Avrei voluto vedere voi, cazzo. Altro che mani tra i capelli. Mi sveglio ed è accanto a me, quella fottutissima troia. Sdraiata su di un fianco che neppure mi guarda in faccia. E io che lo vedo soltanto adesso quel maledetto segno. Chiaro, inequivocabile, impresso sul dorso della mano. È proprio lui. C’è poco da fare.
Tutto per colpa di una festa. Una festa di compleanno.
“Vieni anche tu Alejandro che ci divertiamo” dice Paco.
“Suoniamo per degli amici” aggiunge Pablo.
È una cosa senza compenso, non sono mica stranieri e neppure padroni di una paladar. Solo ragazzi che festeggiano un compleanno ballando e bevendo rum.
“Perché no” dico.
Mica suono per soldi. Certo i soldi non è che mi facciano schifo, ce n’è sempre bisogno, però mica sono l’unico motivo per cui faccio le cose.
Così ci andiamo. La festa è dalle parti di Centro Avana, un appartamento al settimo piano di un condominio senza ascensore. È una fatica anche portare strumenti e attrezzatura per il concerto.
“Dopo tutte queste scale ci vuole una bottiglia di rum” dico al padrone di casa, un nero che dai capelli mi fa venire a mente Bob Marley.
“Serviti pure” risponde.
Oggi è un giorno speciale e non manca niente. Soprattutto il rum. Come siano riusciti a procurarsi tutta quella roba è un mistero che si chiama ingegno avanero. Su di un tavolo vedo bottiglie di Caney e Cubay, persino Havana Club recuperato chissà dove, poi cispe bianco da pochi pesos in gran quantità. Accanto ci sono tartine e tramezzini, panini al prosciutto, crocchette, insalata di pasta e una torta di meringa.
“Chi è il festeggiato?” domando.
“Io” risponde una mulattina dagli occhi chiari.
Bella. Bella davvero. Resto senza parole appena la vedo.
“Bene. Sono contento di essere venuto. Io sono Alejandro e suono la batteria. Tu come ti chiami?”
“Carina” risponde.
“Di nome e di fatto” ribatto.
Lei sorride.
“Cosa suonate?” domanda.
“Quello che vuoi, chica. Sei tu la festeggiata” rispondo.
Lo saprei io cosa suonare, penso. E le guardo il culo. Un sedere che parla. Alto, rotondo, si muove seguendo il ritmo del corpo e una musica che sale da dentro.
“Fate pezzi moderni?”
“Certo che sì. Dimmi cosa ti piace”.
“Paulito, Manolin, salsa veloce…”
Ci avrei scommesso - penso - e andiamo con Paulito come sempre…
“Paco, attacchiamo con La speculacion de L’Avana” dico al cantante.
Lui mi guarda allibito.
“Paulito?” chiede.
“Paulito. Che c’è di strano? Non hai mai cantato Paulito?”.
“Come no? Ma avevamo detto di fare il nostro repertorio”.
“Lo faremo. Intanto cominciamo con Paulito per scaldare l’ambiente”.
“L’ambiente o la mulattina?” fa Manuel mentre estrae la tromba dalla custodia.
Lo fulmino con lo sguardo. Manuel ha capito tutto. Non è difficile, certo.
Speriamo che serva, almeno. Penso mentre comincio a suonare. Mi faccio un po’ schifo certe volte. Un culo mi fa mettere da parte tutte le mie idee sulla musica. Niente rock, reggae e son tradizionale. Per un culo suono anche Paulito. Quando attacchiamo Carina si ferma per un po’ e mi guarda estasiata, poi si mette a ballare con i ragazzi della festa e segue le parole di Paulito. Parole, via non esageriamo. Quella roba là. Però lo vedo che i suoi occhi sono tutti per me.
Mangiamo la torta, stappiamo lo spumante, beviamo rum.
A un certo punto ci ritroviamo tutti ubriachi, come da copione. Qui non pagano e allora almeno una sbornia ce la dobbiamo prendere. Una sbornia e una bella mulatta dal sorriso luminoso. Almeno spero.
Felicidades… Felicidades… Felicidades…
Quante volte lo abbiamo già cantato?
“Quanti anni compie questa bellezza?” chiedo.
“Venti” risponde Carina.
“Sono contento di aver accettato di suonare” dico.
