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Foulek Ringelheim: Intervista a Foucault su 'Sorvegliare e punire'
Foucault
Foucault 
15 Maggio 2007
 

Il suo libro, Sorvegliare e punire, (pubblicato in Italia da Einaudi nel 1976)  è piombato come una meteora sul campo di studio di penalisti e di criminologi. Proponendo un'analisi del sistema penale nella prospettiva della tattica politica e della tecnologia del potere, l'opera ha portato scompiglio tra le tradizionali concezioni sulla delinquenza e sulla funzione sociale della pena. Ha turbato i giudici repressivi, per lo meno quelli che s'interrogano sul senso del loro lavoro. Ha scosso un buon numero di criminologi che però non hanno affatto gradito che le loro teorie fossero definite chiacchiere. Sempre più rari sono oggi i libri di criminologia che si riferiscono a Sorvegliare e punire come a un'opera propriamente inaggirabile. Tuttavia il sistema penale non cambia e la «chiacchiera criminologica» prosegue immancabilmente. È come se si rendesse omaggio al teorico dell'epistemologia giuridico-penale senza poterne trarre insegnamenti, come se teoria e pratica fossero separate da una paratia stagna. Senza dubbio la sua intenzione non è stata quella di fare opera di riforma, ma non si potrebbe immaginare una politica contro il crimine che si basi sulle analisi e tenti di trarne alcune lezioni?

Bisognerebbe forse preliminarmente precisare che cosa mi sono proposto di fare con questo libro. Non ho voluto fare direttamente opera critica, se si intende per critica la denuncia delle disfunzioni dell'attuale sistema penale. Né ho voluto fare una storia delle istituzioni; nel senso che non ho voluto raccontare come funzionava l'istituzione penale e carceraria nel corso del diciannovesimo secolo. Ho tentato di porre un problema diverso: scoprire il sistema di pensiero, la forma di razionalità che, dalla fine del diciottesimo secolo, sottostà all'idea che la prigione è, in definitiva, lo strumento migliore, uno dei più efficaci e dei più razionali per punire le infrazioni in una società. È evidente che nel fare ciò mi sono preoccupato di come si potrebbe agire ora. Infatti mi sembra che opponendo, come si fa tradizionalmente, riformismo e rivoluzione, non ci si dota dei mezzi per pensare che cosa possa dar luogo a una reale, profonda e radicale trasformazione. Molto spesso, nelle riforme del sistema penale, si accetta implicitamente e talvolta anche esplicitamente, il sistema di razionalità che era stato definito e messo in pratica nel passato. E che si cerchi semplicemente di sapere quali siano le istituzioni e le procedure che consentano di realizzarne il progetto e raggiungerne i fini. Mettendo in risalto il sistema di razionalità sottostante le pratiche punitive, ho voluto indicare quali fossero i postulati logici che bisognava riesaminare se si voleva trasformare il sistema penale. Non dico che bisognasse necessariamente liberarsene. Ma credo che sia molto importante, quando si vuole fare opera di trasformazione e di rinnovamento, sapere non solo che cosa sono le istituzioni e quali sono i loro effetti reali, ma anche qual è il tipo di pensiero che li supporta: che cosa si può ancora accettare di questo sistema di razionalità? Quali aspetti bisogna invece accantonare, abbandonare, trasformare? Ho cercato di fare la stessa cosa con la storia delle istituzioni psichiatriche. E in realtà sono rimasto un po' sorpreso e un tantino deluso nel constatare che da tutto ciò non derivasse un tentativo di riflessione e di elaborazione teorica che avrebbe potuto riunire attorno allo stesso problema persone molto diverse tra loro, magistrati, teorici del diritto penale, esperti dell'istituzione penitenziaria, avvocati, assistenti sociali o comunque persone che hanno esperienza del carcere.
E vero, da questo punto di vista, per motivi di ordine culturale e sociale, gli anni settanta sono stati estremamente deludenti. Molte critiche sono state lanciate un po' in tutte le direzioni. Spesso queste idee hanno avuto una certa diffusione, talvolta hanno esercitato una certa influenza. Ma raramente si è avuta una cristallizzazione delle questioni poste in un lavoro collettivo per determinare quali fossero le trasformazioni da attuare. Ad ogni modo, per quanto mi riguarda nonostante il mio desiderio, non mi è mai stata offerta la possibilità di avere nessun contatto di lavoro con un professore di diritto penale, un magistrato, né un partito politico. Lo stesso partito socialista, fondato nel 1972, che ha avuto nove anni per preparare la sua ascesa al potere e che fino a un certo punto ha riecheggiato nei suoi discorsi parecchi temi sviluppati nel corso degli anni sessanta-settanta ha mai fatto un serio tentativo per definire preliminarmente quale avrebbe potuto essere la sua azione reale una volta al potere. Sembra che le istituzioni, i gruppi, i partiti politici che avrebbero potuto dar avvio a un lavoro di riflessione non abbiano fatto niente.

