Il poeta, nato il 9 maggio 1966, vive a Creazzo (VI) e frequenta il laboratorio di Lettura poetica da quattro anni. Fin da giovane appassionato musicista, ora pentito (ma nonostante tutto ancora in attività), ha gradualmente unito a questa passione l’interesse per la botanica e il giardinaggio e in seguito quelli per la fotografia e per la scrittura. Tali passioni convivono nel suo animo e si integrano a vicenda con entusiasmo. (Ivana Cenci)
I CONDIZIONATORI
I condizionatori, per me,
potrebbero scoppiare
magari improvvisamente
tutti insieme
in una notte ferragostana;
un boato all’unisono
che ci renderebbe liberi.
Divelte le ventole
Si riaprirebbero nuovamente le finestre mentali
Si cercherebbe refrigerio
Tra le fronde sane
Andrebbe a scomparire quel vrooom di sottofondo
Ed altri suoni dimenticati
Farebbero la loro ricomparsa.
I condizionatori, invece,
ci parlano
ci raccontano che abbiamo bisogno di loro
che non riusciremmo a sopravvivere
senza il loro lavoro
e, quel che è peggio,
è che noi ci crediamo.
IL PRESENTE
Le lucciole
m’inviano messaggi morse
richiamandomi all’ordine
qui ed ora.
Le cicale,
in questo bosco di lecci,
mi cantano
una ninna nanna
alla panna
da assaporare beatamente
qui ed ora.
L’ISOLA
Nell’isola s’attesta il sommo frinire
non la vacua modernità che intendo
un lume, un soffice nembo
s’incunea e grava
d’idee mai a perire.
È lo stato negletto
di solitaria ritrosia pagana
un palpito, un passo lieve
che sublime
m’accoglie nel letto.
Quell’isola che scorgo a ogni piè sospinto
s’intende del luogo romeo
del riarso imprecare scorato
dei passi, mai soli
benché sempre monaci.
BRUME
Cala ancora il sipario
e storpia gli alpestri sogni
affetta gli alberi corazzati
ridisegna il gorgoglio lontano.
La nebbia
i ricordi dei ricordi dei miei avi
il fumo di inetti pensieri
un mistero soffuso
il velo da sposa
l’idea retrograda dei servitori della gleba.
RECENSIONI E COMMENTI SULLE POESIE DI ALESSANDRO BEDIN
Per Alessandro Bedin “il presente” è la cosa più urgente da vivere. È “un presente” attestato su “l’isola”, bella, ma troppo piccola. Un presente che cammina con “un passo lieve” ma “grava d’idee mai a perire”. “Il presente” manda silenziosi “messaggi morse” attraverso “le lucciole” (vedere) e “le cicale”, che “cantano” (sentire), una richiesta di aiuto. Quello di far sopravvivere il suo presente. A patto che “le lucciole” fossero LUCE forte dove illuminare un cammino incerto. E le “cicale” URLI. Il messaggio è quello di far sapere che è ancora vivo. Per esprimersi in una malinconica musica blues o in un gioioso “charleston”. Si, credo, non si potrà più credere ai “condizionatori” ne ai condizionamenti. Avevo bisogno di questa poesia per fare una riflessione, dove credere che “il mistero soffuso” de “i ricordi dei ricordi”, “il velo di una sposa” o un amore non detto esplicitamente potranno essere disinnescati per non aver paura di valere e volere che i sentimenti siano detti, le emozioni, manifestate. “ L’isola” è troppo stretta, pare soffocare dentro “l’idea retrograda dei servitori della gleba”, dentro “brume”. Travestirsi da “monaci”, cercare interiormente un silenzio con cui ascoltarsi per riuscire a liberarsi da “condizionatori” trovare una possibile libertà che fa scoppiare i condizionamenti.
Gianluigi Cannella
In Alessandro Bedin c’è l’impulso ancestrale, l’energia vitale che dovrebbe dar moto al respiro di ogni essere umano.
Egli denuncia il degrado, l’implodere di una natura esposta alla violenza, all’insaziabile potere di un dominio antropomorfo dilagante, rumoroso.
Attiva con i testi la riflessione, tenta di disinnescare un congegno infernale che addomestica la specie, la “condiziona” ad un’aria artificiale che lascia alle spalle “gli alpestri”, la vita dura ma libera e pura degli “avi”, i colori del “bosco di lecci” o il semplice ma misterioso alfabeto morse delle lucciole.
