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Maria Lanciotti: Aria di primavera
Peppino Impastato
Peppino Impastato 
11 Giugno 2007
 

Era il marzo del 2003, un sabato mattina in una scuola di Genzano. Studenti palestinesi erano lì su invito del Comitato Italiano per la Solidarietà con la Palestina. Conobbi Maha e parlammo con l'aiuto di Dawud, palestinese che vive da anni in Italia, che traduceva. Mi raccontò Maha che erano partiti in trentacinque e all'aeroporto di Fiumicino arrivarono solo in ventidue. Li fermavano, li controllavano e li rispedivano indietro senza un motivo; se fossero stati sospettati come terroristi - diceva Maha - li avrebbero arrestati e non rimandati indietro.

«Loro sono qui per diffondere la loro causa, per spiegare le ragioni della loro lotta “giusta e giustificata”, per contrastare la politica imperialistica che li rappresenta come terroristi. Loro sono idealmente contrari alle azioni terroristiche contro i civili», traduceva Dawud mentre Maha continuava a parlare con voce piana, e raccontava di case bombardate con la gente dentro, di cannoneggiamenti indiscriminati, di barbarie quotidiane che si compiono ormai da troppo tempo.

Che cosa sognano, i giovani palestinesi, che cosa chiedono? «Chiedono di avere un loro Stato con capitale Gerusalemme dove tutti i profughi palestinesi possano far ritorno. Chiedono la dignità di cittadini in regola, di poter piantare ortaggi e fiori nella loro terra, che non è più loro perché gli viene sottratta metro per metro con scuse che non sono plausibili: scacciare un popolo dalla sua terra è un sopruso senza giustificazioni», traduceva d'un fiato Dawud.

Quello che raccontava Maha sembrava sbiadito, lontano, rimpicciolito, a confronto delle immagini vive che ci saltano addosso dagli schermi televisivi. Assistiamo ogni giorno ai funerali della rabbia, i giovani morti ammazzati sollevati in alto come bandiere fra invocazioni di giustizia che hanno toni di vendetta. «Muoiono in media undici palestinesi ogni giorno, ormai sono tutti accecati dall’odio» e Dawud si passava una mano sugli occhi a cancellare una visione che tormenta.

Parlarono Maha e i suoi compagni nella palestra della scuola di Genzano. Un locale troppo ampio e dispersivo, acustica pessima. Avevano fatto un viaggio terribile ed erano pronti a ripartire per le grandi città italiane, per spiegare a chi vuole intendere le ragioni del loro popolo oppresso e di tutti i popoli oppressi come il loro, senza per questo voler diventare un simbolo: «Chiediamo ciò che il Diritto Internazionale ci permette di chiedere», e le voci rimbombavano nella palestra sopraffacendosi e annullandosi in un ritorno d'eco che confondeva la mente. Parlavano con la ragione ma anche con l'impotenza di chi sa di non poter fermare la disperazione e le reazioni di chi risponde al terrore col terrore, come gli uomini-bomba che per uccidere si fanno esplodere disperdendosi a loro volta in mille brandelli. «L’America sta preparando l’attacco all’Iraq», diceva Maha con voce ferma, e traduceva Dawud col pianto in gola: «Sappiamo che lo scopo dell’attacco è prendere il comando della zona produttrice di petrolio: se attacco ci sarà, sarà luce verde per Israele a fare quello che vuole. America e Israele sono la stessa cosa, e confidano nell’aiuto a livello civile del mondo occidentale», e si concludeva la terribile denuncia con un tono di speranza, l'ultima sempre a morire. Traduce Dawud: «Faranno il loro giro di sensibilizzazione e poi tenteranno il rientro; in un modo o nell'altro torneranno nelle loro case», e sono parole le ultime che hanno il sapore di un giuramento sacro.

Gli studenti di Genzano, scuola inferiore e superiore, seduti a gambe incrociate sulla stuoia della palestra avevano l’aria distratta, annoiata, infastidita. Le voci uscivano dal microfono metalliche e gracchianti, e si perdevano nella vastità dell'ambiente per un incontro che doveva essere invece ravvicinato.

Quei giovani che venivano direttamente dall’inferno, e solo per tornarvi, non riuscirono a trasmettere l'orrore insito nei loro racconti.

Il problema è che con le parole non ci si può nemmeno lontanamente avvicinare alla immediata capacità descrittiva delle immagini televisive commentate da cronisti esagitati. Scontri, ammazzamenti e funerali in diretta e a colori, il sangue è rosso sullo schermo, le mosche nere e ronzanti attorno ai cadaveri scomposti fra le macerie fumanti.

I nostri studenti non hanno per fortuna conosciuto la guerra. L’hanno sentita forse raccontare dai nonni, che sono noiosi quando ripetono sempre le stesse cose.

I nostri studenti sono nati in mezzo a un mare di cemento e nella falsa abbondanza: come si può pretendere che possano arrivare a capire - fino a sentirne i crampi e i brividi - fame e paura, perdite e rabbia?

I nostri ragazzi tendono all’obesità, che viene combattuta con la frequentazione assidua di piscine e palestre, e campi da gioco quando ci sono.

Ci sarebbero i giardinetti in città ma possono essere infetti, e poi chi lo trova il tempo per portare i figli ai giardinetti? I nonni si prestano ma fino a un certo punto, e le baby-sitter costano. Fortuna che c'è la scuola, a partire dall'asilo-nido, che se li prende a carico per buona parte del giorno.

