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Alejandro Torreguitart Ruiz: Il palazzo di Toyo (Bozzetti avaneri 6)
15 Giugno 2007
 

Quando ho voglia di tuffarmi nella decadenza della vecchia Avana e nei ricordi di bambino vado da mia nonna a Toyo e d’un tratto pare che gli anni non siano passati. Mi piace venire qui, in una casa decrepita di un quartiere anonimo come Diez de octubre, un condominio che cade a pezzi affacciato su strade sterrate e piene di buche, popolato da bambini di tutte le età che giocano alla pelota a ogni ora del giorno. Per me quella casa si chiama il palazzo di Toyo e la lunga rampa di scale buie e maleodoranti che porta all’appartamento della nonna la faccio ancora correndo. Lei abita al quinto piano e sono cinque piani di angoscia, duri da salire ogni giorno con il caldo appiccicoso e magari qualche pacco da portare. Là dentro vivono in otto, non si sa come. Hanno separato con listelli di compensato le tre stanze originali ricavandone sette camere. Promiscuità assoluta, ma tanto sono tutti parenti. È grande la famiglia Torreguitart, così grande che credo di non sapere neppure il nome di alcuni cugini che abitano dalle parti del Cotorro o di Marianao. Però è sicuro che se ci ritroviamo a un matrimonio o a un compleanno beviamo insieme e scherziamo come se ci fossimo sempre conosciuti. Vanno così le cose a Cuba. La famiglia è sacra e nei momenti importanti della vita si riunisce. A Toyo una buona parte della famiglia Torreguitart si è riunita sotto lo stesso tetto. Motivi contingenti, case buttate giù da cicloni furenti, matrimoni falliti. Il palazzo di Toyo è da sempre un rifugio sicuro.

L’unico locale dove la grande famiglia vive riunita è la sala. Qui si sta tutti insieme davanti al televisore per vedere l’ultima puntata della novela alle sette della sera, oppure i cartoni per bambini la domenica mattina e qualche film americano prima di andare a dormire. La sala si svuota come per incanto quando sullo schermo compare la faccia barbuta di Fidel. Rimane solo il nonno ad ascoltare. Pende dalle sue labbra, lo guarda incantato. Quando il discorso finisce solleva le membra stanche e torna a letto con fatica.

Il mondo sta cambiando” mi dice una sera “forse è davvero tempo che muoia”.

Che dici, nonno?”.

Sì, è meglio così. Non vorrei vedere altro dopo quello che ho fatto. Tu non puoi capire. Non eri ancora nato…”. E indica il quadro che tiene da sempre sopra il letto, una tela scrostata che ritrae un giovane Fidel Castro sulla Sierra. Non rispondo. Penso che ha ragione. È dura averci creduto e vedere quel che è rimasto.

Da bambino ricordo che facevo la fila alla panaderia sotto casa, quella che dà ancora il nome all’intero palazzo, per acquistare un panino croccante o una pasta di meringa appena sfornata. Adesso ci tocca soltanto un microscopico panino a testa ogni giorno, dice la libreta. Dolci niente. E non perché fanno ingrassare.

Erano altri tempi” dice il nonno.

Erano altri tempi anche per te, penso io.

Il nonno sta male. Un tumore incurabile all’intestino se lo sta portando via. Adesso pare un cane bastonato e fa tenerezza a vederlo. Quando era giovane però ne ha fatte di tutti i colori e solo una donna come la nonna ha potuto sopportarlo. Il nonno ha seminato per L’Avana un esercito di figli non riconosciuti e ha inseguito ogni donna disponibile senza lasciare mai niente di intentato. E la nonna ad attendere che tornasse, con pazienza d’altri tempi. Rassegnata. Non si sono mai separati. L’ultima scappatella risale a pochi mesi fa. Ha più di settant’anni mio nonno, però dice che le donne gli tirano ancora. Adesso che la vita lo sta lasciando è venuto a morire a casa sua, dove ci sono i ricordi del tempo che passa, dove ha il vecchio quadro di Fidel con la sacca sulla spalla e il fucile. Perché il nonno è stato comunista e ancora adesso se mi sente criticare Fidel si infuria.

Senza di lui saremmo ancora sotto Batista” dice.

