Io percepisco l’arrivo delle catastrofi naturali. Mi chiamo Cassandra. Un giorno ucciderò i miei genitori per avermi chiamato così.
Ho visto arrivare la tromba d’aria. I rami si spezzavano e volavano in mille schegge nell’aria turbolenta, i tronchi crocchiavano aggrappandosi con le radici al suolo che tremava. I colori erano scomparsi e la terra era diventata grigia come la pelle di un cadavere.
Tutto era circoscritto in una zona di pece inondata di silenzio.
Un bambino saltella sulle traverse della ferrovia, solitario e felice.
“Scappa!” vorrei urlare, ma la voce non mi esce dalla strozza.
Provo a fuggire ma i piedi affondano nella melma. Mi guardo intorno e poco lontano vedo un sentiero di roccia. Devo raggiungerlo.
Forse venti passi. Trattengo il fiato e inizio a percorrerli.
Affondo nella melma fino alle ginocchia. Devo procedere piano, molto piano. Districarmi dalla fanghiglia è una fatica inumana, ma anch’io sono inumana. Ogni cosa, lo è.
Il bambino continua a saltellare sulle traverse.
E se arrivasse un treno? No, non sento vibrazioni di sorta.
Appena mi metto in salvo, salvo anche lui, penso.
Ora affondo nel fango fino alla vita. Sabbie mobili in pieno centro abitato, a ridosso di una ferrovia: roba da pazzi.
La distanza che mi separa dal sentiero è pari alla lunghezza delle mie braccia. Di più non riesco ad avvicinarmi, avviluppata come sono nel fango. Devo fare la mossa giusta. Mi butto avanti tenendo alta la testa, tese le braccia, uncinate le dita delle mani.
Gratto con le unghie la roccia e scivolo all’indietro.
“Aiuto!”, grido rivolta al bambino che continua a giocare, solitario e felice, unico essere vivente nel raggio della mia visuale.
Nello stesso momento sento arrivare il treno. Viaggia ad alta velocità.
“Avanti, figlio di buona donna, vieni via da lì!” gli grido. Ma penso che ormai non c’è più scampo per nessuno.
Chiudo gli occhi e smetto di respirare.
Qualcosa mi sferza la faccia.
Il bambino è qui, sul sentiero, davanti a me, e agita un arbusto spinoso. Non l’ho visto scendere dalla scarpata, non l’ho sentito accostarsi.
Sento il sudore colarmi dalla faccia, che gocciando si mischia al fango.
Il ragazzino continua a frustare l’aria. Ride. “Figlio di buona donna”, è tutto quello che riesco a pensare. Lui mi volta le spalle, si allontana e sparisce alla mia vista.
Ormai è questione di attimi, non sento più la roccia sotto le dita. Affonderò nella melma. Che brutta fine.
Invece ecco che ritorna il marmocchio con un lungo ramo. Me lo lancia, lo afferro e tento la risalita, ma il ramo si spezza e io sprofondo ancora di più.
Il bambino resta pensoso, poi si butta a terra e striscia verso di me. Mi allunga il pezzo di ramo fissandomi negli occhi.
“Avanti, figlia di buona donna”, mi dice sferzante.
Stringo il bastone con mani d’acciaio. Il ragazzino si butta indietro e con uno scatto di belva mi tira fuori dalla melma. Rotoliamo insieme per un tratto scorticandoci sugli puntoni di roccia, poi restiamo immobili a fissare il cielo.
“Sei forte”, gli dico.
“Anche tu”, mi risponde.
Tutto è passato in un lampo nella mia mente profetica. Ed ecco che arriva la tromba d’aria. I rami si spezzano e volano in mille schegge nell’aria turbolenta…
Maria Lanciotti