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Ivana Cenci: Sul genio e la creatività femminili, ovvero riconsiderazioni sull’Amore a partire da Diotima
Diotima
Diotima 
05 Aprile 2007
 

 

Colgo volentieri l’opportunità di inserire e valorizzare i contenuti del volume intitolato Diotima e la suonatrice di Flauto, (La Tartaruga, 2004) un atto tragico di Ida Travi, gentilmente offertomi dall’autrice stessa, quale strumento di lavoro e pretesto di scrittura lungo il percorso dedicato al genio e alla creatività femminili che sto svolgendo insieme ad un gruppo di ricerca di Giardino Freudiano.

Il proposito è quello di mettere in luce la figura, il lavoro e la testimonianza di donne che, con la loro opera, hanno dato o danno un contributo significativo alla formazione e all’evoluzione della cultura e del pensiero del loro tempo.

Dando ascolto alla provocazione suscitatami da questo testo, che mi interroga profondamente in quanto essere chiamato a cogliere il senso della propria esistenza, e quindi anche in quanto donna, inserita in un tempo e in una realtà socio-culturale che sono il frutto di una civiltà che si interroga da millenni, e alla quale alcune risposte fondamentali risultano ancora mancanti, mi avventuro lungo un percorso volto a valorizzare la capacità, il coraggio, la tenacia che hanno avuto, che hanno certe donne di inventarsi delle strategie e creare le condizioni per realizzare un’opera di civiltà.

Trovo che riconoscere e riconoscersi nella condizione femminile, senza ravvisare in questo una preclusione, una difesa o una forma di strumentalizzazione rispetto a quella maschile, possa darsi come un’opportunità da cui partire per dar vita ad un percorso costruttivo e innovativo che osi testimoniare, a se stesse e al mondo, una scelta non rinunciataria, capace di uscire dai confini e dalla garanzia del facile consenso e del già acquisito e confrontarsi con le difficoltà, inevitabili, che qualsiasi cammino di vita comporta, il che equivale aprirsi al rischio di una riuscita mancata o necessariamente parziale.

Sotto questa luce, mi ha suscitato ammirazione e stupore la soluzione-invenzione che Ida Travi è riuscita ad escogitare e a mettere in atto per poter esprimere un aspetto della condizione femminile tutt’oggi poco indagato: un aspetto che ha a che fare con la dimensione d’amore e con la particolare natura, propria della donna, che la fa essere procreatrice di vita e istintivamente portata a nutrire la vita. Osservo in proposito che già all’interno del testo da cui l’autrice trae spunto per il proprio lavoro, il famoso Simposio di Platone, compare, attraverso le parole di Socrate, una figura fuori campo sotto molteplici aspetti, portatrice di una sostanziale novità rispetto alla concezione dell’amore come appropriazione di una proprietà tra un soggetto e un oggetto, come mezzo per arrivare alla scienza del bene, del bello e del vero Si tratta di Diotima, una donna che Socrate definisce sua maestra d’amore e, a partire dai suoi insegnamenti, sconvolge le tesi sostenute dai commensali. Diotima, portando in sé l’esperienza di chi ama e ama da una posizione femminile, inaugura lo scambio aperto dal senso di mancanza., testimonia nella propria carne il riconoscimento che c’è altro da sé, che in virtù di questo altro il suo essere è influenzato e in continua interazione, dipende e ne dipende la sua felicità. Amore diventa dunque riconoscimento dell’altro, ammissione della mancanza, apertura, precarietà, esperienza di scambio, attesa ed irruzione dell’altro.

Trovo che riuscire a mettere il dito su un punto tanto delicato, certamente noto, ma credo poco indagato, che ci riguarda tutti ma che investe in maniera esponenziale la condizione femminile, da sempre ritenuta mancante e indicata come passiva, sia un gesto che permette di far uscire dal tabù una sfera di esistenza e di vissuto estremamente intima, fondamentale e fondante, che solitamente le donne (e sicuramente anche molti uomini) scelgono di dirimere in proprio e rispetto alla quale preferiscono ritenere che non ci siano strumenti o risorse da condividere con altri.

Quello su cui vorrei investigare, spinta dalla provocazione offertami da Ida Travi, riguarda l’impasse, tremenda e dilaniante in cui si trova incuneata la donna nel momento in cui o in ragione del fatto che nello svolgere la sua funzione di donatrice di vita sente non più riconosciuto o non sufficientemente apprezzato il dono di sé e il proprio apporto come individuo, non sostenuta la sua istanza di mantenere salva la propria identità, che rischia di essere fagocitata nel suo dare e nel farsi nutrimento per la vita.

Accade a molte donne, è quasi un luogo comune, di non trovare adeguato riconoscimento e ricarica alle proprie risorse presso il compagno con cui vivono o nell’ambito del contesto in cui le hanno investite (e questo vale, ovviamente, anche per gli uomini che, per indole, per necessità o per scelta si pongano in analoga condizione), di sentire precluse o, per un insieme di cose, dover precludersi esse stesse altre vie per recuperarne.

