Se entrate in un megastore americano potete acquistare tranquillamente una mozzarella del Minnesota o un provolone del Wisconsin; in Cina si trova pecorino venduto come italian cheese, anche se sulla confezione c’è una mucca al posto della pecora; in Australia invece va forte un parmigiano d’eccezione, il Parmesan Perfect italiano, garantito da tanto di bandiera tricolore.
Tutto questo non è gastronomia. È contraffazione. Ho citato l’America, la Cina e l’Australia, che ci sembrano terre così lontane. Ma il problema lo abbiamo anche a casa nostra, qui in Europa. In Germania producono l’aceto balsamico di Modena, e vendono l’amaretto di Venezia in bottiglie simili a quelle dell’amaretto di Saronno. In Spagna è diffuso l’olio d’oliva Romulo: sull’etichetta c’è una lupa che allatta due gemelli.
E non basta. Chi non si ricorda delle camicie Valentina, delle borse Fenda o, ultimo caso in ordine di tempo ma non di importanza, dei rubinetti clonati in Cina ed esportati in Perù con il falso marchio Italy?
La contraffazione è un problema serio, che può diventare gravissimo, come è successo, se ad essere contraffatti sono anche i medicinali. Nei Paesi in via di sviluppo rappresentano ormai una quota del 40% del mercato e il problema è aggravato dal fatto che le sostanze contraffatte sono di facile fabbricazione e possono assomigliare a quelle legali persino nella confezione. Un solo esempio: in Africa l’impiego di vaccini contraffatti ha causato 2.500 decessi solo nel 1995.
La contraffazione, quindi, non va mai sottovalutata, anche perché dietro spesso vi si nascondono vere e proprie organizzazioni criminali. Secondo le stime, le vendite di merci contraffatte rappresentano tra il 7 e il 9% dell’intero commercio mondiale, per un giro d’affari pari a 450 miliardi di dollari, una cifra colossale. Contro questo commercio sleale c’è bisogno di una risposta urgente, concreta, coordinata su tutti e tre quei fronti sui quali è necessario agire per essere efficaci.
In Italia abbiamo già leggi severe che puniscono chi vende e chi acquista prodotti contraffatti, proprio perché non dobbiamo dimenticare che anche l’Italia ha un triste primato: quello di essere stata fino a qualche anno fa, subito dopo la Cina e la Corea, un paese contraffattore. Per questo, per tutelare oltre ai consumatori anche le aziende produttrici stiamo attivando quattordici desk anti falsi nelle sedi estere dell’Ice, mentre per migliorare la parte operativa, andrebbe rafforzato l’Alto commissario per la lotta alla contraffazione.
Ma anche l’Europa deve dotarsi di una strategia comune. Su questo fronte, l’Italia si sta spendendo per il regolamento che renda obbligatoria l’etichettatura d’origine sui prodotti in arrivo dai mercati esteri. La Commissione Ue e il Parlamento di Strasburgo sono dalla nostra parte, ma non tutti i governi la pensano allo stesso modo. Si può solo sperare che l’interesse generale dei consumatori alla fine prevalga su qualche grosso interesse di parte.
Le difficoltà più serie le incontriamo in ogni caso a livello multilaterale. Il ciclo di negoziati in corso al WTO – il cosiddetto Doha Round – si è arenato, e sarebbe invece bene rianimarlo, non solo per i benefici che ne ricaverebbero le regioni più povere del globo, ma anche perché per la prima volta a Ginevra si sta discutendo delle indicazioni geografiche. Se si riuscisse ad istituire un registro multilaterale, i nostri prodotti di qualità sarebbero protetti contro imitazioni e contraffazioni in ciascuno dei 150 paesi aderenti al WTO.
In ballo non ci sono solo le nostre mozzarelle, il nostro parmigiano, l’aceto di Modena o l’amaretto di Saronno. C’è qualcosa di più. C’è una certa idea di commercio e di sistema multilaterale. C’è quella certa idea di governo della globalizzazione che ci sta particolarmente a cuore portare avanti. Il punto è questo: noi vogliamo un futuro di qualità. Ma per averlo dobbiamo desiderarlo tutti.
Emma Bonino
Ministro per il Commercio Internazionale e per le Politiche europee
(da Panorama Economy, 29 marzo 2007)