*
Il televisore è un taglio
un’amputazione testarda, quando netta
decapita e annulla un collo-
il capo suda il suo sangue- la gora
dalla bocca. Scomposta testa, deformata spostata
osserva il corpo appiattito, memorie segate,
nell’ultima volta per capelli
ripigliate; dopo che nelle ginocchia
un uomo ha sgolato tutta la pietà appresa
ad una mano, un muscolo antico e ircino
- al gesto. Sta lì in quella calura d’interiora
come una testa di toro
poggiata su un piatto, col muso naso largo,
fermata dall’atto
d’anima e di storia bruciate
da millenni d’anomico sole nel cielo.
*
Ancora fiato d’afa ed è già fine agosto.
Conficcati nell’auto, si va verso il mare serale
notturno di svaghi e passeggiate.
Dalla strada sconcerta all’improvviso, un greppo in fiamme
un bruciare d’ansia e un fumo che dice dell’estate
la tregua non data neppure alla notte; degl’alberi
lo sfigurare. Blu e bianche le sirene
un girare negli occhi, quei pompieri in cima e ai piedi
del crinale, invasi da cenere che sfida nell’asma
narici raggrinciate; e la campagna aggravia.
Ma è un tempo d’incerta misura
che s’arresta alla necessità e fa più nuda l’aria
e innamora il sangue e al colpo di reni il corpo spinge
in un abbraccio, in un sorriso furioso
che da lingua e dai denti, dalle labbra vuole
questa disperazione, sputare.
*
Nel fossato le plastiche e le carte
un supertele e l’acqua della pioggia
è un filamento; gromma annegata.
Quando il tempo passato
dall’ultima volta è troppo,
dopo esserci vissuti anni
ed essersene andati, come giunte comunali
o studenti universitari,
la città le ossa mostra
già rinsaldate, coperte d’altra pelle
d’altri muscoli.
E sono in strada
in un parcheggio
come un perverso vicino
a vedere in una finestra altra gente:
di me non sanno niente
del mio esserci vissuto; neppure una traccia:
imbiancate le mura, ristuccati
i buchi, nuove sedie
fornelli nuovi, gl’infissi giuntati.
Come ad un appuntamento
fallito, finito in buca
mi fisso le scarpe
e le mani nelle tasche, umide
sulle chiavi strette.
*
Il natale è d’inverno
e le teste di famiglie
e famiglie illuminate
da sfilacciate luci.
Le bancozze ordinate,
coi mercanti cha moccicano il freddo
con gl’occhi che ti sputano e t’invitano.
La mano che si stende
sulle maglie e altri ciaffi
oggetti sparsi, sotto sterminate
tende; compara valuta
ma i polpastrelli sembrano sordi
recisi i nervi
staccati. Mi ritrovo
con il tatto di un altro,
il cuore più lento
la testa, già sopra le luci.
*
I
Hai pisciato sul pavimento credendolo
un cesso, e quando arrivo sei a terra e Fabrizio
ti getta le braccia sotto le braccia e stringe,
ti mette in piedi, che ci scherzi, ci sorridi
e a malapena riconosci che c’è notte.
Mentre lo straccio si fa scuro torni sotto
le lenzuola - revattene a dermì - mi ridi,
come in un sonno senza fondo che fatica
il mattino, il risveglio; e sfondando il cuscino
posso solo dirti ancora, come preghiera.
II
- Tié la faccia sdrecita - avrei voglia di dirti
ma resto zitto, mentre davanti allo specchio
ti faccio la barba. La pelle come sabbia
cambia forma al tocco delle lame, si piega
sprofonda, e ho paura a calcare, di farti male
ferirti; eppure fiducioso distendi il mento
o ti confondi, fissando, con il riflesso.
III
- I’ vade a stramazz’ - ci dice dopo pranzo
con la mano sulla guancia - puo’ me pertete
su? - per dire bar; con gli occhi cerca conferma,
un sì che arriva dopo la frutta, ogni giorno
a rincuorarlo che la siesta non stordisca
il pomeriggio tutto, e che la cinta serve
e si stringe ancora come al collo d’un sacco
nel ficcarci dentro, anche l’aria per domani.
Pure se il viaggio è un caldo che inforca i polmoni
e la gola, quello che marchia è la portiera
sbattuta con forza, il finestrino sbalzato
quasi in frantumi, e i saluti, che non t’abituano.
IV
Mi sono svegliato e il cielo era ancora bianco
un’alba ancora fredda, come le ciabatte
ai piedi del letto.
Un accento che il silenzio
non conosce, puntellava gli angoli in casa,
portandomi al buio, fino alla porta a vetri
per sostare, mentre traboccavi la tazza
di cereali latte caffé, e sframmicavi
dentro, biscotti -a fare una pappa, una malta.
Seduto, ti c’abbarbicavi con le labbra
al bordo sottile, e rinserravi le mani
prima del mattino, riprendendoti il tempo.
La crepa
Brucio giornali vecchi quotidiani secchi
sotto le fascine e fanno un fumo nero
d’inchiostro che macchia le dita, oppure blu
chimica tintura di foto in prima pagina;
subito assottigliati, sfaldati, svolazzano.
Il ciocco sfocato suda l’acqua rimasta
tra gli anelli rappresa, poi il fumo s’infiamma.
Dalla parete scende fino al pavimento
di piastrelle spaccate, una crepa nera
come un segno impreciso di matita, ruvida
dove sbreccia l’intonaco in fragili scaglie.
Dice il contadino del casolare accanto
- che la casa s’ crolla a fa’ passà ‘n anne
che lu spacche è prefunne, ce se po’ ‘nzaccà
nu curtielle ‘ndiere; nisciù l’è ‘ccommodata
in tutte stu tiembe, manghe nu laveritte
e l’acqua quande piov ‘ngima la collina
la terra resmove e chesta se ne cala. -
Il caffè dalla moca sbocca sopr’al ferro
smaltato dei fornelli, sbatte e forma pozze;
scivolano i libri dalla borsa gettata
di fretta sul tavolo, come sporta bucata.
Odore d’acquazzone viene alle finestre;
come un ematoma le nuvole addensate
sopra le colline, le piante innervosite.
Dal tetto un principiare di necessità
le chiazze dei coppi spazzati via dal vento
erasi, come dure squame dal coltello…
…rassettare i ricordi, pur stando in affitto.
Neon
Su una sedia a rotelle s’è messo a dormire;
il braccio puntato con forza alla barella
gli regge la testa (senz’ombra il pavimento).
La porta scorrevole di legno chiaro, enorme
quadrato, dispone a compulsare targhe
alle braccia conserte sul petto, al passeggio
decerebrato, come muscione sul vino.
Ha l’ago nel braccio quand’esce, di una flebo
trasparente, e la nausea che l’ammutolisce
(il vomito sul panno assorbente, teso
sotto al mento, gettato nel secchio tra garze
macchiate di sangue, lacci e flaconi vuoti).
Lo straccio della donna delle pulizie
scia percorsi, come bava di lumache;
- che ci ha? sta meglio ora? ‘na volta ce l’ho ‘vuto
pur’io, poi nu dottore m’ha segnato ‘na cura… -
infiniti acciacchi presi e sofferti in anni
e anni di lavoro, solo per simpatia
con malati sempre nuovi, a questa stessa ora.
Il contagocce spinge a essere pazienti;
risalgono parole, e poi, frasi peste.
Un rosso slavato sul volto, sangue stinto
rimescola un sorriso tirato nel freddo
dell’alba, che fa piegare le spalle, incurvare
la schiena, come fossero nude, senza giacca;
e si spezza il dettato
nient’altro che il fiato.