Dieci anni fa Ezio Pellizer, professore di letteratura greca all’università di Trieste, in un articolo dal titolo “Lamia e Baubò. Figure di spauracchi femminili nella Grecia antica”, in Faire peur et éduquer, Centre Alpin et Rhodanien d’Ethnologie, Grenoble 1998, riportava un mito narrato da Dione Cocceio di Prusa in Bitinia, detto il Crisostomo:
C’era una volta una razza di fanciulle, belle e seducenti, che vivevano nel deserto della Sirti libica (che è anche la patria di Lamìa, com’è noto). Queste femmine giacevano nella sabbia fino all’addome, ed erano così carine da ispirare un intenso desiderio amoroso. Ma sotto la sabbia, l’altra metà del corpo era un grosso serpente velenoso: questo ibrido spaventoso terminava infatti con una grossa testa di serpente dalle fauci dentate. Quando qualcuno si avvicinava, queste femmine mostruose lo attiravano con tutti i vezzi di cui sono capaci le fanciulle, facendo apparire i seni, lanciando sguardi fintamente riottosi; ma quando riuscivano ad attirarlo nelle loro braccia, la parte serpentesca azzannava il malcapitato uccidendolo con il veleno, e alla fine le due parti del mostro, la fanciulla e il serpente, ne divoravano le membra lacerate con il grande appetito.
(Chrysost., v 5-8, cfr. informazioni bibliografiche)
Pellizer coglie diversi elementi iconico-mitologici che svelano una femminilità adibita, nell’antica Grecia, all’educazione dei bambini: “se non ubbidisci arriva la Baubò”, una specie di Gorgone che punisce i bambini e che ricorda incredibilmente il “Babau”.
È interessante osservare come la doppiezza si manifesta nella femminilità, tanto da far paura al maschio.
Pare incredibile, ma occorre ammettere che tale carattere è emerso a livello artistico, durante le quattro serate della rassegna biaschese “Temi al femminile”, nelle quali sono intervenute, diverse artiste, scrittrici, registe teatrali. Si è parlato di Alfonsina Storni (per chi ci crede, era dei gemelli). Di lei leggo in Alfonsina Storni, Poesie, a c. Angelo Zanon Dal Bo, Fondazione Ticino Nostro, Lugano 1973, p. 79:
Può ben darsi che tutto ciò che in versi ho sentito / Non sia altro che quello ch’essere non ha potuto, / non sia che qualcosa di vietato e represso / di famiglia in famiglia e di donna in donna.
Dicon che nelle case della mia gente, avite, / misurato era tutto quel che si dovea fare… / dicon che silenziose le donne sono state / della casa materna… Oh, potrebbe ben darsi…
A volte in mia madre spuntò la fantasia / Di voler liberarsi, ma le salì agli occhi / Una fonda amarezza e nell’ombra essa pianse.
Tutto questo rammarico mortificato e vinto, / tutti quello che aveva nell’anima rinchiuso, / forse, senza volerlo, io l’ho liberato.
Alfonsina Storni si è liberata nel mare poetico, “bien pudiera ser” per contrastare ciò che non ha potuto “essere” altrove: in questi versi racconta una “doppia pelle” dentro alla quale la madre (profonda immagine di donna) è rimasta costretta, tra pianto e fantasia, tra chiusura e liberazione, tra risalita con gli occhi e discesa nell’ombra.
Per proseguire nella selva illuminata delle serate proposte durante la rassegna biaschese, dobbiamo soffermarci su un spettacolo ideato appositamente per il luogo principe di questi primi quattro appuntamenti: Bibliomedia. La regista Katya Troise e i suoi attori hanno creato lo spettacolo teatrale Doppia pelle, che racconta l’affascinante e contraddittoria dimensione del femminile, quotidiana e misteriosa, portata in scena in un intrecciarsi di storie, esperienze, spaccati di vita tratti da opere di diversi autori; percorsi uniti da una trama sottile di simboli e immagini che evocano l’intenso e fecondo universo femminile. Voci, sguardi, sensazioni che raccontano con toni profondi, frivoli o tragici la femminilità di tutti i tempi, che veste indifferentemente i panni dell’uomo e della donna secondo il corpo che in questa vita siamo costretti ad indossare. Doppia pelle è l’istante che abbiamo per scivolare dentro la pelle di ogni segreta femminilità. Un “doppio” drammatizzato negli spazi dedicati ai libri. Bello e intenso.
Infine, per concludere questo sguardo alla doppiezza, consiglio la lettura di Cercando Lindiwe, romanzo di Valentina Akava Mmaka, edito dall’intelligente editrice Epoché. Il racconto chiude la doppia personalità di Lindiwe, fuggita dall’apartheid sudafricano e annullatasi nell’identità, per diventare Ruth, cioè un’altra persona, in un altrove in cui integrarsi è troppo difficile. Il testo è molto intenso, il tema della mediazione interculturale, del dialogo con se stessi e con le proprie origini, fuoriesce con una forza drammatica. È un testo narrativo da rappresentare sotto forma di monologo, magari come “monologo musicale”, con un dialogo tra strumenti. Almeno due. E che poi si fondano in uno solo, cioè nella potenza chiamata Donna. L’invito è rivolto a chi si occupa di teatro.
A pagina 73 di Aspettando Lindiwe, prima di iniziare quel dialogo serrato tra Ruth e Lindiwe, che sono la stessa persona, ma che si sdoppiano in un dramma di voci, Valentina Akava Mmaka cita Samuel Beckett. Niente meno che questo:
Questa voce che parla… essa esce da me, mi riempie, grida contro i miei muri, non è la mia, non posso fermarla, non posso impedirle di straziarmi, di scuotermi, di assediarmi. Non è la mia, io non ne ho, non ho voce e devo parlare… con questa voce che non è la mia, ma che può essere solo la mia, perché ci sono solo io…
Daniele Dell'Agnola