Ma che gli vogliamo rimproverare ai nostri ragazzi, di essere figli dei nostri figli e nipoti a noi? E quanta parte di colpa abbiamo noi adulti sul disastro - non solo ambientale - che gli abbiamo fatto trovare? Certo, potevamo fare a meno di fumare, il fumo fa male a chi fuma e ancor più a chi gli sta vicino; certo, potevamo sprecarci a fare la raccolta differenziata dei rifiuti e questo prima ancora che mettessero in giro tutte quelle belle campane colorate; certo, potevamo evitare di buttare distrattamente a terra qualcosa che a terra non andava buttato, o di far volare fuori dal finestrino dell’auto in corsa qualcosa che invece andava tenuto in tasca fino al prossimo cassonetto; certo, potevamo risparmiare, riciclare, contenere gli sperperi e così facendo avremmo forse ritardato di qualche ora, giorno o settimana il disastro ecologico planetario. Indubbiamente ognuno di noi poteva fare di più e di meglio e invece non l’ha fatto, abbiamo tutti la nostra parte di responsabilità per quello che ci sta capitando. Ma quello che ci capita a ben considerare era forse inevitabile.

Il nostro pianeta è alla mercé di gente senza scrupoli. Il nostro mondo meraviglioso, azzurro e verde e oro, bello da far piangere, lo stiamo riducendo ad una palla incatramata, vischiosa e marcescente.

Ripensando a quei ragazzi sbracati che sbadigliavano nella palestra di una scuola di Genzano durante gli appassionati interventi dei giovani palestinesi, capisco che la parola non serve più, e non serve più perché abbiamo perduto la capacità dell’ascolto.

I nostri ragazzi. Terra troppo seminata e incolta, ognuno che passa vi butta la sua bella manciata di semi, buoni cattivi inutili, e nessuno che dia una vangata, una spruzzata d'acqua, e chissà alla fine cosa germoglierà, chi mangerà chi.

Questi ragazzi che crescono tra mille conflitti e contraddizioni io non li invidio per niente; hanno tanti nemici da affrontare e non sanno come, non hanno adeguate istruzioni per l'uso della vita moderna. Ma chi ne ha? Nessun essere umano è adeguato al vivere che consuma velocemente l'umanità.

Tra loro ci sono anche i miei nipoti e vorrei che non prendessero mai coscienza di quello che gli gira attorno; è il mio egoismo di nonna che li vorrebbe lontani dal male, a farmi desiderare questo, ma anche il ragionare sulla ricettività delle loro menti bombardate senza interruzione da ogni sorta di sollecitazione esplosiva: reggeranno, mi chiedo?

Loro, i ragazzi, ancora saggi come natura li fece, si sottraggono come possono ai bombardamenti indiscriminati. E noi a frustarli a incitarli, a buttarli dentro la buriana perché non ne restino fuori e indietro - guai a restare indietro! -, poi perdi il treno, il treno del tuo tempo, e quello che passa dopo non è più il tuo ma della generazione che segue. Il tempo di una generazione ormai si può calcolare in mesi, ogni nuova generazione prende il suo convoglio e va. Ma dove?

C'erano i giovani palestinesi ma non c'erano i giovani ebrei, quel sabato mattina a Genzano. Anche loro ne avrebbero avuto delle belle da raccontare, proprio come i loro vicini di casa senza casa. Neanche la storia del popolo ebreo è una bella storia, anzi; andrebbe cancellata e riscritta, ripulita degli antichi privilegi e delle vecchie maledizioni, ma lo stesso vale per la storia di tutti i popoli.

La storia si scrive col sangue e con l’inchiostro, qualcuno l'ha detto. Col sangue, con l’inchiostro e con le lacrime.

 

Da una settimana era iniziata la guerra in Iraq quando in televisione vidi il film I cento passi.

«Non chinare mai la testa», dice la vecchia madre di Peppino Impastato nell'intervista che va in onda subito dopo il film. Aveva trent'anni, Peppino, quando finì a pezzettini sotto un treno su ordine del boss Tano Badalamenti, nello stesso giorno in cui venne ritrovato in via Fani il corpo di Aldo Moro. Era l’8 maggio del 1978. Incidente sul lavoro, così venne archiviato in un primo momento l’assassinio di chiaro stampo mafioso. E sarebbe passato sottotono, data la coincidenza con l'altro crimine di rilevanza mondiale.

Cento passi, cento metri. Così breve è lo spazio fra bene e male, tanto che si può arrivare a confondere i confini. Il pericolo grosso è la confusione.

Percorrere cento passi fino a scavare una trincea, una demarcazione, un baratro. Cento passi avanti e cento indietro, una due tre cento volte, su quella striscia che separa e unisce il giusto e l’ingiusto. Cento passi per cento volte e darsi il cambio, per mantenere sempre ben visibile il tracciato della connivenza indecente.

La giustizia ha fatto il suo corso: Peppino Impastato è vittima riconosciuta di Cosa Nostra. La sua casa è meta di pellegrinaggio, un conforto per la madre.

Peppino le leggeva le poesie, ma poi volle che fosse lei stessa a leggerle. Erano belle - dice la madre nell'intervista- specialmente quella del figlio che parla alla madre, della madre.

 

Maria Lanciotti


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