Accade insomma che si trovino in difficoltà a proseguire il proprio mandato, che il loro procedere ad un dato momento incontri un corto-circuito e che entrino in una conflittualità che le porta a rivoltarsi contro se stesse, contro i propri figli, se hanno fegato forse anche contro il proprio compagno, talvolta eccedendo a dismisura: spesso contro il frutto della loro fatica, trasferendo la rabbia e il dolore dovuti alla loro sensazione di impotenza sugli oggetti, le creature o i rapporti cui hanno dato vita e volgendo la loro natura creativa in potenzialità distruttiva.

Mi incuriosisce indagare, ad esempio, poiché è un’esperienza che ho vissuto e rispetto alla quale mi sono trovata spiazzata, come mai il rapporto fra amiche diventi spesso occasione e strumento attraverso cui dare sfogo alla propria scontentezza e, anziché valorizzarlo come risorsa di vita da incrementare e salvaguardare, le donne arrivino a svalutarlo, a ridurlo luogo di scarico di invidie e gelosie.

In questo ambito, che ho voluto approfondire proprio perché toccata da vicino, sono arrivata a formulare l’ipotesi che, dietro uno svilimento o un tradimento del rapporto con l’altra, o anche con l’altro, spesso si celi un venir meno della fiducia in sé, un cedimento rispetto a quel bene prezioso e fondamentale che è per tutti noi la fedeltà a se stessi e considerare che, sotto questo aspetto, per motivi forse strutturali, magari supportati da pregiudizi culturali o esperienze scoraggianti, le donne si sentano più vulnerabili. Forse anche per sfidare questo pregiudizio, rendere doveroso omaggio e trarre insegnamento dalle donne che non hanno ceduto a questa tentazione, avverto più che mai preziosa questa occasione di ricerca intorno al genio femminile, quale opportunità per valorizzare e dare risonanza all’esperienza di donne che, pur con tutta la sofferenza, le difficoltà e le amarezze che hanno incontrato, hanno saputo trovare la via per volgere la loro intelligenza, la loro inventiva e le risorse a fini costruttivi, innovativi, riuscendo a essere di aiuto e di esempio a se stesse, a chi sta loro vicino e all’umanità.

L’invenzione di Ida Travi, tradotta in una pièce di teatro ambientata nell’antica Grecia all’epoca di Platone, mette emblematicamente in luce un disagio, un vuoto esistenziale che trae origine da una condizione di esclusione realmente vissuta e sofferta da parte della protagonista, quella suonatrice di flauto della cui presenza si sono compiaciuti gli uomini mentre s’intrattenevano a mangiare e bere, e che poi hanno allontanato per poter discutere tra loro sull’argomento scelto per la serata. Questo disagio e questa esclusione, seppure riferiti a un contesto cronologicamente vecchio di 2500 anni, richiamano molto bene le discriminazioni e la solitudine che la donna continua ancor oggi a patire, non senza complicità da parte sua, ma certo non senza sofferenza. Un “confinamento" a se stessa, potremmo definirlo, che la donna vive in proprio, che presenta una nota distinta e aggiuntiva rispetto al dolore di esistere proprio di ogni essere umano e che è vissuto, da lei e dagli altri suoi simili come inderogabile e irrisolvibile essendo legato, da un lato al suo specifico essere donna, al compito che le è affidato di tramandare la vita e di attendere a un’efficace salvaguardia e sostentamento della stessa, dall’altro, al suo bisogno-condizionamento, per certi versi sicuramente anche compiacimento di mantener ferma la millenaria tradizione del rilegamento in quel ruolo. Come se lì ella trovasse garanzia di un godimento intoccabile il cui diritto è universalmente sancito e, insieme, un argine che la pone al riparo dalla necessità di esporsi a rischi e incertezze con cui non si è mai seriamente confrontata e che possono presentarsi come fortemente inquietanti e spiazzanti, sicuramente scomodi, senza la prospettiva di valide motivazioni a sostenerli.

Se diamo uno sguardo alla condizione esistenziale della donna, tenendo conto di questa realtà così antica e così strutturalmente complessa, e della complessità e complicità di interessi che vi ruotano intorno, ci rendiamo conto di come mai il cammino compiuto dall’umanità nel corso dei secoli non sia riuscito ad apportare rimedi o cambiamenti sostanziali. E come non sia possibile pensare che ciò possa accadere limitandosi a considerare il problema sul piano del diritto.

Vero è che per la donna, fare i conti con le istanze relative al proprio essere come individuo e al proprio narcisismo comporta ancora oggi, nonostante i progressi e lo smascheramento di tanti pregiudizi, la necessità di scontrarsi, se non con i vincoli veri e propri, che sicuramente sono mutati, con i loro fantasmi e il persistente pregiudizio di non poterli affrontare in prima persona o da sola.

È come se si presentasse, sullo sfondo, una sorta di antro opaco, una caverna oscura che la donna, di qualsiasi epoca e posizione sociale deve per necessità di cose incontrare e attraversare nella sua vita e nella quale, anche colei che si ritiene più evoluta ed emancipata, può rischiare di inabissarsi.

