In questi giorni di commemorazioni più o meno sentite, spesso retoriche e avvalorate da commozioni di circostanza, ho ricordato gli ultimi giorni passati a Sacile con mio padre a finire di trascrivere i suoi ricordi per il libro La mia Resistenza non armata.
Quante volte ci siamo interrogati su “come” raccontare la realtà della deportazione nei lager, talmente drammatica e traumatica da sembrare irreale; su come dare senso a una storia dentro una moltitudine di storie già viste. Spesso, infatti, tutto sembra una ripetizione di eventi che ripetono altri eventi già accaduti, in un déjà-vu che annulla il reale, mettendolo fuori gioco.
Mi rendevo conto che per lui ricordare e “rivivere” quei due anni era ogni volta più doloroso. Solo in quei giorni ho potuto capire perché non ne avesse parlato quasi mai per tutta la sua vita: non era né consolatorio né catartico. Ma il tempo per ricordare era arrivato, anzi incalzava sulla sua graduale perdita di memoria e sulla fatica di mantenere lucidità e attenzione. Anche la sua scelta era precisa: superare l’“impossibilità” di raccontare fatti così terribili da sembrare indicibili. Ed è stata anche la mia scelta, oltre che una sfida contro il tempo.
C’era, sì, anche una forma di pudore nel mostrare un’intimità carica di debolezze di ogni genere, di perdita della propria dignità e di assoluto abbrutimento. Ma più spesso la brutalità del fatto oggettivo era così insopportabile da non saperla dominare. Siamo sempre in grado di provare sentimenti all’altezza dell’evento drammatico che ci coinvolge? Oppure l’incapacità ci porta a superarlo attraverso il cinismo o, all’opposto, a cadere nella disperazione? E, semmai, come trasformare i sentimenti in parola, in narrazione, in conoscenza, in Storia?
Il filosofo sloveno Slavoj Zižek affronta alcune questioni nodali sulla difficoltà di testimoniare in modo diretto gli eventi più drammatici della storia del XX secolo. Zižek lo chiama «l’effetto d’irrealtà»: la realtà viene percepita come talmente esagerata che non si può accettare come vera: diventa qualcosa di irreale simile a un incubo. Quello che è avvenuto per opera dei nazisti è troppo irreale per sembrare vero, così che stentiamo a riconoscerlo come tale o pensiamo a una finzione. Lo stesso problema assillava Primo Levi che lo traduce nel sogno raccontato in Se questo è un uomo: trovarsi a casa tra persone amiche e non essere creduto da nessuno, nemmeno dai propri famigliari.
Il sospetto è che la realtà contemporanea che costruiamo e viviamo sia sempre meno reale e sempre più artefatta e virtuale tanto che l’interferenza tra finzione e realtà sia talmente forte da non saperne più distinguere i limiti. Zižek ci ammonisce: «è molto più difficile riconoscere nella realtà ‘reale’ la parte di finzione, piuttosto che denunciare o smascherare in quanto finzione quel che appare come realtà». Perché abbiamo bisogno di verificare la realtà, di sentirne la consistenza, se vogliamo credere ancora nella Storia.
Alessandra Borsetti Venier