuo vero,
o paese sospeso tra il cielo e la terra, 255
che incarni lo spirito eterno nel tempo,
per cui ogni tua cosa sta nuda e perfetta,
la pietra squadrata è pensiero di roccia,
realtà è verità che si fa allegoria.
Capii che ogni bene impugnato si perde, 260
che è quello nell’anima assurto a durare,
che resta per noi e per chi resta; pertanto,
ritroso ai richiami di un’era trionfale
che tutto sprezzava quant’era alle spalle,
protesa a morgane ogni volta irraggiunte, 265
non io, con eroi improvvisati, eccitati
da grida di guerra rivolte al futuro,
un’Elena volli inseguire oltremare
(lo dissi, deriso, che era un fantasma)
ad ardere templi, accecare Ciclopi. 270
Ma stetti nell’isola stretta e pietrosa,
cui giunsero, radi con gli anni, i relitti
di chi aveva in mare schiumato acrostoli.
O secolo stolto, che fai un monumento
al vacuo momento ed assiduo rovina, 275
un’alta piramide eretta sui sogni
è sabbia a confronto di un sasso ben posto,
che bene significa un atto di vita.
Capii, mentre andavo per pievi, tra ulivi
piantati da chi mai ne avrebbe raccolto, 280
che figlio è l’eroe all’occasione, ma giusti
si nasce a fatica a ogni sole risorto.
Così questa cerchia di monti azzurrini
mi basta che, in grazia di alacri millenni,
è un mondo compiuto di colli e campagne, 285
di piccole e grandi città senza pari,
gentili, ove nulla è di troppo ed è fusa
bellezza a virtù senza inutili orpelli,
e ancora, mia terra, a vederti il mio cuore,
che al centro dell’essere i battiti espande, 290
trabocca gioioso del mosto dei giorni.
O madre antichissima, o solido sogno
di come natura può mite umanarsi,
o aiola fiorita di opere eccelse,
in cui hanno riposo le ossa dei padri 295
che, génerazióne con génerazióne
di donne e di uomini, umili o grandi,
ti fecero quale tu sei, e ne fan parte
le ossa coi sassi e son fatte Toscana,
dal labbro di chi accoglierai infine in grembo 300
accetta quest’inno tu ingenuo di lode.
Ed ecco vediamo, in silenzio, commossi LE DUE DEPOSIZIONI
così che lo fummo alla prima venuta,
la Déposizióne che è in duomo, che si apre,
lentissima estasi, a tutto il dolore 305
del mondo, fra i bracci accogliendolo Cristo.
Perché la bellezza ci fissa con occhi
terribili, tali che i nostri giriamo?
Parlare di estetica, ora, è blasfemo…
Un pezzo non è della “storia dell’arte” 310
quel gruppo che incarna il più alto valore,
per cui si sacrifica Dio alla creatura
più cara, infedele, ed è l’atto d’amore
con forme sì terse trasceso in eterno
che par gregoriano scolpito, e l’autore 315
nell’opera sta, senza nome, compiuto.
Promessa tangibile sei, o monumento,
che il male è redento dal santo dolore
di Dio che si umana e fa l’uomo divino.
Oh tanta bellezza potrà generare 320
la fede da cui fu quei dì generata?
E andiamo al vicino museo, per confronto:
c’è quella del Rosso, indicibile inno
di schietti e strazianti colori, di forme
le più cristalline, demoniche e sante. 325
Mai giovane artista il visibile a un’aspra
visione squarciò più potente di questa
catastrofe ai bordi di un mondo perfetto,
che come una quinta era lì per crollare.
Destino era dunque che l’evo finisse 330
in cui ogni città aveva l’asse del cielo
nel suo campanile, eccelleva ogni arte,
ed era di simboli un libro natura…
Sia pure, fissato è ogni tempo, anche il nostro:
ma tanta bellezza potrà mai passare? 335
Che cosa agli eredi mai noi lasceremo?
Se l’albero è noto dai frutti, ne tremo!
O Rosso, non è, a fronte a te, questo tempo
moderno che smorfia di un bimbo bizzoso,
che il padre detesta ma farne a di meno 340
non può, si mortifica e adulto si vanta,
ma sta nel cantuccio e perdono non chiede.