E con lui, invece? Sotto chi siamo? Lo penso ma non lo dico. Povero nonno, che se ne vada almeno in compagnia delle sue illusioni. La nonna lo ha accolto di nuovo in casa, senza rimproverarlo di niente, da tempo lo ha accettato così. Dopo tutto lei è stata il suo unico grande amore, tutte le altre invece soltanto delle avventure. Medicine non se ne trovano, meno che mai farmaci antitumorali. La nonna fa la spola con l’ospedale del quartiere per fargli somministrare punture che alleviano un po’ il dolore. Ormai resta soltanto quello. Mia cugina dall’Italia manda dollari e antidolorifici. Non bastano mai, né gli uni e né gli altri. Il nonno morirà soffrendo le pene dell’inferno e fa pena vederlo ridotto a un’immagine sbiadita di se stesso. Morirà pensando che aver creduto in qualcosa è stato importante. E in fondo ha ragione. È importante credere. Se poi la vita tradisce le idee non è colpa delle idee ma della vita.

Intorno alla figura del nonno che muore scorre la vita della famiglia Torreguitart, tra personaggi e comprimari che vanno e vengono.

C’è Marcelo detto cispita perché beve qualsiasi cosa gli passa sotto gli occhi senza stare troppo a sottilizzare. È sempre ubriaco e lo vedi mandare giù a ogni ora del giorno una cosa che lui chiama rum ma in realtà è alcol puro allungato con un po’ d’acqua. C’è Pepin, detto el nero perché è l’unico mulatto in una casa dove tutti sono bianchi e creoli. Lui si prende in giro da solo. “Lavoro come un nero” dice sempre “d’altra parte sono l’unico in famiglia”. Si dà da fare Pepin, lavora nella cervezeria Bucanero di Guanabacoa e rientra a tarda sera portando via sempre qualcosa. La birra in casa Torreguitart non manca mai. Per la gioia di cispita, anche se lui preferisce il rum. C’è la zia Adys con le tre figlie: Isabel, Ana e Lupe. La zia va e viene dalla casa, secondo il ritmo con cui si sposa e si separa dai mariti. Ha un numero incalcolabile di matrimoni alle spalle che non ricorda più neppure lei. Ultimamente ha deciso di non fare più cerimonie con l’abito bianco ma di limitarsi a convivere. Adesso è libera, non si sa per quanto. Le figlie sono giovani. Isabel è la più grande, ha quindici anni e già si dà da fare per le strade di Toyo, quando capita conosce stranieri e torna a casa con qualche dollaro in tasca. Ana ha quattordici anni e un messicano le ha già promesso di portarla via, per fare la modella al suo paese. Lei vive sperando nel gran giorno che potrà scappare. Lupe ha tredici anni e la chiamano muñequita perché ha il viso rotondo e gli occhi azzurri, i lineamenti sono così delicati che pare una bambola. I suoi unici sogni li coltiva immergendosi nelle novelas della sera. Tra poco comincerà a pensare alla fuga anche lei. È normale. Se un giovane si guarda intorno vede soltanto disperazione. Per questo ciò che viene da fuori sembra meraviglioso. Tutto è fantastico paragonato al niente.

E io vengo a Toyo, di tanto in tanto. Saluto la nonna, do un bacio al nonno. Parlo un po’ con le cugine. Bevo un bicchiere di quella roba bianca che cispita mi offre come rum e poi anche una birra con Pepin per rifarmi la bocca. La zia Adys mi racconta del suo prossimo compagno. “Questa volta però non mi sposo” dice. Ma non ci crede neppure lei. Il nonno dal letto nella stanza accanto ogni tanto si fa sentire. “Chiamatemi quando c’è il notiziario” dice. Guarda ancora il notiziario, mio nonno. Vive come se il tempo non fosse passato. E a me viene a mente una bella poesia di Carlos Varela che fa: “Tutti vogliono vivere nel notiziario, perché là non manca niente e non serve il denaro…”. Poi quando si fa sera faccio ritorno alla mia casa in Centro Avana a bordo del sidecar scoppiettante. Faccio attenzione a non finire dentro le buche della strada, non vorrei dover dare la caccia a un’introvabile gomma nuova da pagare in dollari al mercato nero. Vedo in lontananza la sagoma della torre di Piazza della Rivoluzione e sento scorrermi accanto la vita della notte avanera, le mulatte che passeggiano provocanti, i bambini che continuano a giocare e il caldo appiccicoso. Un giorno di sicuro scriverò un racconto sul palazzo di Toyo ma sarà un racconto triste perché il nonno non ci sarà più. Sarò costretto a rivederlo con quel pigiama bianco mentre attende il discorso di Fidel e scruta con occhi distratti il quadro appeso alla parete. Dovrò convincermi che se n’è andato senza rimpianti. E vorrei tanto che fosse vero.

 

Alejandro Torreguitart Ruiz


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