E sembra che ciascuna debba inventarsi un proprio modo, ricorrendo a un’arte, a stratagemmi, a risorse improvvisate o trovate cammin facendo, coniugando l’istinto con l’intelletto e la razionalità, per non inabissarsi e non rimanere imprigionata in quel tunnel.

In questa pièce, ambientata ad Atene nel V sec a. Ch. sono evocati i fatti che accadono fuori dalla casa di Agatone, fatti puramente immaginari, ipotizzati dall’autrice a partire dal momento in cui la suonatrice di flauto viene allontanata dal simposio, mentre gli uomini si intrattengono a disquisire sull’Amore. Di quel che accade alle due donne, la suonatrice di flauto e Diotima, non sappiamo nulla. L’autrice si è quindi inventata uno stratagemma per farle rientrare in scena, quasi a colmare la lacuna, oggi imperdonabile, lasciata sul prosieguo della loro vicenda, sul loro sentire e sul loro dibattersi, da sole, intorno al tema e al convito da cui sono state escluse e in seno alla realtà in cui si trovano avviluppate.

Proprio a partire da questa esclusione, senza esprimere giudizi, e senza far ricorso ad accuse, Ida Travi sente l’urgenza di restituire a queste due donne l’opportunità che è stata loro negata: quella di poter parlare, dialogare, esprimere il proprio sentire e confrontarsi con altri.

E lo fa immedesimandosi nella loro condizione e prestando loro la voce: una voce che appartiene, ovviamente, ad una donna e autrice dei giorni nostri e che mette in evidenza come le due protagoniste se ne escano, in rapporto alla propria vicenda e ad una apparentemente analoga condizione di esclusione, in maniera completamente diversa, in virtù di una diversa consapevolezza e di una differente capacità di elaborazione delle proprie questioni e della propria posizione.

Mentre, infatti, la suonatrice di flauto non può far altro che soccombere, non essendo riuscita a trovare per sé una collocazione altra che quella di figlia, ragazza, per quanto madre, che aspetta e patisce la mancanza d’attenzione del proprio compagno, e nel darsi la morte trova quindi l’unica forma di espressione al proprio disagio, Diotima si propone come donna, capace di bastare e badare a se stessa e, nel fare questo, diviene capace di comprensione e accoglienza anche verso l’amica.

L’esito finale è tragico, come si addice alla tragedia greca e all’epoca in cui è ambientata la vicenda, e va riconosciuto all’autrice il merito di aver saputo resistere alla tentazione di trovare un lieto fine consolatorio, come ci si potrebbe aspettare e come tanto si vorrebbe, a comprovata testimonianza della evoluzione dei tempi: una rassicurazione che avrebbe sicuramente sminuito la portata di denuncia del testo, e dunque l’intento e l’urgenza che stanno alla base di questo lavoro.

Possiamo senz’altro osservare che ai giorni nostri le possibilità per la donna di trovare spazio al proprio dire e di essere artefice del proprio destino sono infinitamente più ampie e riconosciute, senza che questo indichi una qualche possibilità di esenzione, per ciascuna donna e per ciascun individuo, dalla necessità di assumere in proprio la responsabilità di elaborare e individuare una propria posizione in seno alla società. Occorre tuttavia ammettere la constatazione dell’atto di denuncia che l’autrice compie, in maniera assai efficace, pertinente e contestualizzata, che ci fa sentire esposti, tutti, ad un interrogativo inquietante e irrisolto, che concerne le nostre origini, il desiderio da cui siamo nati e il nostro essere qui, il nostro relazionarci con il mondo e la capacità di confrontarci, individualmente e senza paraventi con noi stessi e con l’altro sesso, alla luce di una sete di sapere e di capacitarsi che non ammette ignoranza e pregiudizi e, per essere ascoltata, chiede coraggio e sincerità fino alle estreme conseguenze.

Un gesto di consapevolezza, quello di Ida Travi, che attesta il pieno riconoscimento di una condizione, il coraggio di indicarla e di chiamare ciascuno, se stessa per prima, a un confronto ineludibile. Per certi versi, anche l’ammissione di una inevitabile sconfitta, di fronte a una realtà tanto prevaricante ma che, proprio per la lucidità e onestà con cui è stata indicata colloca, di fatto e a pieno titolo, l’autrice all’interno di quel simposio da cui i suoi personaggi sono stati esclusi.

Chi più e meglio di lei, infatti, avrebbe saputo apportare, all’interno del discorso degli uomini che si dilettano a parlare d’Amore, testimonianze e conoscenze che vengono dall’esperienza, da un sapere che ha attraversato la vita e che per ciò stesso mette quell’amore in discussione e in divenire senza sosta?

Una Lei che, mentre gli uomini si intrattengono a parlarne, l’amore è chiamata a viverlo, a trarlo da sé e perfino a inventarlo, per far sì che il frutto che viene dalle sue viscere, oltre che dall’ingegno e dalla sua dedizione, non abbia a morire o a essere negletto o nullificato, perché la sua fatica si faccia apporto e strumento di vita e non soltanto, senza precluderne l’adeguatezza, puro oggetto di disquisizione estetica.

 

Ivana Cenci


Foto allegate

Edizioni La Tartaruga, Euro 10,00
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