La regina Elisabetta ha compiuto 81 anni e neppure quest’anno, ligia alla tradizione, ha voluto rinunciare alla variopinta parata con cui da sempre celebra insieme ai suoi sudditi il suo genetliaco. Attraverso gli schermi televisivi ha mostrato al pubblico il solito aplomb, il solito sorriso pacato, l’immancabile cappellino di paglia dello stesso colore della mise, questa volta di un verde brillante, insomma: la stessa regale imperturbabilità britannica. Accanto a lei sulla carrozza - fino a vent’anni fa la regina sfilava ancora a cavallo - il principe consorte in alta uniforme, deuteragonista di un evento mediatico che si ripete dal 1952, da quando cioè la regina è salita al trono. Che il passaggio della regina continui ad attirare le folle, anche di semplici curiosi, non meraviglia affatto, pensando a quanto la casa reale inglese sia al centro di una vanity fair che non sembra aver mai fine.
Quest’anno la parata, a quanto sembra, è stata bruscamente interrotta da un improvviso, violento temporale che ha ben presto disperso le masse. Una catastrofe di assai maggior portata si è invece inventato in uno dei suoi ultimi copioni il drammaturgo austriaco Thomas Bernhard descrivendo una visita di stato della regina Elisabetta a Vienna. Critico nei confronti della superficialità di un mondo in cui scorgeva solo storpi e stupidi, Bernhard, come in molte altre sue opere di teatro, pone al centro di questo testo, che definisce “non una commedia”, un personaggio fisicamente menomato.
Il protagonista, Rudolf Herrenstein, è infatti un ricco mercante d’armi che ha perso le gambe in un incidente, per cui è costretto a vivere su una sedia a rotelle; nonostante il suo enorme potere economico, dipende paradossalmente dal suo giovane domestico Richard che - come il padrone paventa - medita di andarsene in America insieme con un certo Dr. Schuppig, figlio di un nazista, con il quale ha una relazione. Fra Herrenstein, che è un fiume di parole, e il suo domestico, quasi muto, s’instaura uno di quei tipici rapporti di forza che caratterizzano il teatro di Bernhard, dove quasi sempre il personaggio taciturno si rivela potentissimo, in quanto colui che è in apparenza la figura dominante vive in realtà in uno stato di totale soggezione psicologica dall’altro, percepito come indispensabile e insieme come minaccioso.
Herrenstein è uno dei tanti misantropi del teatro di Bernhard; è burbero, per nulla socievole, anzi spocchioso nei confronti del prossimo:
La gente mi perseguita con il suo odio
fin da quando ho facoltà di memoria
tutta gente perbene
gente sana
benestante ricca
Mi invitano
ma io no ci vada
di continuo mandano inviti
ma io non reagisco
Al mio compleanno voglio
che tutte le tende restino chiuse per tutto il giorno
gli auguri sono oltraggi.
Herrenstein non vuol più avere con la gente nessun tipo di contatto, tanto meno fisico, perché è convinto che non valga la pena di frequentare nessuno. Ma nonostante il suo odio dichiarato per l’umanità, si trova un giorno suo malgrado a dover aprire la sua casa a un numero enorme di ospiti; infatti, in occasione di una visita ufficiale della regina d’Inghilterra a Vienna, ha concesso a suo nipote il permesso di venire a vedere con alcuni amici il corteo regale dal balcone della sua casa che dà sulla Ringstrasse. Il nipote ha però invitato più di quaranta persone, inscenando una sorta di galà con buffet, che allo zio risulta “ripugnante” (uno degli aggettivi cui l’autore ricorre con maggiore frequenza).
L’ospite, che già aborre in generale i rapporti sociali fatti di convenienza e falsità, trova assolutamente molesti e intollerabili i modi e i comportamenti dei suoi concittadini.
Gli insulti all’Austria, una costante nella produzione di Bernhard, non mancano neppure in questa pièce che contiene una serie di tirate contro lo stile di vita dei borghesi di Vienna, con il loro vacuo culto per l’arte e per la musica, di cui però non capiscono nulla. Per Herrenstein il Burgtheater, luogo mitico della Vienna bene, è un “un permanente palcoscenico degli orrori”, una “perversa macchina di distruzione di copioni”; quanto all’opera, il vecchio barbogio ama soltanto Mozart, odia Brahms e trova le opere di Verdi, “questa italianità da ghiandole lacrimali”, assolutamente abominevole.
