Eccoli tornare, gli ex Sulutumana, ora Semisuite. Al nuovo Auditorium Sant’Antonio di Morbegno nella serata del 5 maggio scorso hanno proposto il loro ultimo spettacolo Volti già in tour dallo scorso autunno, quando ancora il gruppo comprendeva Michele Bosisio e quindi prima che iniziasse per loro il nuovo corso. La bravura è rimasta intatta, anche se in questa performance di musica e teatro insieme, con l’ottima attrice Milvia Marigliano, la scelta di un assetto acustico (senza chitarra, batteria e percussioni varie) crea un sound al quale, chi conosce le sonorità potenti tipiche del gruppo, deve per così dire fare l’orecchio…
Ad essere portati in scena sono i testi di Erri De Luca, scrittore napoletano - classe 1950 - dalla ricca biografia in controtendenza con le sue origini medio borghesi, affermatosi in Italia dalla fine degli anni ’80. Lo spettacolo, ideato da Milvia Marigliano (attrice diplomatasi all’Accademia dei Filodrammatici di Milano, con esperienze teatrali di indiscusso rilievo e una specializzazione in recitazione in “lingua”) nasce da una folgorazione, come lei stessa racconta: l’incontro con la poesia di De Luca, con una scrittura che ha memoria, vuol guardare al passato per superarlo e andare avanti. E la scelta di richiedere la collaborazione dei Semisuite? Ho conosciuto e apprezzato la loro musica; sono ragazzi con una storia alle spalle, le loro canzoni parlano di vicende popolari, di tradizioni, persone e luoghi della loro terra tramandate nei racconti. Il loro progetto ha lo stesso respiro di ciò che in Volti si intendeva realizzare.
È un urlo a segnare l’inizio di Volti, l’urlo raccontato dallo scrittore in Montedidio romanzo che attinge alla sua autobiografia, pubblicato da Feltrinelli nel 2002, il grido di una donna, ringhioso di dolore, un grido di madre, di cagna, rimasto impresso nella membrana auricolare del cuore, mentre dal molo degli addii degli emigranti una nave salpa verso la lontananza e verso destini sconosciuti… Sono tanti i volti che si incontrano: quello di Mast’Errico, il falegname, alle cui dipendenze va il ragazzino (voce narrante dei vari episodi) a imparare il mestiere, poi quello di Rafaniello, che sogna Gerusalemme, ma invece arriva a Napoli, dove si innamora del mare e lì resta, lui che italiano non è, inventandosi un nome e un lavoro – quello del calzolaio – e, di più, facendo del proprio mestiere una missione: riparare le scarpe dei poverelli ed amare i loro piedi. C’è in questo spettacolo tutta la napoletanità dell’autore, il suo essere attaccato alla città natìa come a qualcosa che si ama, ma che sfugge. Qualcosa che si vorrebbe scuotere, riprendere, riconquistare, usando anche l’arma del ricordo oltre a quella dell’azione presente e concreta.
Si alternano così le storie nostalgiche di personaggi che paiono angeli, angeli disperati e sempre prossimi alla caduta – capaci però all’ultimo istante di scoprire le ali e librarsi in volo – alle rievocazioni personali di ricordi infantili dove spesso la memoria individuale scorre parallela a quella collettiva della Storia con la S maiuscola. Ed è così che il ragazzino delle vicende narrate incontra un sopravvissuto ai campi di sterminio, ma inizialmente per lui sarà solo l’ospite un po’ misterioso sulla barca di uno zio pescatore, l’ospite che quando si rimbocca le maniche della camicia lascia intravedere un tatuaggio che nessun marinaio ha. Oppure quell’Erri bambino si farà raccontare dal padre gli accadimenti capitati a Nicolino, così veniva chiamato dai napoletani in quegli anni di guerra il pezzo di artiglieria tedesca che sovrastava la collina del Vomero e che il 4 agosto ’43 venne portato via come una fetta di storia che se ne va, ma tragicamente, sotto i colpi di un bombardamento capace di uccidere tremila persone senza avvertimento, senza allarmi, sorprendendo le vite e spazzandole tutte via come una piaga d’Egitto…
C’è l’amore per le persone poco comprese quando le abbiamo accanto, poi desiderate ardentemente, come Filomena, la domestica di casa o per la prima ragazza che fa battere il cuore, Maria.
C’è infine la descrizione emozionale di un’adolescenza che si sta abbandonando, insieme alla propria città e al proprio padre, con mille paure e la voglia di trovare la propria strada. Sapendo di perdere la napoletanità, perché napoletano, dice lo scrittore, è titolo di residenza, non conta l’origine, conta chi resta, non chi se ne va. E se si va, si diventa uno dei tanti e ci si sente anche meno di uno. Così, la partenza, nel ’69, destinazione Roma, pronto a vivere gli anni delle contestazioni sociali, a manifestare, ad essere sempre contro. Chiamavano tutto questo comunismo: per noi era la felicità. Una felicità aspra e vera.
Le canzoni dei Semisuite a sottolineare i vari scatch e la coinvolgente recitazione della Marigliano, in prima persona e naturalmente in napoletano, fanno di questo spettacolo misurato e al tempo stesso commovente, un ottimo esempio di quel teatro-verità che intrattiene, ma sa far riflettere lo spettatore, attuando un coinvolgimento che riesce a dare l’illusione di essere presente nei posti e fra le vicende narrate. Quando l’alchimia dell’arte riesce nella sua formula.
Annagloria Del Piano
(da 'l Gazetin, giugno 2007 - da oggi in edicola)