Giordano Montanaro
Penso che nella scrittura di Alessandro Bedin s’intravedano le domande angoscianti del proprio io nell’incidere di un presente sempre più grigio, avvolto in una nebbia che trascina malinconici ricordi.
Nei “Condizionatori” c’è un’improvvisa ribellione alla tecnica che uccide lenta tutti i giorni ma il disincanto dura poco. Perché, ironia della sorte, è la stessa tecnica a sussurrarci quanto abbiamo bisogno di essa nel crederci ogni giorno per sopravvivere senza ritirarci in isole artificiose.
Marco Rampon
L’accostamento delle prime due poesie proposte da Alessandro Bedin dà vita ad un dittico le cui parti, fronteggiandosi, delineano due situazioni antitetiche: il malefico ne “I condizionatori” –l’invasione tecnologica che ci dis-umana, e il benefico ne “Il presente” – il contatto con la natura che ci ri-umanizza.
Il primo testo è dedicato al condizionatore: un insolito soggetto poetico, insolito perché antilirico, messo a tema non con l’intento “futurista” di celebrarlo ma con l’urgenza di farne un controcanto. L’ispirazione poetica è sollecitata dalla sensazione auditiva di fastidio che il rumore dei condizionatori genera; il molesto suono è sintetizzato dall’onomatopeico vroom (v. 12), che dal cuore della poesia riverbera sugli altri versi la sua cacofonia: si noti, in particolare, l’allitterazione al v. 8 divelte le ventole. La macchina martella non solo il nostro orecchio, ma anche la nostra mente, e ci convince della sua indispensabilità (vv. 15-21); unica soluzione è la sua distruzione, in uno scoppio finalmente liberatorio (vv. 1-14).
La realtà vagheggiata ne “I condizionatori” – ovvero una vita senza l’infernale presenza delle macchine refrigeranti, in cui ci si senta liberi (v. 7) e in cui si riscoprano fronde sane (v.11) e suoni dimenticati (v.13) – questa realtà vagheggiata diventa realtà possibile nella seconda prova poetica, “Il presente”. Il poeta, immerso nella natura, vive una bucolica beatitudine; ritrova il gusto della dimensione presente, hic et nunc (vv. 4, 11 qui ed ora), il gusto dell’irripetibile, in contrasto con l’anonima ripetitività dei meccanismi tecnologici. I condizionatori lasciano il posto alle lucciole (v. 1), alle cicale (v. 5), al bosco di lecci (v. 6). Soprattutto, a quel vroom di sottofondo (v. 12 della prima poesia) si oppone la ninna nanna (v. 8) delle cicale, talmente dolce all’udito che con gesto sinestetico è associata al sapore della panna (v. 9). Come il vroom de “I condizionatori”, anche la parola-suono ninna nanna sparge la sua eco nel testo, creando un effetto questa volta eufonico: a richiamarsi sono le consonanti morbide “m” e “n”, come mostra il v. 2 m’inviano messaggi morse.
La poesia di Alessandro Bedin, musicista, sembra trovare nel suono – sia esso alienante rumore del progresso o riposante canto della natura – una zona privilegiata da cui trarre suggestioni poietiche.
Romina Elia
Alessandro Bedin in questi componimenti fa un’analisi selettiva del mondo in cui vive: guarda fuori dalla finestra delle proprie certezze e scopre un paesaggio desolante, fatto di macerie, vecchie glorie che hanno perduto del tutto la brillantezza originaria.
L’uomo all’interno di questo contesto decadente appare per quello che è: un inetto, incapace di comprendere quali sono le linee guida dell’esistenza.
L’autore fin da subito si dissocia, prende le debite distanze dalla follia opprimente della società, preparandosi all’inevitabile scontro.
La forza con cui fronteggia la mediocrità, i luoghi comuni, i falsi valori imposti dalla tradizione, scardina dalle fondamenta quel modus vivendi fatto di frenesia, egoismo, ignoranza.
Senza mezzi termini il poeta si scaglia contro la modernità, interpretata da “i condizionatori”, che nella loro concreta riferibilità rimandano alle miserie dell’intelletto umano, che si circonda di futilità.
Si ode intenso il grido della Terra martoriata che si trascina dietro il triste destino dell’uomo, per lo più immerso nel buio della sua ottusa cecità.