Tu fosti la spada di luce tra un mondo
da Dio sostenuto, e ora vuoto e assordante:
è tutto, davvero, oramai consumato! 345
Un solo conforto ci fa disperati,
che solo da perdere cenere abbiamo
del fuoco che arse per secoli in cuore.
Colpevole è il mondo e non ha più riscatto:
è questo che gridan gli astanti stravolti; 350
e il corpo che ossessi depongono (ecco
l’angoscia che mosse il pennello) sarebbe
risorto, o per sempre sta in noi seppellito?
Profetico specchio di noi, quegli ossessi.
Due volte su questa montagna premette 355, PENSIERI SEGRETI
con l’indice Dio, benedetto quel tempo!
In queste contrade non solo nell’ombra
di duomi dagl’irti pinnacoli, pure
nell’umile pieve sperduta ti appare
la splendida statua, la pala dorata 360
che offrì della gente campata a castagne,
e mangia ora e beve, è un cadavere vivo.
Che Dio sia soltanto di Dio ora il ricordo?
Che fede mai ebbero i nostri antenati,
remota da noi più di stella? Di certo, 365
se i nostri gettassimo comodi aggeggi
che illusi ci fanno di vita più degna,
vedremmo che questa è un’età grossolana,
che siamo senz’anima, sterili in cuore.
Di sacro più niente creiamo, sofferta 370
memoria è il sublime, c’invischia storditi
un’arte la cui religione è il denaro;
e mentre l’immagine antica al fedele
apriva una luce quaggiù dell’eterno,
nell’epoca in cui sermoneggia l’esperto, 375
del nulla teologo, in suo latinorum,
un’opera aspira a un museo per morirvi,
che almen l’assicuri del nome di arte…
E al meglio sul banco l’avrà il rigattiere,
tra oggetti bizzarri di un’epoca assurda. 380
Tra me queste cose pensavo, attardato, IL TEATRO ROMANO
che gli altri mi traggono verso il teatro
romano, adagiato ad un ripido fianco,
dall’alto del quale guardiamo i bei resti.
Rammento quel tempo in cui venne scoperto, 385
che gli occhi a vedere brillavano un pezzo
di muro ogni giorno, una testa di marmo
risorgere al sole da sotto quell’erba
su cui già avevamo ruzzato agli antichi,
e c’era sepolta altra vita, abbattute 390
colonne venivano erette di nuovo…
Ed ebbi un pensiero tremendo: sarebbe
sulle ossa di noi poi dell’erba spuntata,
su noi batterebbero in corsa dei piedi,
finché qualche mano, sbarbando una zolla, 395
trarrebbe uno strano balocco ammaccato.
Fu questa la scuola di quelle rovine
che ammirano amici aggobbiti dal vento
urtante su questa muraglia scoscesa.
Addito la scritta di dedica, in marmo, 400
con cui la famiglia dei Caecina offerse
(i ricchi di un tempo) quel pubblico bene
al popolo, che oggi è un fastello slegato.
All’ultimo sole, qua e là nella valle
il Cecina è come un brillio di stagnola, 405
il fiume il cui nome deriva da tale
progenie, che qua dominò per millenni,
e scritta la vidi in un’urna del Louvre;
dico millenni, non secoli: è questa
Volterra, astronave di pietra nel tempo. 410
In basso la cavea si colma di ombre, LA PARTENZA
si allungano là sulla piana, e i dirupi
dei monti si fanno via via più profondi,
par quasi che voglia l’oblio ringoiare
l’emerso prodigio concesso quest’ora 415
d’inverno, che notte precoce sovrasta…
che ignoto destino sovrasta, alla fine
di un’era… Ne prego il buon Dio per i figli.
Ma su, stiamo allegri finché c’è salute!
Tra noi siamo in pace, e lo siamo col mondo. 420
È tempo di andarcene a casa (fa freddo!).
In auto, fagotti pigiati, le mani
sguantate scaldandoci al fiato, e si parte.
Scendiamo, che mai non finisce la china,
tra curve continue, e ad ognuna rispunta 425
lassù la città, sempre più scomparendo
nel buio… Finché non profilo di torri,
di chiese e palazzi scorgiamo sul bordo
di un tragico cielo, com’è nel fondale
di cupo zaffiro dipinto dal Rosso, 430
ma un grumo di piccoli lumi, distinti
dagli astri perché meno aspri di luce.
30 settembre – 31 dicembre MMIV
Marco Cipollini