Il brontolone Herrenstein è presentato come la quint’essenza del decadimento fisico: porta la dentiera, ha la vista quasi azzerata dalla cataratta, soffre di dolori d’ogni tipo ed è pure cardiopatico; insomma è una sorta d’incarnazione della morte, ma, paradossalmente, sarà l’unico a sopravvivere alla catastrofe finale.
Fin dalle prime battute il dramma Elisabetta II è attraversato da simboli funerei e anche gli invitati di Herrenstein sono tutti vestiti di nero, perché, dopo aver guardato il corteo della regina d’Inghilterra, intendono recarsi al funerale di un facoltoso gioielliere viennese. Il padrone di casa non è certo un ospite cortese, anzi è palesemente irritato da quella folla d’invasori, attratti da una testa coronata che lascia invece lui del tutto indifferente:
La nobiltà continua a far impazzire la gente
In Austria è stata abolita
e continua a fare impazzire tutti
stupido popolo ineducabile
La nobiltà e i guitti
sono quello che più interessa agli Austriaci
Se muore un cabarettista
sono decine di migliaia ad accorrere alla sua sepoltura
Umanità priva di buon gusto.
Herrenstein si sente estremamente a disagio quando la sua casa si trasforma in un tipico salotto viennese, con l’imbecille Neutz che racconta una barzelletta insulsa dopo l’altra credendo d’essere spiritoso, e con una serie di signore, ingioiellate e imbellettate, che s’intrattengono su non-argomenti e lo irritano con le loro smancerie:
Non posso credere
che hai un così bell’aspetto
Badgastein ti ha fatto bene Rudolf
[...]
Si vede
la vecchia buona Badgastein
che bell’aspetto che hai Rudolf
no, davvero fantastico
Il vecchio sa perfettamente che tutti intorno a lui mentono e gli fanno la corte solo perché è ricco. Di fronte alla loro disarmante imbecillità e ai loro sdolcinati salamelecchi, l’ospite spera perfido in cuor suo che vadano tutti alla malora, come confida al suo unico amico, il filosofo Guggenheim:
Per tutta questa gente non sarebbe un gran danno
aspettano tutti solo che io crepi
Ma lei lo sa bene questa gente non erediterà niente
a questo ci ho già pensato
Già prima, con lucida preveggenza, Herrenstein si era espresso così a proposito del proprio patrimonio:
Preferirei non lasciare indietro proprio niente
un mucchio di macerie al massimo
È inutile a chiunque lasciamo in eredità qualcosa
sbagliamo sempre assurdità orripilante
Questa sua perfida profezia si avvera nella breve terza scena conclusiva: quando finalmente tutti i suoi ospiti sono usciti sul balcone in attesa della regina, Herrenstein commenta soddisfatto:
Ecco così me ne sono definitivamente liberato
È l’ultima volta
che questa gente
viene a casa mia
È la più ripugnante di tutte
è proprio quella che odio più profondamente
questa canaglia in salute.
Ed ecco che all’improvviso si sente un boato: sotto il peso dei curiosi il balcone crolla, trasformandosi in un ammasso di macerie. Herrenstein conclude: “Probabilmente sono tutti morti”; gli fa eco il domestico, che si è salvato con lui, dichiarando: “Certamente”.
Con questo copione il sarcastico Bernhard ci ricorda, ancora una volta, che la vita e la morte sono burattinaie poco riflessive e tremendamente arbitrarie, per cui non vale mai la pena di prendere neppure se stessi troppo sul serio; qualsiasi cosa si faccia al mondo, si è sempre e comunque comparse in un gioco, polimorfico e alterno e ingiusto negli esiti fin che si vuole, ma pur sempre solo un gioco, di cui bisogna imparare a cogliere, in ogni caso e con superiore distacco, anche l’aspetto giullaresco.
Gabriella Rovagnati