Si ha l'impressione che il sistema concettuale non sia per niente cambiato. Nonostante i giuristi, gli psichiatri riconoscano la pertinenza e le novità delle sue analisi, si scontrano, a quanto pare, con l'impossibilità di tradurli sul piano pratico, sul piano della ricerca di ciò che si definisce con un termine ambiguo «politica criminale».

Qui si pone un problema che in effetti è molto importante e complesso. Appartengo a una generazione di persone che ha visto crollare una dopo l'altra la maggior parte delle utopie che erano state costruite nel diciannovesimo secolo e all'inizio del ventesimo secolo, e che hanno visto quali effetti perversi e talvolta disastrosi potevano produrre i progetti dalle intenzioni più generose. Non ho mai voluto assumere il ruolo dell'intellettuale profeta che predica alle persone ciò che devono fare e prescrivere loro le strutture di pensiero, gli obiettivi e i mezzi che ha desunto dalla sua testa, lavorando chiuso in una stanza, tra i libri. Mi è sembrato che il lavoro di un intellettuale, di quello che io definisco un intellettuale specifico, consista nel tentare di delineare, nel loro potere vincolante ma anche nella contingenza della loro formazione storica, i sistemi di potere che ci sono diventati ora familiari, che ci sembrano chiari e che compenetrano le nostre percezioni, i nostri comportamenti. Bisogna inoltre lavorare insieme a degli esperti non solo per modificare le istituzioni e le procedure d'azione, ma anche per rielaborare le forme di pensiero.

Ciò che ha definito «chiacchiera criminologica» (definizione che è stata senza dubbio fraintesa) indica quindi il fatto di non mettere in discussione il sistema di pensiero entro il quale sono state condotte, per un secolo e mezzo, tutte queste analisi?

Sì, proprio questo. Forse ho usato una parola un po' disinvolta. Quindi cancelliamola. Ma ho l'impressione che le difficoltà e le contraddizioni che la pratica penale ha incontrato nel corso degli ultimi due secoli non sono mai state riesaminate a fondo. E da ormai centocinquanta anni, vengono ripetuti sempre gli stessi concetti, gli stessi temi, le stesse accuse, le stesse critiche, le stesse esigenze, come se niente fosse cambiato, e in effetti, in un certo senso, niente è cambiato. A partire dal momento in cui un'istituzione che presenta tanti inconvenienti, che solleva tante critiche, dà solo luogo alla ripetizione indefinita degli stessi discorsi, la «chiacchiera» è un sintomo serio.

In Sorvegliare e punire, lei analizza quella strategia che consiste nel trasformare alcuni illegalismi in delinquenza, rendendo l'apparente fallimento del carcere un successo. È come se un certo gruppo utilizzasse più o meno coscientemente questo strumento per produrre degli effetti non dichiarati. Si ha l'impressione, forse falsa, che vi sia in tutto questo l'astuzia del potere che sovverte i progetti, elude i discorsi dei riformatori umanisti. Da questo punto di vista, c'è una certa similitudine tra le sue analisi e il modello d'interpretazione marxista della storia (mi riferisco alle pagine nelle quali mostra come un certo tipo d'illegalismo venga particolarmente represso mentre altri sono tollerati). Ma non si capisce chiaramente, a differenza del marxismo, quale gruppo o quale classe, quali interessi siano in azione in questa strategia.

