Un ragazzo nato in Italia da genitori immigrati si butta dal balcone e muore. Qualcuno dice che lo avrebbe fatto anche se i compagni lo avessero deriso chiamandolo “ciccio-bomba”. Può darsi, ma lui lo ha fatto perché gli dicevano continuamente “checca”; e questo basta a farne giustamente un caso che va al di là di una drammatica crisi adolescenziale.
Quello anti-omosessuale non è solo il pregiudizio più diffuso: è anche per una parte cospicua della società italiana un pregiudizio fondato e, per così dire, difendibile. Non sono solo pochi bulli o pochi violenti a definire l’omosessualità come una condizione sbagliata, immorale e malvagia da imputare a quanti si macchiano di questa “colpa”. Non sono solo pochi naziskin a ritenere e a denunciare la pericolosità o l’inferiorità di questa particolare e “innaturale” condizione umana. Non sono solo pochi invasati a ritenere che le “checche” meritino tutto sommato l’isolamento morale e materiale che il pregiudizio crea intorno a loro e alla loro, moralmente contagiosa, “malattia”.
Il suicido del giovane di Torino (insolentito e deriso dai suoi compagni perché gay) è un episodio drammatico anche perché si inscrive in questo quadro di banale e ordinaria discriminazione quotidiana.
Tutto questo riguarda anche la politica e il modo in cui essa tocca e tratta (sul piano normativo e sul piano simbolico) le questioni omosessuali.
Benedetto Della Vedova
(per 'l Gazetin, aprile 2007)