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Maria G. Di Rienzo. Afghanistan: vorrei davvero non parlarne più anch'io, scusatemi
22 Giugno 2007
 

È circa mezzogiorno, è il 12 giugno 2007: le bambine escono dalle loro classi, alla scuola femminile Qalay Meadan (a sud di Kabul, nell'area Qala-e Saeed Habib), per tornare a casa.

Ma lì fuori ci sono uomini armati di fucile, in attesa. Fanno il tiro a segno sulle ragazzine, senza che nessuno li contrasti. Ne uccidono due sul colpo, sei restano ferite.

D'altronde i talebani avevano avvisato donne e bambine di star lontane dalle scuole. Continuano a bruciarle e ad uccidere insegnanti. Una questione di moralità, sapete, anche quando la scuola è interamente femminile, anzi, soprattutto se lo è. Una questione di “costumi loro”, via, non vorremo imporre alle bambine afgane il valore occidentale (?) del diritto allo studio, per non parlare di quello alla vita.

Shaista, del villaggio di Asad Khyl a nord di Kabul, ha 12 anni. Vuole diventare medica, per curare la sua gente. «Ho ancora tante difficoltà. Non ho scarpe, e non ho vestiti decenti per andare a scuola, e non ho tutti i libri. Ne ho comperati otto con i miei risparmi, ma non sono tutti. Adesso nel villaggio abbiamo l'elettricità per qualche ora, la sera, e così posso guardare i programmi educativi alla televisione. Non ho mai mancato un giorno, a scuola. Però adesso mio padre e altre persone mi dicono che le ragazze non devono andare a scuola, solo i ragazzi ci vanno, per cui dall'anno prossimo non dovrei più andarci. Ma io voglio continuare, studiare medicina, laurearmi. Il mio sogno è ancora diventare una medica».

Cerco di mettermi nei panni del padre e sto male. Cosa dico a mia figlia, a questa figlia dal viso così serio che pare già un'adulta, a questa figlia dal cuore grande che sogna di fare del bene? Che le scolare sono bersagli mobili? Che la preferisco viva e infelice? Che la paura per lei e l'amore per lei mi stanno strozzando? Che mi vergogno di non essere in grado di comprarle le scarpe? Che le nostre tradizioni islamiche blah blah blah?

Haji Abdullah Saleh è un anziano dello stesso villaggio: «I talebani sono un grosso problema. Il Pakistan e l'Iran li stanno finanziando e danno loro armi. Sono un problema anche per l'Islam: non vogliono che il paese sia pacifico e si regga sulle proprie gambe, e tutto quello che ci hanno lasciato sono scuole bruciate, case bruciate, giardini bruciati. Questo è inaccettabile per la legge islamica. I talebani hanno sporcato il nome dell'Islam, come può essere in accordo con l'Islam uccidere ragazzine all'uscita delle scuole? Se avessero servito dio, il popolo non li avrebbe odiati, e non è vero che difendono l'Islam dall'invasione dei “valori occidentali”, non hanno questo potere, l'Islam si difende da sé».

Durante gli ultimi tre mesi, la parlamentare afgana Shukria Barakzai ha ricevuto lettere dal proprio governo in cui la si mette in guardia: un attentato suicida viene preparato contro di lei, deve essere prudente. Altri cinque deputate sono nelle sue stesse condizioni. Su 391 membri del parlamento afgano, le donne sono 91.

«Il governo mi avvisa che la mia vita è in pericolo, ed è tutto. Neppure una riga su cosa intende fare per provvedere sicurezza a me e alle altre». Barakzai, che è madre di tre ragazze, dice di essere diventata un bersaglio «per gruppi diversi di insorgenti ed islamisti politici», perché ha parlato contro i signori della guerra, sostiene i diritti delle donne ed è critica verso il Pakistan. «Sto diventando pazza, con questa storia. Amici e parenti mi dicono di lasciare il paese. Mio marito è sconvolto. Sono anche una madre e una moglie, e lo so. In questi giorni, quando vado al lavoro, mi chiedo sempre se tornerò a casa viva».

La deputata Tooarpekay, la sola parlamentare donna proveniente dalla provincia di Zabul, le fa eco: «Sono molto preoccupata. I talebani hanno cominciato ad aggredire le donne che lavorano, nella mia provincia». La deputata sa bene cosa significa: per studiare, quand'era bambina, si intrufolò in una scuola maschile. Per vent'anni, prima di essere eletta al parlamento, ha servito la propria comunità come insegnante elementare ed assistente sanitaria. Quando decise di presentarsi alle elezioni, per rappresaglia i talebani le uccisero il fratello, che aveva solo 22 anni.

