Alcuni storici hanno stimato che furono sterminati nove milioni di “streghe”,
all’80% donne e bambine appartenenti a classi popolari
La caccia alle streghe si concentrò soprattutto fra la fine del 1400 e la prima metà del 1600 in tutta Europa. In Valtellina il fenomeno ebbe enorme diffusione così come nel nord del Piemonte, zone prossime alla linea di contatto fra protestantesimo e cattolicesimo.
Nel 1523 frate Modesto da Vicenza mandò sul rogo in piazza Campello a Sondrio trenta donne accusandole di stregoneria. Nel 1634 Geronimo Fulgenzio Rangone da Piacenza fece accusare quattro donne: Malgarita di Albosaggia, Domenica Volardi di Torre, Maria Giovanna di Piateda e Salvadora di Mossini, quest’ultima esperta guaritrice nelle pratiche con erbe medicinali, le altre semplicemente colpevoli di raccontare storie di magia e folletti. Nonostante la difesa di Gian Antonio Parravicini, arciprete di Sondrio, tre di esse morirono in carcere, Maria Giovanna fu invece giustiziata.
In zona alta valle furono accusati, fra i tanti, nel 1673 Giovanni Bormetti detto Merendin di Semogo e l’anno successivo Caterina Rasigava. Furono bruciati sul rogo dopo confessioni estorte in seguito a terribili torture, teatro dell’esecuzione una località detta eufemisticamente “Prà della Giustizia”, in zona Premadio.
Sovente le donne accusate erano guaritrici o depositarie di un sapere ancestrale utile alle guarigioni. La loro saggezza andava a scontrarsi con la volontà rinascimentale di sapere razionale; un sapere egemonico che bollò come magiche e demoniache pratiche usate da una popolazione essenzialmente rurale, sprovvista di altri modi e mezzi per curarsi.
L’accusa di stregoneria fu soprattutto creata per condannare l’emancipazione femminile, caso emblematico in tal senso fu Giovanna D’Arco. Le motivazioni ufficiali mosse per avallare l’accusa di stregoneria furono le più varie, molto spesso semplici delazioni anonime bastavano allo scopo. La condanna a morte attraverso il rogo non era competenza propria della Chiesa ma dell’autorità civile che, basandosi sulle sentenze del Tribunale ecclesiastico, emetteva la condanna di valore penale. Durante la caccia alle streghe quindi più poteri furono alleati per preservare un ordine ideologico e sociale ove il principio femminile fu considerato (è considerato?) inferiore a quello maschile. La caccia alle streghe nell’Europa rinascimentale può quindi essere considerata intrinseca al mantenimento dell’ordine sociale.
Anche presso gli Azande, popolazione africana dislocata territorialmente fra gli odierni Congo, Sudan e Centrafrica, la stregoneria rivestì una funzione sociale. La cultura Azande si riferiva alle stregoneria per spiegare e motivare tanti avvenimenti del quotidiano. Attualmente in qualche contesto africano si ricorre alla stregoneria per giustificare l’uccisione d’innocenti: tanti genitori nella drammatica condizione di non poter dare il minimo sostentamento vitale accusano di stregoneria e ripudiano i loro figli, trovando così una sorta di giustificazione morale ad un’azione dettata dall’assoluta assenza di speranze. Tante vedove, donne sole o vittime di vendette personali vengono accusate di essere delle “mangiatrici di anime”. Spesso sono persone di cui nessuno può o si vuole occupare, accusandole di qualche sorta di stregoneria vengono così isolate dalla comunità e lasciate morire di stenti.
La stregoneria, in maniere diverse in varie parti del mondo, è sempre stata tesa a giustificare o legittimare altre azioni. Nei nostri “dintorni”, per l’esattezza in quella parte di valle che allora si chiamava Contado di Bormio, l’ultima “strega” fu messa al rogo intorno al 1730. Da documenti storici dell’epoca si evince come spesso ad accusarsi furono vicini di casa, mossi più da bramosia di possesso sul territorio del vicino, che da vera e propria vocazione inquisitoria.
Sara Ferrari
(da Tirano & dintorni, aprile 2007)