Nell'analisi di un'istituzione bisogna distinguere varie cose. In primo luogo quella che si potrebbe chiamare la sua razionalità o il suo fine, cioè gli obiettivi che si prefigge e i mezzi di cui dispone per raggiungere questi obiettivi: in definitiva, il programma dell'istituzione così come è stato definito. In secondo luogo, gli effetti. Solo molto raramente gli effetti coincidono con il fine: così, l'obiettivo del carcere-correzione, il carcere come strumento di riparazione all'errore commesso dall'individuo, non è stato raggiunto.
L'effetto è stato invece contrario e la prigione ha piuttosto rinnovato i comportamenti di delinquenza. Quando l'effetto non coincide con il fine, si hanno parecchie possibilità: o si attua una riforma o si utilizzano questi effetti per un qualcosa che non era stato previsto all'inizio ma che può benissimo avere un senso e un'utilità. Questo qualcosa potremmo chiamarlo l'uso: così la prigione che non ha avuto effetti correttivi, è invece servita come meccanismo di eliminazione. Il quarto livello di analisi è costituito da quelle che potremmo definire configurazioni strategiche: a partire da questi usi in un certo senso imprevisti, nuovi ma nonostante tutto, fino ad un certo grado volontari, si possono costruire nuove condotte razionali, diverse da quelle del programma iniziale, ma che rispondono pur esse a degli obiettivi e nell'ambito delle quali possono collocarsi i giochi tra i diversi gruppi sociali.

Effetti che si trasformano a loro volta in fini...

Proprio così. Sono effetti che vengono inseriti in differenti usi e questi usi vengono razionalizzati o comunque organizzati in funzione di nuovi fini.

Ma tutto non è premeditato, non c'è alla base un progetto machiavellico occulto?

Assolutamente no. Non c'è un soggetto o un gruppo che sia titolare di questa strategia, ma a partire da effetti diversi dai fini originari e dall'utilizzabilità di questi effetti, si costruiscono un certo numero di strategie.

Strategie le cui finalità a loro volta sfuggono in parte coloro che le elaborano...

Sì. Talvolta queste strategie sono completamente consce: il modo in cui la polizia utilizza il carcere è più o meno conscio. Semplicemente, in generale non vengono formulate. A differenza del programma.
Il programma primo dell'istituzione, la finalità iniziale è invece manifesta e funge da giustificazione, mentre le configurazioni strategiche non sono chiare nemmeno agli occhi di coloro che vi occupano un posto e vi svolgono un ruolo. Ma questo gioco può benissimo cristallizzare un'istituzione e credo che il carcere sia stato cristallizzato, nonostante tutte le critiche mossegli, perché parecchie strategie di gruppi diversi sono venute a confluire in questo luogo particolare.

Lei ha spiegato molto chiaramente come la pena detentiva sia stata, sin dall'inizio del ventesimo secolo, denunciata come il grande fallimento della giustizia penale, esattamente negli stessi termini in cui lo è oggi. Non esiste penalista convinto del fatto che il carcere raggiunga gli scopi che gli sono attribuiti: il tasso di criminalità non diminuisce. Invece di risocializzare, il carcere fabbrica delinquenti, accresce la recidiva, non garantisce sicurezza. Gli istituti penitenziari non si svuotano, né si intravede in Francia a questo riguardo l'avvio di un cambiamento sotto il governo socialista. Però nello stesso tempo lei capovolge il problema.
Invece di cercare i motivi di un fallimento infinitamente rinnovato, lei si chiede a che cosa serve, a chi giova questo insuccesso problematico. Si scopre così che la prigione è uno strumento di gestione e di controllo differenziale degli illegalismi. In questo senso, invece di costituire un fallimento è invece riuscita alla perfezione a specificare la delinquenza, quella di ceti popolari, a produrre una determinata categoria di delinquenti, a circoscriverli per meglio dissociarli dalle altre categorie di rei, provenienti soprattutto dalla borghesia. Infine lei osserva che il sistema carcerario riesce a rendere naturale e legittimo il potere punitivo legale, che lo naturalizza. Questa idea è legata all'antica questione della legittimità e del fondamento della punizione, poiché l'esercizio del potere disciplinario non esaurisce il potere punitivo anche se è in questo che consiste, come lei ha dimostrato, la sua funzione principale.

