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Il sicomoro e la polvere di stelle 
Ovvero del perché le giornate africane siano così diverse l’una dall’altra
07 Aprile 2007
 

Non so ancora spiegarmi il motivo che rende le giornate africane così diverse l’una dall’altra. Voglio dire che non è come in Europa, dove, in certi periodi, si susseguono giorni molto simili tra loro, parlo di quei giorni che passano in fretta, quelli che si assomigliano e finiscono per non essere ricordati. È forse per questo curioso avvicendarsi di giornate diverse che il tempo, in Africa, sembra scorrere più lentamente che altrove, in perfetto accordo con i movimenti lenti della sua gente.

Sta di fatto, che ricordo bene, fin nei minimi particolari, quella mattina, quando mi ero svegliato presto e mi ero appena divorato un mango maturo al punto giusto, tagliato come si deve, per poi godermi l’aroma del classico caffè etiopico sulla terrazza, esposta a Sud Est, con il sole già caldo, appena sopra l’enorme Euforbia splendens, a lato del cancello d’entrata della mia casa, nella zona dell’aeroporto di Addis Abeba.

Fu proprio in quel momento, con il sole negli occhi, sorseggiando il caffè, che decisi di presentarmi alla prima lezione nella seconda classe del liceo scientifico, con un argomento inconsueto, uno di quelli che non si trovano sui libri di testo: “gli elementi chimici della vita e la loro origine nell’evoluzione dell’universo”.

Dovevo solo trovare due, forse tre frasi ad effetto. Avevo però poco tempo a disposizione, circa quaranta minuti, e dovevo ancora farmi la barba. Con la schiuma sul viso e le smorfie di rito di fronte allo specchio, riuscii a trovare la prima frase importante, prendendola in prestito da Gardner: «siamo polvere di stelle».

Mi sentivo già a buon punto.

Salii in macchina e poco dopo mi trovai sulla transitata Bole Road, la grande strada che collega l’aeroporto col centro della città, dove, in coda, preceduto da una lunga fila, di fuoristrada quattro-ruote-motrici e taxi FIAT scassati a scorrimento lento, cercai di stabilire la scaletta della lezione.

Mi venne in mente la seconda frase ad effetto: «un atomo di fosforo, oggi sul mio naso, potrebbe essere stato sulle code di alcuni dinosauri, solo alcuni milioni di anni fa».

Niente male, avevo pensato.

Intanto procedevo con l’ordine dei principali punti in cui avrei articolato la lezione:

-Il Big Bang.

Più o meno, 13 miliardi di anni fa.

-L’inflazione dell’universo

-Le prime particelle elementari, in gran parte annichilite dall’antimateria

-300.000 mila anni di nebbia profonda

-I primi atomi degli elementi leggeri: l’Idrogeno, l’Elio e poi tracce di Litio e Berillio.

-La formazione delle prime galassie di stelle. Ammassi d’Idrogeno e dei suoi isotopi: il Deuterio e il Trizio che si trasformavano in Elio producendo luce e calore.

-L’universo che si riempiva di fotoni

-L’energia che si liberava mostrando la bellezza del neonato universo anche se sfortunatamente non ci poteva essere nessuno in giro che lo potesse ammirare.

Si doveva attendere, pazientare l’inezia cosmologica di alcuni miliardi di anni.

-Finalmente l’implosione di alcune stelle creava la condizione delle prime fusioni nucleari e si creavano, quasi, 100 nuovi elementi, tra i quali il Carbonio, l’Ossigeno e l’Azoto.

-Le basi della vita si formavano nella fornace delle implosioni di grandi stelle e la loro esplosione li liberava nello spazio e nel tempo, dove avevano la possibilità d’interagire, di organizzarsi.

-Così, tra i residui di ciò che non era finito nel Sole, a seguito dell’esplosione di una grande stella, in una spirale, alla periferia della Via Lattea, si addensavano elementi pesanti, in grado di produrre la vita su un piccolo pianeta, il nostro.

-A questo punto mi potevo soffermare sul fatto che siamo stati generati dal sacrificio di una grande stella, alla quale non abbiamo avuto il coraggio di dare un nome: “siamo polvere di una stella senza nome” (potevo contare su una terza frase ad effetto).

