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Ilir Trebicka. Un canestro di sogni
29 Ottobre 2005
 

Ilir Trebicka è un ingegnere albanese di 51 anni. Ingegnere e imprenditore. Di successo, tant’è vero che è impegnato in vari business nel suo paese: a Durazzo, una sorta di Rimini shqipetara (con un bell’anfiteatro romano), o nella capitale Tirana. Ingegnere, imprenditore e... playmaker. Come un certo Pier Luigi Marzorati che egli infatti ben conosce e con il quale in un recente passato aveva addirittura fondato, nella loro veste d’altissimi tecnici, una società. Trebicka è stato un atleta di vaglia e di rango, colonna della Dinamo, del Partizani e della Nazionale d’Albania. Peraltro Trebicka ha trascorso, dopo il suo miglior cursus honorum in Albania, un breve periodo in Italia dove ha allenato una squadra di Seconda Divisione vincendo il relativo campionato FIP e partecipando come giocatore, pur essendo allora ormai vicino alla quarantina, a numerosi tornei risultandone sia il miglior marcatore sia l’MVP. Ma per il buon Ilir, che ha conservato, anche adesso che ha superato la boa del mezzo secolo, un fisico atletico, non c’era futuro nel bel Paese: né come coach né come ingegnere. Se n’è tornato in patria, nella terra delle aquile, compiendo a ritroso quel viaggio che tanti suoi connazionali non hanno più fatto avendo trovato maggiore o minor fortuna nelle nostre plaghe.


Giocare, ma secondo i diktat della Nomenklatura

Eppure Trebicka, che parla un ottimo italiano, era stato un playmaker di gran valore e caratura, giocando in prevalenza nelle file della Dinamo, una delle migliori squadre della capitale albanese, e in quelli del Partizani, cui veniva prestato in occasione della Coppa dei Campioni, oltre che dell’équipe nazionale, di cui era insostituibile colonna. «Ero un giocatore, con le debite proporzioni, alla Antonello Riva, fisicamente potente; il mio punto di forza era il palleggio-arresto-tiro andando verso destra». Come il Nembo Kid di Rovagnate. Certo non si limitava all’esecuzione di questo fondamentale il gioco dell’ingegner Trebicka, che prosegue: «Il nostro gioco, individuale e di squadra, era spumeggiante e velocissimo. Essendo piccoli ci affidavamo al contropiede e al tiro rapido. Giocavamo bene, con rigore, precisione e in maniera anche spettacolare. La scuola dei fondamentali era sviluppata in maniera molto accurata e rigorosa; i nostri coaches erano russi o s’erano comunque formati e forgiati alla scuola sovietica». In effetti la pallacanestro albanese aveva dato buone prove di sé sia a livello di club sia a livello di Nazionale. Peccato che la Nazionale potesse partecipare, per diktat e ordini superiori, soltanto a determinate competizioni. Giocatori di talento superiore alla media potevano dunque bruciarsi e languire senza speranze di miglioramento, poiché per scelte meramente politiche (sic et simpliciter) dovevano rinunciare al confronto con l’altro movimento cestistico d’Europa.

Eppure la Nazionale d’Albania negli anni Sessanta in varie manifestazioni, cui era stato deciso da parte della nomenklatura che potesse partecipare, aveva tenuto testa agli stessi maestri di Jugoslavia (Campionati Balcanici del 1965 – sugli scudi Vaso Shaka, capocannoniere del torneo – o Universiadi torinesi del 1970). Inoltre il 18 dicembre 1968 il Partizani costrinse Cantù, nell’ambito di una competizione europea per club, a uno storico pareggio, 73-73, con 48 punti (!) di Agim Fagu. Sempre il Partizani nel 1973 e 1974 giunse agli ottavi di finale di Coppa dei Campioni e, in un’edizione successiva, cedette di sole due misure di lunghezza ai futuri campioni della Bosna Sarajevo. Anche Valerio Bianchini con il Bancoroma dovette lottare contro l’ottima prestazione dei rivali albanesi. I capitolini, pur vincendo, erano sotto di due alla fine dei primi 20’. L’Evangelista si complimentò sinceramente con gli amici cestisti tiranesi (i valtellinesi non confondano, qui e più oltre, l’aggettivo! ndr), fra cui si distinse in maniera particolare proprio il buon Trebicka.