Chiariamo innanzitutto alcuni equivoci. In primo luogo, in questo libro sul carcere, è evidente che non ho voluto porre il problema del fondamento del diritto di punire. Ho voluto mostrare il fatto che a partire da una certa concezione del fondamento del diritto di punire riscontrabile nel pensiero dei penalisti e dei filosofi del diciottesimo secolo, potevano essere concepiti diversi strumenti di punizione. Infatti, i movimenti riformisti della seconda metà del diciottesimo secolo suggeriscono tutta una serie di strumenti punitivi, ma alla fine scopriamo che è la prigione a essere in qualche modo privilegiata. Non è stato l'unico mezzo punitivo, ma è diventato comunque uno dei principali. Il problema è sapere perché si è scelto questo metodo. E come esso abbia piegato non solo la pratica giudiziaria ma anche un certo numero di problemi abbastanza fondamentali in diritto penale. L'importanza data per esempio agli aspetti psicologici o psicopatologici della personalità criminale che si afferma nel corso di tutto il diciannovesimo secolo, è stata fino a un certo punto indotta da una pratica punitiva che si poneva come fine la correzione e che incontrava come unico ostacolo solo l'impossibilità di correggere. Ho dunque lasciato da parte il problema del fondamento del diritto di punire per evidenziare un altro problema che credo sia stato più spesso trascurato dagli storici: gli strumenti punitivi e la loro razionalità.
Ma questo non significa che la questione del fondamento della punizione non sia importante. Su questo punto credo sia necessario essere nello stesso tempo modesti e radicali, radicalmente modesti, e ricordarsi di quello che diceva Friedrich Nietzsche più di un secolo fa, e cioè che nella nostre società contemporanee non si sa più esattamente quello che si fa quando si punisce e questo può in teoria giustificare la punizione: esercitando una punizione lasciamo valere, sedimentate un po' le une sulle altre, un certo numero di idee eterogenee che emergono da storie diverse, da momenti distinti e da razionalità divergenti.
Quindi se non ho parlato del fondamento del diritto di punire non è perché ritengo che non sia importante. Ripensare il senso che si può dare oggi alla punizione legale, nell'articolazione tra diritto, morale e istituzione, sarebbe invece sicuramente un compito rilevantissimo.

Il problema della definizione della punizione è ancora più complesso in quanto non solo non si sa esattamente che cosa significhi punire, ma sembra anche ripugni punire. I giudici infatti si astengono sempre di più dal punire, vogliono curare, rieducare, guarire, un po' come se essi stessi cercassero di discolparsi dall'esercitare la repressione. In Sorvegliare e punire lei d'altra parte scrive: «i confini del discorso penale e del discorso psichiatrico si confondono». «Si stabilisce allora con la molteplicità dei discorsi scientifici un rapporto difficile ed infinito che oggi la giustizia penale non è pronta a controllare. L'arbitro della giustizia non è signore della verità». Oggi, il ricorso allo psichiatra, allo psicologo, all'assistente sociale è un fatto di routine giudiziaria, sia penale che civile. Lei ha analizzato questo fenomeno, che indica senza dubbio un cambiamento epistemologico nella sfera giuridico-penale. La giustizia penale sembra aver cambiato senso. Il giudice applica sempre meno il codice penale all'autore di un infrazione e sempre di più invece tratta delle patologie e dei disturbi della personalità.

Credo che lei abbia perfettamente ragione. Perché la giustizia penale ha allacciato questi rapporti con la psichiatria, che dovrebbe ostacolarla moltissimo? Perché evidentemente tra la problematica della psichiatria e ciò che esige la stessa pratica del diritto penale riguardo le responsabilità non c'è contraddizione bensì eterogeneità. Sono due forme di pensiero che non sono sullo stesso piano e di conseguenza non si riesce a capire secondo quale regola l'una potrebbe avvalersi dell'altra. È certo però, ed è una cosa che sorprende sin dal diciannovesimo secolo, che la giustizia penale di cui si sarebbe potuto supporre la diffidenza verso il pensiero psichiatrico, psicologico o medico, sembra invece esserne stata affascinata. Certamente ci sono stati degli attriti, dei conflitti, non voglio certo sottovalutarli. Ma se si considera un periodo di tempo più lungo, un secolo e mezzo, sembra che la giustizia penale sia stata disposta, e in misura sempre maggiore, ad accogliere queste forme di pensiero. Verosimilmente, la problematica psichiatrica ha intralciato la pratica penale. Oggi sembra invece che la faciliti, permettendo di lasciare nell'ambiguo il problema di sapere quello che si fa quando si punisce.

