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Baruffini. La “torta negra” e altro ancora
'Barfì e Friends', la Compagnia teatrale di Baruffini 
23 Maggio 2007
 

Quel che resta dopo la giovinezza è un tempo diverso: un attimo è lunghissimo e un giorno troppo breve. Gli anni, nemmeno moltissimi, sembrano svaniti nel nulla, le parole dette e quelle pensate chiuse nel silenzio della mente. Allora, se vogliamo, chiamiamolo nostalgia quel desiderio di parlare che ha preso la nostra interlocutrice!

La riservatezza che la distingue si scioglie andando a ritroso, ritrovando intatta una ridda di ricordi difficili da arginare, che ci porta per un intenso momento un po’ fuori tema. Ci presenta i suoi: poche foto color seppia gelosamente custodite in una scatola di latta. Gli avi, i genitori, due amade e un barba (persone non sposate) che allora erano parte integrante della famiglia, ai quali si voleva un bene dell’anima fatto non di baci e abbracci ma di fiducia e stima.

Il tempo sembra fermarsi, poi dilatarsi nel rimembrare antiche emigrazioni, duro lavoro, miseri pasti consumati in fumose cucine. Eppure, di quella non facile epoca ha un grande rimpianto. Di transumanze e di fienagioni sull’alpe, di genuino folclore, di atavici ritrovi serali, nelle corti d’estate e nelle stalle d’inverno. Era quella una civiltà viva, fortificata da convinzioni sincere, di profondo rispetto per il prossimo e di sentite credenze religiose.

La ricorrenza del Santo Patrono era la festa per antonomasia. A Baruffini cade il 29 aprile: San Pietro Martire. Oggi non è più così ma allora tutto si fermava, racconta la nostra ospite. Sin dal mattino il sagrato brulicava di gente. Era il sacrosanto movente che faceva tornare chi se ne era andato, l’irrinunciabile occasione per i paesani d’invitare i parenti forestieri. I bambini lanciavano speranzose occhiate alla bancarella di pipette rosse. Con fervore si seguiva la Santa Messa solennemente concelebrata dai tanti parroci convenuti. Solo al Ite, missa est ci si permetteva di ascoltare quel languorino che saliva dallo stomaco pregustando la “torta di San Pietro”.

Ah già! La torta negra, la torta an pevar (la torta col pepe)!

Ecco il motivo che ci ha portato dalla Rina.

Nessuno sa come è nata questa ricetta che si tramanda ormai da più generazioni. Ricorda il rito della preparazione e la lunga cottura, allora rigorosamente in forno a legna a pian, a pian (lentamente).

Le famiglie che ne erano sprovviste, in cambio di un po’ di legna, la cuocevano in quello del vicino che poteva contenerne da sette a otto e lì, su un letto di braci, rimaneva tutta la notte.

Nel tardo pomeriggio veniva preparato l’impasto fatto di acqua, farina nera, bietole (menegolch), porri, formaggio, erba di S. Pietro, mentuccia nostrana (pulasei), sale e pepe… tanto pepe. In una grande padella di ferro, meglio ancora nel brunz, si scioglieva abbondante strutto, si versava l’impasto, s’infornava, s’andava a dormire e pazientemente s’aspettava di poterla gustare. Tutto qui!

Facile a dirsi! Il difficile è riuscire a conservarne oggi il gusto autentico e speciale di cibo semplice che la fretta e i modernissimi e diabolici forni, i quali appena sfiorati s’illuminano come presepi, si stan portando via.

 

Wanda

(da Tirano & dintorni, maggio 2007)


 
 
 
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