Ilir, il nostro buon plaing. (vale a dire play-ingegnere), giocava in una squadra di club, che forse nemmeno aveva potuto scegliere (il Partito sceglieva per gli ex liceali, dopo i due anni di servizio militare obbligatorio, anche la facoltà universitaria che essi avrebbero dovuto frequentare), e in occasione degli impegni di Coppa dei Campioni veniva, come detto, prestato a un altro club di Tirana (Teheran il nome all’atto della sua fondazione, nel 1614, datole da Sulejman Pascià Bargjini). Partizani, il club dominante, con qualche incursione esterna, soprattutto, da Durazzo, Scutari, città su un gran lago diviso a metà con la Serbia-Montenegro, e il 17 Nentori, che vuol dire 17 Novembre, vale a dire la data della liberazione di Tirana dai nazisti per opera delle truppe partigiane autoctone.


All'ombra di Skanderberg, rievocando i trascorsi italiani

Conversa amabilmente ora Ilir Trebicka dietro Piazza Skanderberg e il Museo Nazionale (con il suo enorme mosaico realizzato sulla facciata dall’artista Sali Shijaku e celebrante i fasti della perduta Albania socialista), seduto a un tavolino all’aperto, davanti a un bicchiere di dhall, bevanda dissetante a base di acqua e yogurt. Parla del passato e per il presente sfreccia nel futuro il discorrere dell’ex capitano della Nazionale d’Albania, questa terra di frontiera, misteriosa, di contrasti, con una popolazione al 70% musulmana e l’eroe nazionale, Gjergj Kastrioti Skanderberg o, meglio, Skenderbeu, che visse nel XV secolo lottando contro le invasioni ottomane e svolgendo la funzione di baluardo della cristianità lungo ventisei guerre – tendendo l’arco della sua vita fra i due mondi (era anche vissuto per tanti anni della sua giovinezza alla corte del Sultano che lo amava come un figlio) – Oriente e Occidente che in Albania si mescolano irrimediabilmente, in una sintesi pacifica. Qui le ombre delle moschee e dei minareti si sovrappongono a quelle di cattedrali e campanili, senza astio, senza tensioni, come a Kruje, città a mezza costa di una montagna dove sgorga una fonte sacra per gli uomini di fede islamica e dominata da una rocca, sede della resistenza di Skanderberg alle potenti incursioni da Istanbul, e poco più in là una moschea che riepiloga le possibilità della tolleranza reciproca e della convivenza fra le genti, senza guerre di religione.

Trebicka rievoca i suoi trascorsi italiani, l’amicizia con la gente del basket nostrano, la ricca Brianza che lo ospitò; sorride ricordando che anch’egli s’era sottoposto all’iter burocratico dei corsi federali per conseguire il tesserino d’allenatore; riceve con piacere i saluti di Pier Luigi Marzorati e Gianni Corsolini. Si parla in italiano, anche fra loro gli altri albanesi presenti – io in verità sono l’unico italiano – Çlirim Muça, grande poeta ed editore che vive a Milano, Albert detto Berti, imprenditore tiranese con affari nella telefonia rurale e proprietario di un Internet Point nella capitale, Fabian, ventiseienne che ormai vive e lavora facendo la spola fra Parma, dove ha vissuto e professionalmente s’è formato come tipografo e stampatore di un certo livello, e Tirana. Per tutti loro Ilir era, è sempre stato, una leggenda, un volto noto e amico.

«Stiamo tentando di risollevare le sorti del nostro basket, anche cercando di coinvolgere i nostri giovani di maggior classe e futuribilità, come Ermal Kuqo (power forward di 207 cm, 25 anni), che gioca nell’Efes Pilsen Istanbul e che volevamo nei ranghi della nostra Nazionale. Perciò gli avevamo offerto un appartamento qui, a Tirana, ciò che era nelle nostre possibilità. Ma forse era troppo poco per quel che oggi viene invece richiesto da chi ha talento e lo può spendere sul mercato», conclude Trebicka con una punta di amarezza, ma consapevole di come procedono le cose nell’era della globalizzazione. In Italia, nel roster di Casalpusterlengo, team che milita in serie B, evoluisce Claudio Ndoja, ventenne italo-albanese di notevole spessore tecnico-atletico, una guardia-ala di 198 cm.