Lei osserva nelle ultime pagine di Sorvegliare e punire che la tecnica disciplinare è diventata una delle funzioni principali della nostra società. Il relativo potere raggiunge la sua più alta intensità nell'istituzione penitenziaria. Lei dice d'altra parte che il carcere non è necessariamente indispensabile a una società come la nostra poiché perde buona parte della sua ragione d'essere tra i sempre più numerosi dispositivi di normalizzazione. E quindi concepibile una società senza carcere? Questa utopia comincia a essere presa sul serio da alcuni criminologi. Per esempio, Louk Hulsman, professore di diritto penale all'università di Rotterdam, difende la teoria dell'abolizione del sistema penale. Il ragionamento su cui si basa questa teoria si ricollega ad alcune delle sue analisi: il sistema penale crea il delinquente, si rivela fondamentalmente incapace di realizzare le finalità sociali che è supposta perseguire, qualsiasi riforma è illusoria. L'unica soluzione coerente è la sua abolizione. Hulsman osserva che la maggior parte dei reati sfugge al sistema penale senza mettere in pericolo la società. Propone allora di decriminalizzare sistematicamente la maggior parte degli atti e dei comportamenti che la legge considera crimini o reati, e di sostituire al concetto di crimine quello di «situazione-problema». Invece di punire e di stigmatizzare, tentare di regolare i conflitti con delle procedure di arbitrariato, di conciliazione non giudiziaria, considerare le infrazioni alla stessa stregua dei rischi sociali, continuando a ritenere essenziale il risarcimento della parte lesa. L'intervento dell'apparato giudiziario verrebbe riservato ai casi gravi o, in ultima istanza, nel caso d'insuccesso dei tentativi di conciliazione e delle soluzioni di diritti civili. La teoria di Hulsman è di quelle che presuppongono una rivoluzione culturale. Che cosa pensa di questa idea abolizionista riassunta schematicamente?

Credo che siano molte cose interessanti nella tesi di Hulsman, non fosse altro per la sfida che pone alla questione del fondamento del diritto di punire dicendo che non c'è più niente da punire. Trovo anche interessante il fatto che pone la questione del fondamento della punizione tenendo conto nello stesso tempo dei mezzi attraverso i quali si risponde a un qualcosa che è considerato come infrazione. In altre parole, la questione dei mezzi non è semplicemente una conseguenza del modo in cui si sarebbe potuto porre il problema del fondamento del diritto di punire, ma a suo modo di vedere, la riflessione sul fondamento del diritto di punire e il modo di reagire a un infrazione devono costituire un tutt'uno. Tutto ciò mi sembra molto stimolante, molto importante. Forse non ho una conoscenza approfondita della sua opera, ma mi sorgono alcuni dubbi. La nozione di «situazione-problema» non conduce a una psicologizzazione sia dell'atto che della reazione? Una pratica come questa non rischia, anche se non è ciò che spera Hulsman, di condurre ad una specie di dissociazione tra le reazioni sociali, collettive, istituzionali del crimine da una parte che verrà considerato un incidente e dovrà essere regolato alla stessa stregua, e dall'altra, per quanto riguarda il delinquente, a una iper-psicologizzazione che lo rende oggetto di interventi psichiatrici o medici, con dei fini terapeutici?

Ma questa concezione del crimine non porta anche all'abolizione delle nozioni di responsabilità e di colpevolezza? Dato che nelle nostre società il male esiste, la coscienza della colpevolezza (che secondo Paul Ricoeur è nata presso i greci) non adempie una funzione sociale necessaria? E possibile concepire una società completamente esonerata da ogni senso di colpevolezza?

Il problema non è sapere se una società può funzionare senza colpevolezza, il problema è piuttosto stabilire se la società può far funzionare la consapevolezza come principio organizzatore e fondatore di un diritto. Ricoeur fa benissimo a porre il problema della coscienza morale, e lo pone da filosofo o da storico della filosofia. È legittimo dire che la colpevolezza esiste, che esiste da una certa epoca in poi. Si può discutere se l'origine sia greca o meno. Ad ogni modo esiste e non vedo come una società come la nostra, ancora così fortemente radicata in una tradizione che è anche quella greca potrebbe esonerarsi dal senso di colpevolezza. Per molto tempo si è creduto di poter direttamente articolare un sistema di diritto e una istituzione giudiziaria su una nozione come quella della colpevolezza. Per noi invece la questione è aperta.