E la natura stessa parla sotto forma di “lucciole”e “cicale”, richiama all’ordine, quello abbandonato nel nostro irreale cammino quotidiano. In “brume”, si indica la causa dei nostri mali nella continuità con il passato, base di partenza dello squilibrio. In “isola” è forte l’immagine della solitudine nella moltitudine, condizione chiave dei nostri tempi in cui troppo spesso ci imbattiamo in “quei passi, mai soli / benché sempre monaci”. La speranza che può salvarci da “l’idea retrograda dei servitori della gleba”, seppur lontana, va ricercata in quel “palpito, il passo lieve / che sublime / m’accoglie nel letto”.
EloZ (poeta)
La nota di fondo di queste belle poesie di Alessandro sembra essere la nostalgia: di chi o di cosa non è facile a dirsi; ciascuno lo coglie a suo modo purché disposto a sbirciare, tra una piega e l’altra, dietro il sipario delle parole; con l’umile consapevolezza che esse “lavorano” chi legge quanto chi scrive.
La lettura ripetuta di queste poesie mi ha dato ogni volta la stessa sensazione, ossia che la nostalgia sia quella di un “luogo” perduto, molto più che di un “tempo” passato. Scorgo rapidamente questo luogo nostalgico in ognuna delle quattro poesie. Ne “I condizionatori”, Alessandro muove un attacco a questo mondo tecnologico, auspicando il ritorno a un altro mondo, un altro luogo, dove «Si cercherebbe refrigerio Tra le fronde sane/ Andrebbe a scomparire quel vrooom di sottofondo/ Ed altri suoni dimenticati/ Farebbero la loro ricomparsa».
La poesia “Il presente” ci parla di un bosco di lecci dove «Le cicale… mi cantano una ninna nanna… da assaporare beatamente». Ne “L’isola” è il titolo stesso a farsi luogo, luogo di deriva e galleggiamento, di esclusione e di accoglienza, dove «un soffice nembo s’incunea e grava d’idee mai a perire»; è questo il luogo dove l’idea dell’essere germina e si perpetua, da dove si può udire «un palpito, un passo lieve», quel luogo «che scorgo a ogni piè sospinto… del riarso imprecare scorato dei passi».
L’ultima poesia, “Bume”, è quella che trovo più bella e si presta agevolmente a chiudere la lettura alle poesie di Alessandro: «Cala ancora il sipario/ e storpia gli alpestri sogni/ affetta gli alberi corazzati/ ridisegna il gorgoglio lontano». È un sipario che non nasconde una scena, ma ne apre un’altra, un sipario che cala non davanti a noi ma alle nostre spalle, sbarra la via del ritorno e separa per sempre; è forse questo il motivo per cui così spesso la poesia, con il suo lavoro di astrazione, tenta disperatamente di materializzare quel luogo mitico, originario… ed è anche l’esperienza che facciamo tutti i giorni quando ritiriamo i sensi dal mondo, e ci disponiamo a ricreare quell’ambiente dove, in un tempo senza tempo, ciascuno di noi è stato così bene, e dove, sembra dire il poeta, si perdono «i ricordi dei ricordi dei miei avi».
Carlo Romano
Ho sentito un senso di perdita in queste poesie, perdita come un non sentirsi all’altezza, perdita come perduto è ognuno di noi quando si sente per un po’ di un altro tempo e si trova costretto a vivere in questo che poi è l’unico che ci è dato. Spesso stomaca. Me lo fa pensare quel “NOI CI CREDIAMO” che tronca cattivo la strofa.
Poi però vorrei aggiungere che se anche un poco persa questa nostra non è una condizione di chi è battuto.
Penso: “Gesù quanto è grande la ‘modernità’ e quanto posto ha ancora” e allora lo dico per Alessandro e gli chiedo di rivendicare la speranza che poi è soffice come “la ninna nanna alla panna”.
Vedo incuneata una casina illuminata sullo sfondo ed è la sua isola. La speranza ha i colori di Magritte, ma con un condizionatore di sottofondo. Il condizionatore “vroom vroom” accade ora, le lucciole, tac tac ci parlano della via attraverso la quale succederà. Succederà in una “notte ferragostana” di entrare in un “bosco di lecci”, un istante e poi sentire le cicale. In fila come “monaci ritrosi” cammineremo verso un “letto pagano”. E potremmo chiedere nuovi oli ma chiederemo altre sere tiepide. E saremo un po’ meno soli. Sciolti i legacci ascolteremo i rumori, un po’ come in questo momento che sento un fresco “gorgoglio lontano” dietro, sulla schiena, su, su, in cima, in alto, tra le due scapole.
Marina Pigato