«Ai ragazzini albanesi piace da matti la NBA», prosegue intanto Ilir. Le parabole in Albania proliferano (anche se sui canali in chiaro è possibile vedere il basket, diversamente che dai nostri palinsesti da cui lo sport della palla a spicchi è letteralmente scomparso e bandito, Nazionale compresa: chissà che penserebbe di ciò l’incommensurabile e meraviglioso Aldo Giordani se fosse qui fra noi?) e ammirare il miglior basket è lecito, compreso quello degli astri più lucenti dell’universo a stelle-e-strisce, e la fantasia dei giovani corre sfrenata, con lo spirito di emulazione che ne consegue. Ma ancora mancano i mezzi economici per uscire pienamente dallo stallo. Se il privato in Albania è un’incontenibile esplosione di creatività e potenzialità, nel settore pubblico i soldi scarseggiano, come dimostra lo stato di troppi marciapiedi e strade cittadine, anche nel cuore della capitale in espansione.


Tirana-Teheran, un po’ Parigi un po’ Istanbul

Tirana è, peraltro, una capitale dalle enormi potenzialità. Un po’ Parigi un po’ Istanbul, inconfondibile la musica di genesi orientale riempie l’anima di suggestioni e il profumo dei burek – pasta sfoglia fritta e ripiena di formaggio o carne – colma l’aria; c’è animazione e tantissimi sono i giovani e i giovanissimi per le vie; le montagne, verdi e magnifiche, si stagliano alle spalle della città. Il fiume Lana che l’attraversa ha assunto nuova vita dopo che i caseggiati dell’edilizia socialista, anche di 10-12 piani, sono stati rasi al suolo, facendo sorgere, lungo il corso d’acqua, una sorta di parco fluviale di grande venustà e utilità sociale. La Fontana del Parku Rinia (che vuol dire Parco della Gioventù) si veste la sera di luci multicolori e di parole, i giochi semplici dei bambini e la socievole cordialità di questa gente, che sta uscendo dall’incubo di una dittatura che era divenuta nei suoi ultimi sussulti e scalpitare sempre più paranoica, sino all’epilogo di una carestia e di una crisi economica che ha spinto alle nostre coste, sognate, migliaia e migliaia di albanesi disperati e, insieme, speranzosi. Le ragazze di Tirana sono bellissime, la Sky Tower con il suo bar girevole in cima offre prospettive diverse a chi se ne fa trasportare, scorgendo inusitati panorami metropolitani ed esistenziali dentro e al di fuori di sé. Uno scrittore di Lushnje, città di poeti a una settantina di chilometri da Tirana, mi ha detto: «Se saliamo in cima alle nostre montagne, scorgiamo le luci delle città sulle rive italiane». Tutti gli albanesi guardano all’Italia con fervore e simpatia, come un luogo privilegiato, una terra promessa, da cui non solo ricevere, ma a cui anche dare, e – da rimarcare – in termini non solo prettamente materiali, ma anche culturali.

Edi Rama è il sindaco di Tirana. Che ha fama d’incorruttibile, in un paese il cui problema principale è la corruzione amministrativo-politica dal più basso gradino ai suoi più alti gangli, segno che tanta strada ancora andrà percorsa, sebbene la gente comune e i cittadini già si ribellino a questo ricatto, come ampiamente, chiaramente e civilmente dimostrato dall’esito delle ultime elezioni. Edi Rama, un politico colto, poliglotta, pittore e... ex giocatore di basket (anche lui!). Fatto della stessa pasta del grande Ilir Trebicka, il cui talento era castrato dal regime, il quale, mentre finiva per impedire agli sportivi e agli uomini di trovare uno scambio proficuo con la nazione, cestistica e non solo, di altri uomini, costruiva decine di migliaia di bunker di cemento armato temendo un’invasione nemica, rendendo la propria terra un surreale deserto (psichico e materiale) dei tartari adriatico-balcanico e spopolandolo di alberi (per la paura che vi si nascondessero i barbarici e controrivoluzionari nemici profanatori del sacro suolo patrio...).

Ora la piramide che doveva accogliere la tomba del dittatore è divenuta un centro d’aggregazione socio-culturale; ora in Albania si può leggere Dostoevskij senza tema d’incorrere in punizioni o riprovazione sociale; ora si può riuscire a non emigrare anche se gran parte della generazione che va dai 30 ai 50 anni s’è perduta nei meandri della diaspora e di tanti, troppi pregiudizi altrui; ora si può anche giocare a basket con uno spirito nuovo, come quei ragazzi da me visti, che forse non avevano le scarpe ultimo modello dei coetanei italiani, ma che con lo stesso accanimento, lo stesso impegno, la stessa felicità tentavano, ai bordi di una strada abbacinata dalla luce a Tirana-Teheran, luogo a cavallo di più mondi, su un campo di cemento d’infilare il canestro. Un canestro di sogni.


Alberto Figliolia

(da 'l Gazetin, ottobre 2005)

 
 
 
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