Attualmente, quando una persona compare davanti all'una o all'altra istanza della giustizia penale, deve rendere conto non solo dell'atto vietato che ha commesso, ma anche della sua stessa vita.

È vero. Negli Stati Uniti per esempio si è discusso molto sulle pene indeterminate. Credo che non si ricorra più ad esse quasi dappertutto. Il loro uso implica una certa tendenza, una certa tentazione che però non mi sembra che sia scomparsa: la tendenza a indirizzare il giudizio penale molto più sull'aspetto in un certo senso qualitativo che caratterizza un'esistenza e un modo di essere che, su un atto preciso. In Francia è stata presa una misura riguardante i giudici che vigilano sull'applicazione della pena. Si è voluto rafforzare (e l'intenzione è buona) il potere e il controllo dell'apparato giudiziario sullo svolgimento della punizione. Ma ecco il punto debole: ci sarà un tribunale composto da tre giudici, credo, che deciderà se a un detenuto potrà essere accordata o meno la libertà condizionale e questa decisione sarà adottata tenendo conto di elementi tra i quali innanzitutto ci sarà l'infrazione principale in qualche modo riattualizzata poiché la parte civile e i rappresentanti della parte lesa saranno presenti e potranno intervenire.
E poi a integrazione gli elementi di condotta del soggetto in carcere così come sono stati osservati, valutati, interpretati, giudicati dalle guardie, dagli amministratori, dagli psicologi, dal medici. E su questo insieme di elementi eterogenei che si fonderà la decisione di tipo giudiziario. Anche se giuridicamente accettabile, bisogna sapere che conseguenze di fatto tutto questo potrà determinare. E nello stesso tempo rendersi conto che per la giustizia penale rischia di rappresentare un modello pericoloso nel suo uso corrente, se effettivamente si prende l'abitudine di formulare una decisione penale in funzione di una condotta buona o cattiva.
La medicalizzazione della giustizia conduce a poco a poco a un'evizione del diritto penale, delle pratiche giudiziarie. Il soggetto di diritto cede il posto al nevrotico o allo psicopatico, più o meno irresponsabile, la cui condotta sarà determinata da fattori psico-biologici. A questa concezione alcuni penalisti oppongono un ritorno al concetto di punizione che si concili meglio con il rispetto della libertà e della dignità dell'individuo. Non si tratta di ritornare a un sistema di punizione brutale e meccanica che astrarrebbe dal regime socio-economico nel quale funziona e ignorerebbe la dimensione sociale e politica della giustizia, ma di trovare una coerenza concettuale e di fare una netta distinzione tra ciò che compete al diritto e ciò che compete alla medicina.
Credo in effetti che il diritto penale faccia parte del gioco sociale in una società come la nostra, e che non debba mascherarlo. Ciò significa che gli individui che fanno parte di questa società devono riconoscersi come soggetti di diritto che in quanto tali possono essere puniti e castigati se infrangono qualche regola. Non vi è in questo, credo, niente di scandaloso. Ma è dovere della società fare in modo che gli individui possano effettivamente riconoscersi come soggetti di diritto. Cosa che è difficile quando il sistema penale in vigore è arcaico, arbitrario, inadeguato ai problemi reali che si pongono a una società.
Consideriamo per esempio il solo campo dei reati economici. Il lavoro che si deve realmente fare a priori non consiste nell'iniettare sempre più medicina o psichiatria per modulare questo sistema e renderlo più accettabile. Bisogna ripensare il sistema penale in sé. Non auspico con questo un ritorno alla severità del codice penale del 1810. Auspico invece un ritorno all'idea seria di un diritto penale che definisca chiaramente ciò che in una società come la nostra può essere considerato passibile di punizione o meno, persino un ritorno a un sistema che definisca le regole del gioco sociale. Diffido di coloro che vogliono tornare al sistema del 1810 con il pretesto che la medicina e la psichiatria fanno perdere il senso della giustizia penale. Ma diffido anche di coloro che pur sistemandolo, migliorandolo e attenuandolo con delle modulazioni psichiatriche e psicologiche, in fondo l'accettano.

[Traduzione di Francesca Arra, dalla rivista Volontà, Aprile 1990]


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