“Perché?” chiede lei.
“Sono venuto al compleanno di una delle più belle ragazze dell’Avana”.
Le parole non mi mancano. Può mancarmi tutto ma non le parole. Fidel quelle non le mette a libreta, pare. Qualcuno ha detto che chi scrive non vive. Grande cazzata da europeo represso. Io scrivo e vivo, anzi se non vivo non so che scrivere. So parlare soltanto di me e di quel che mi accade. Quindi…
“Fate un po’ senza di me” dico agli altri.
“Continuo con Paulito?” mi chiede Paco.
“Si domanda?”
Balliamo al ritmo di una squallida salsa commerciale che tamburella ossessiva Ina pa’ l’esquina / Ina pa’ l’esquina… guarda cosa mi tocca fare per portarmi a letto una mulattina. E cosa faccio fare anche agli altri. Siamo venuti qui per suonare rock puro e ci ritroviamo in mezzo a questo squallore. Ci sarà da sentirli se vado in bianco. Questo pare difficile, però. Mi accorgo che Carina ci sta. Allungo le mani e scendo a palparle il fondo schiena mentre lei lo dimena al ritmo di quella stupida salsa. Ina yo no tengo nada que ver con la coca… Ina yo no tengo nada que ver con la coca… anche io non ho niente in comune con questa musica, solo un culo. E adesso lo stringo forte tra le mani.
Finiamo a letto, mentre la sala è piena di ubriachi che ballano Paulito e adesso mi pare anche La Charanga e cose simili. Il pubblico non sarebbe in grado di apprezzare il rock. Non adesso. Non con tutto quel rum in corpo. È Carina che mi prende per mano e mi trascina in una stanza vicina. Mi spoglia, poi anche lei si toglie i vestiti. Siamo al buio e ci gettiamo sul letto senza pensare. Non aspettavo che questo, stasera.
Adesso però sono qui con le mani tra i capelli. Altro che culo. Altro che Paulito. Stupida troia e stupido anch’io che ci sono caduto. Ha un cuore con una croce tatuato sul dorso della mano che prima non avevo visto.
“Puttana!” grido.
Lei si sveglia. Pare non capire.
Io la colpisco al volto con uno schiaffo.
“Che cazzo…” dice lei.
La butto giù dal letto. Comincio a prenderla a calci e grido.
“Maledetta puttana! Perché non sei a Los Cocos con gli altri appestati?”
Ha l’Aids. Il tatuaggio non mente.
Lei si alza dolorante. Piange.
“Non colpirmi ancora, ti prego” supplica.
“Meriteresti che ti uccidessi” grido ancora.
“Calmati. Non sono contagiosa. Davvero” dice.
“Chi me lo assicura?” chiedo.
“Il tatuaggio. La vedi la direzione della freccia?”.
Mi spiega che il tatuaggio vuol dire che lei ha l’Aids ma non può trasmetterlo.
“Non ti accadrà niente” conclude tra le lacrime.
Può dire cosa vuole ma io non sono tranquillo. Mi rivesto in fretta e me ne vado da quella casa con il diavolo in corpo. Gli altri mi chiedono della mulatta, com’era a letto, come lo abbiamo fatto. Io non rispondo. Non mi va di parlare, non dopo quello che è accaduto.
“Mica sarai innamorato?” chiede Armando.
Continuo a tacere.
Altro che innamorato. Sono incazzato. Incazzato e preoccupato. Penso.
Sto male una settimana. Faccio tutti gli esami. Non scrivo una riga in quel periodo. Non studio. Ricomincio a vivere soltanto dopo il responso. Quando lo vengo a sapere per prima cosa mi prendo una bella sbornia. Negativo. Per fortuna. La mulatta non poteva trasmettere il virus.
Soltanto allora racconto tutto agli amici.
“Ti è andata bene” commenta Manuel.
“Hai capito la mulattina…” aggiunge Pablo.
“Mi ha fatto anche cantare Paulito” conclude Paco.
Armando mi prende la testa tra le mani e fa cenno di suonarla con le maracas come fosse un timbal.
Cazzo, mi è andata bene sì. Però la ricordo ancora quella mattina con le mani tra i capelli. Avrei voluto vedere voi al mio posto.
Alejandro Torreguitart Ruiz