E se questa è la situazione per donne che potremmo definire “influenti”, le condizioni di coloro che non lo sono potete immaginarle: la sola Commissione indipendente afgana per i diritti umani ha documentato 1.500 casi di atrocità contro le donne occorsi nel 2006. Un terzo delle donne afgane è vittima di violenza domestica; centinaia vengono sposate contro la propria volontà, centinaia si danno fuoco o bevono veleni per sfuggire a violenze ed imposizioni. «I consigli tribali decidono ancora il destino delle donne nella maggior parte delle zone rurali», dice Soraya Sobhrang, membro della Commissione. «La maggior parte dei giudizi di questi consigli sono contrari pregiudizialmente alle donne. Abbiamo una Costituzione, un sistema legale, dei tribunali: perché i consigli tribali devono decidere della vita delle donne?»

Perché la macchina burocratica è apatica, corrotta, priva di un vero potere, sostengono gli analisti politici afgani, e non è in grado di portare avanti i propri compiti, ovvero l'osservanza del dettato costituzionale ed il provvedere con essa un certo grado di sicurezza ai propri cittadini. Se si visitano uffici governativi per ottenere permessi o certificati, raccontano gli afgani, il funzionario 9 volte su 10 dice al visitatore: Shirni bee, che significa “Dammi dei dolcetti”. Si tratta di un eufemismo per chiedere la tangente, una tangente che il più delle volte il cittadino non è neppure in grado di pagare. Per fare un esempio, il salario di un insegnante in Afghanistan equivale a 60 dollari statunitensi: il prezzo di un sacco di farina è di 30 dollari.

In questi giorni, per migliorare le cose, arriva circa un autobus all'ora proveniente dall'Iran. (I dati sono della Commissione NU per i rifugiati.) Ne scendono i profughi rimpatriati a forza e ricevono dalla polizia una bottiglia d'acqua, un pacchetto di biscotti, un fagotto di indumenti ed il permesso di fare una telefonata gratuita ai propri parenti. Le vettovaglie provengono dall'interessamento di un'ong umanitaria; dal governo afgano i rimpatriati ricevono un biglietto chilometrico gratuito pari a 120 Km, che li trasborderà nella città di Herat, da dove dovranno cavarsela da soli. Bambini di dodici anni sono stati rimpatriati da soli, senza adulti di riferimento. Decine di migliaia di persone stazionano in Herat, oggi, allungando a dismisura la fila davanti agli uffici di collocamento. Sui dorsi delle loro mani ci sono ancora i numeri ad inchiostro scritti dalla polizia iraniana. Le loro storie sono allucinanti: «Mia moglie e i miei bambini sono rimasti in Iran, anche se io avevo supplicato di lasciarci partire insieme», racconta piangendo un giovane uomo. «Non ho fatto in tempo neanche a ritirare lo stipendio, io lavoravo in Iran, e a consegnarlo alla mia famiglia. Cosa faranno adesso? Se qualcuno butta mia moglie e i bimbi sulla strada chi darà loro rifugio?»

Un uomo più anziano, che ha vissuto e lavorato in Iran per 28 anni, oggi non ha neppure i soldi per pagarsi il biglietto sino alla sua città natale, Kabul. È amareggiato e furibondo: «Nessuno si cura di noi. Non capisco ancora perché gli iraniani hanno fatto questo. Noi siamo musulmani, e loro sono musulmani, e allora perché ci hanno trattato così?»

Il direttore generale dell'ufficio per l'immigrazione iraniano, Ahmad Hosseini, sostiene che si tratta di una buona decisione: «L'Iran sta facendo moltissimo per aiutare lo sviluppo e la ricostruzione ad Herat. Ma siamo determinati a risolvere il problema dell'immigrazione illegale. Non possiamo spendere per i rifugiati quel che dovremmo spendere per il nostro paese».

«Io non ero illegale», dice un uomo della fila dei disoccupati. «Lo sono diventato quando hanno preso il mio passaporto e lo hanno fatto a pezzi davanti ai miei occhi. Che razza di legge, che razza di giustizia, sono queste?»

Scusatemi, davvero vorrei non parlare più dell'Afghanistan. Prometto di smettere immediatamente non appena cominceranno a parlarne altri: i giornalisti per cui le bambine ammazzate fuori dalle scuole, la condizione delle donne afgane ed il rimpatrio forzato dei profughi non sono notizie, e i responsabili delle nostre missioni “umanitarie” per sapere se sono questi i risultati che hanno ottenuto sino ad ora. Per favore, una volta tanto fatemi stare zitta.

 

Maria G. Di Rienzo


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