Rifacendosi, come tanti altri scrittori dello scorso fine secolo, tutti un po’ malati d’esotismo, alla nota raccolta di fiabe orientali che è stata fonte d’ispirazione per opere d’arte d’ogni tipo, Joseph Roth aggiunge con piglio amaro una notte alle 1001 passate da Sherazade a raccontare storie, e intitola il suo romanzo La storia della milleduesima notte. Ma lo scrittore, deluso dalla storia e dalle sue vicende personali, ormai dedito all’alcool e malato di una melanconia cui di lì a poco avrebbe posto fine la morte - il libro fu pubblicato nel 1939 -, non si propone certo con questo titolo di prolungare l’esistenza del mondo fantastico evocato in quei racconti; anzi ribalta completamente il genere favolistico, caratterizzato dall’immancabile lieto fine, e fa concludere la vicenda narrata con il suicidio del protagonista. Insomma: per Roth non c’è posto per le illusioni, e nel testo la fuga nell’autoinganno si rivela un castello in aria, destinato a travolgere nel suo crollo il barone Alois Franz von Taittinger, al centro del romanzo.
Il nobiluomo, capitano di cavalleria, irreprensibile nell’adempiere ai propri doveri di militare, è all’apparenza un ufficiale modello della variopinta armata dell’imperialregia monarchia asburgica, visto che l’episodio che dà avvio alla sua caduta in disgrazia avviene nell’imprecisata primavera del 18… È allora, infatti, che lo Scià di Persia, decide di venire in visita a Vienna, che, non smentendo la sua fama di metropoli sfarzosa e godereccia, si prepara ad accoglierlo in maniera conveniente. Per quell’evento Taittinger, è momentaneamente distaccato dal suo reggimento e assegnato a tempo indeterminato alla cancelleria di corte; quell’incarico speciale, però, diventa la causa prima della sua rovina.
Indispettito dai capricci dello Scià che, come dono d’ospitalità, chiede di trascorrere una notte con la contessa Helene W., nobildonna morava incontrata a un ballo, il capitano decide di imbrogliare il presuntuoso monarca orientale. Anche Taittinger, in gioventù si era innamorato della stessa bella e inarrivabile contessa, ma poi si era dovuto accontentare di una relazione con la popolana Mizzi Schinagl, da cui aveva avuto un figlio; e allora, quasi in una tardiva vendetta, pensa di proporre la stessa sostituzione di persona allo Scià. Mizzi lavora da tempo in una casa di tolleranza, ma la si trucca e la si agghinda in modo che possa essere scambiata per una dama della bella società e contemporaneamente si trasforma il bordello in modo che sembri un sontuoso palazzo. L’abbaglio funziona e lo Scià ritorna soddisfatto in patria, dopo aver regalato all’amante una collana di perle.
Mizzi, venduto il monile, si fa ingenuamente coinvolgere in un’operazione commerciale truffaldina e finisce in carcere. Taittinger, tornato alla sua guarnigione e divorato dal rimorso, prova ad esorcizzare le sue ansie nell’alcool. Quando il lenocinio, che lo insegue come un inesorabile spettro, viene scoperto e rimbalza sulle pagine della cronaca scandalistica, l'ufficiale è costretto a dimettersi dall’esercito. Incapace di resistere a un crescendo di disonore e di vergogna, si toglie infine la vita con un colpo di pistola, quando, in occasione di una nuova visita dello Scià in Austria, vengono riesumate dagli archivi le carte che documentano il suo imbroglio di un tempo.
Taittinger è presentato da Roth come una vittima, come una marionetta ignara che si muove meccanicamente negli ingranaggi di una struttura statale e militare ormai priva di dignità e credibilità, che trasforma ogni suo suddito in una disperata caricatura di se stesso. Il romanzo è uno spaccato degli ultimi malinconici splendori di quell’Impero da Roth tanto amato, che - ingessato da un immobilismo solo in apparenza stabilizzante - presenta i segni chiari del suo imminente sfacelo.
Gabriella Rovagnati