Pensai di poter approfondire, colorire i singoli punti e magari dedicare all’argomento una serie di lezioni, attendendomi una reazione positiva da parte degli studenti, mentre oltrepassavo il cancello della Scuola Italiana di Addis Abeba.

Le guardie in uniforme militare, al cancello d’ingresso, mi ricordarono di essere in un Paese “a rischio attentati” mentre scrutavano la base dell’auto con uno specchio.

Parcheggiai la macchina nel piazzale ed entrai nella scuola, dopo un altro accurato controllo da parte delle guardie, passando anche sotto il metal-detector. Ricordo che mi fermai sotto il vecchio albero, un sicomoro, di fronte al campo di calcio, dove raccolsi un frutto caduto dalla pianta.

Non era la prima volta che lo facevo, ma ogni volta, mi sorprendeva che semi grandi come una capocchia di uno spillo avessero in sé tutta l’informazione necessaria per generare uno dei più grandi alberi del nostro pianeta.

Pochi minuti dopo mi trovavo già in classe a compilare il registro.

Annunciai, con un certo orgoglio, l’argomento del giorno e iniziai la spiegazione.

Nei primi minuti, credo di non aver commesso errori. Stavo rispettando con la giusta severità la scaletta studiata in precedenza e come spesso accade quando un insegnante affronta un argomento che ama più di altri, riuscivo a trovare senza difficoltà, quasi per magia, le parole e le frasi giuste, evitando inutili e stancanti ripetizioni.

Insomma, tutto stava andando nel verso giusto.

Del resto dovevo ancora arrivare a quello che consideravo il momento centrale della lezione, quello in cui avrei pronunciato le frasi ad effetto.

Prevedevo un chiaro successo, ma solo poco dopo, proprio nel momento in cui pronunciai la prima delle frasi studiate, seguita, come sul più classico dei palcoscenici, da un preciso, pensate silenzio, giusto per esaltarne l’importanza, mi accorsi che alcuni studenti, un gruppetto, sulla mia destra, stava rumoreggiando.

Parlavano tra loro.

M’innervosii.

Non riuscivo a capire se si fossero messi a discutere sull’argomento trattato o se fossero tanto disinteressati della lezione da parlare d’altro.

Feci finta di niente e continuai a spiegare. Ma quando arrivai a parlare dei dinosauri, del loro assoluto dominio sulla Terra per 120 milioni di anni e del nostra brevissima esistenza sulla Terra vidi una ragazza farsi il “segno della croce”.

Le chiesi il motivo del suo gesto.

Lei, senza esitare, mi rispose di non credere ad una sola parola di quello che stavo dicendo e che anche molti dei suoi compagni la pensavano allo stesso modo.

Uscii dalla classe e mi diressi senza esitazioni verso la presidenza.

Sapevo che quello che mi era accaduto poteva anche considerarsi normale in un altro contesto, ma lo ritenevo un atteggiamento assurdo tra le mura di un Liceo Scientifico. Ho subito pensato che superstizione e religione fossero, ancora una volta, riuscite a far penetrare i propri tentacoli all’interno di quello che avrebbe dovuto essere una scuola di scienza. Mi sentivo piuttosto male quando mi presentai di fronte al Preside spiegandogli l’accaduto e chiedendogli un generico aiuto.

Lui mi ascoltò con pazienza, quindi mi fece segno di seguirlo.

Tornammo in classe, dove, iniziò a parlare dei Testi Sacri.

Parlò anche di Giosuè e del suo: «fermati o sole» che aveva creato, per secoli, non pochi problemi a molti scienziati. Accennò al fatto che la chiesa cattolica aveva accettato, nel 1964, la teoria del “Big Bang”. Concluse il suo preciso intervento, sottolineando l’importanza della scienza nello sviluppo della società moderna.

Quando se ne andò mi ritrovai, di nuovo solo, di fronte alla classe rimasta in silenzio.

Terminai la mia lezione con precisione ma senza più alcun entusiasmo e poco dopo suonò la campanella.

Uscii e mi misi a sedere sulla panchina nel giardino della scuola, dove mi accesi una sigaretta.

Alzai gli occhi verso il vecchio sicomoro, pensando al suo minuscolo seme che racchiudeva in sé un progetto tanto maestoso e a come le giornate africane fossero così diverse l’una dall’altra o, almeno, quel tanto che bastava per poter essere ricordate.

 

Piermario Puliti

(per 'l Gazetin, aprile 2007)


 
 
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