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Drammaturgo quasi per caso: la commedia “campata in aria” di Hermann Broch
18 Marzo 2007
 

I testi teatrali di Hermann Broch, scrittore viennese di origini ebraiche, nato nella capitale danubiana nel 1886 e morto improvvisamente d’infarto a New Haeven (Connecticut) nel 1951, rappresentano soltanto un episodio all’interno della sua vasta produzione. Broch, uno dei tanti autori che vengono più citati che letti, considerato da molti noioso e troppo cerebrale, è noto soprattutto per i suoi romanzi e la sua produzione saggistica, tesa a condannare ogni manifestazione di barbarie e a promuovere i diritti umani. Fra i suoi romanzi, i due più noti sono la trilogia I sonnambuli, grande affresco storico dell’Europa fra le due guerre, e La morte di Virgilio. In cui Broch illustra il tormento del poeta latino – suo alter ego – deciso ad eliminare il manoscritto dell’Eneide – poi salvato in extremis – per lo scrupolo di aver messo la propria arte al servizio del potere. Fra i saggi di Broch dedicati alla letteratura, i più apprezzati sono il trattatello sul kitsch e lo studio dedicato a Hofmannsthal e il suo tempo, mirabile affresco degli ultimi splendori dell’Impero asburgico, ossia dell’epoca dell’“allegra apocalisse”, maschera di quel totale “vuoto di valori” che trascina l’imperialregia compagine danubiana nell’abisso.

 

Nella variegata produzione dello scrittore, come si diceva, il teatro rappresenta un fatto del tutto marginale. I tre copioni scritti da Broch per il palcoscenico risalgono tutti al biennio 1932-1934 e sono tutti ambientati nella contemporaneità, ossia nell’era della grande crisi mondiale, segnata da un lato dal crollo di Wall Street e dall’altro dall’ascesa al potere di Hitler. L’incertezza è subentrata alle grandi sicurezze che l’Impero sembrava garantire; tutto si è fatto precario, aleatorio, fonte di angoscia e di sfiducia di fronte a un futuro del tutto privo di concrete prospettive. Broch situa i suoi testi nell’ambiente dell’industria e dell’alta finanza, mondo che conosce assai bene per esperienza diretta, dato che fino ai quarant’anni ha diretto con successo – quantunque senza entusiasmo – l’azienda tessile con cui suo padre si era riscattato dalle sue umili origini sia economicamente sia socialmente.

 

Il primo testo teatrale di Broch, L’espiazione, è una tragedia che, in verità, inizialmente era stata anch’essa concepita come un romanzo; le difficoltà incontrate da Broch nella stesura di questo testo risultano evidenti dalle numerose revisione e riscritture del copione proposte dall’autore. Si tratta di una vicenda ricca di spunti autobiografici. Un cavaliere d’industria di vecchio stampo i confronta con le posizioni innovative di suo figlio, che per un verso si rende conto che i criteri di gestione dell’azienda messi in atto da suo padre hanno fatto il loro tempo, per l’altro non riesce ad affidarsi a un faccendiere disinvolto e di dubbia moralità che vorrebbe indurlo ad inglobare la sua fabbrica in un trust. Nessuno agisce in maniera corretta in questa tragedia, né i padroni né gli operai, che non sanno difendere davvero i diritti della loro classe perché vittime dei loro egoismi individuali. Tutto nel mondo descritto in L’espiazione è in crisi: il capitale e i posti di lavoro non meno delle ideologie politiche e dell’amore coniugale, tanto che la tragedia si conclude con un doppio suicidio: il giovane industriale, incapace di uscire dal garbuglio finanziario e affettivo in cui si vede intrappolato, si toglie infatti la vita come l’amante di sua moglie, deluso invece nei propri ideali.

 

Lo stesso ambiente della tragedia fa da sfondo anche al secondo copione di Hermann Broch, Tutto come prima, una farsa che riprende la tradizione più genuinamente austriaca, impudente e piccante, del dramma popolare, che a Vienna trova nell’Ottocento i suoi massimi esponenti in Johann Nestroy e Ferdinand Raimund.

 

Il terzo testo teatrale di Broch è invece una spumeggiante commedia, quasi un pendent a L’espiazione, di cui sembra essere lo specchio deformato nel comico. Mentre la tragedia si chiude con un duplice suicidio, Inventato di sana pianta ovvero Gli affari del barone Laborde si apre con quattro tentativi si autosoppressione che però si fermano allo stadio conativo, stemprando la disperazione nell’insulsaggine. Grazie all’intervento del lestofante del titolo, imbroglione gentiluomo che con la sua affascinante cialtroneria lascia intravedere a tutti una possibile via di salvezza, i quattro non si uccidono più e sembrano ritrovare fiducia. La quinta che fa da sfondo alla storia è un hotel con una portineria e tre stanze soltanto. La vicenda è semplice, benché il testo sia complicato da lunghe digressioni di carattere economico che dimostrano quale dimestichezza avesse Broch con azioni e cambiali, bollettini di borsa e tabelle valutarie.

 

In seguito a una rischiosa operazione economica sbagliata di Ruthart, direttore di una delle sue filiali e suo futuro genero, il banchiere Seidler scopre di essere sul lastrico. Laborde, in un miscuglio di sfrontatezza e fantasia s’inventa una compagnia petrolifera con cui salvare il magnate della finanza dalla bancarotta e insieme arricchire a sua volta – visto che non ha il becco di un quattrino – con operazioni virtuali, “inventate di sana pianta”. Nel contempo corteggia la figlia del banchiere, regalando anche a che a lei una ventata di gioia. La moglie di questo elegante faccendiere, la furbissima Stasi (Anastasia), non solo asseconda il gioco del consorte, ma si concede anche qualche distrazione dalla routine coniugale sia con il futuro genero di Seidler, sia con il direttore dell’albergo: alla sua vita da gran dama cui ormai è abituata non vuole infatti assolutamente rinunciare. Alla fine Laborde, dopo aver affascinato, irretito e illuso tutti, fugge con la cassa dell’albergo e tutto procede nella rilassata dimensione incosciente di un mondo in cui sono caduti i confini fra verità e menzogna, onestà e truffa, lealtà e immoralità.

 

Luca Ronconi ha allestito la commedia attribuendo al gioco scenico quella dimensione raffinata e ieratica che caratterizza la sua regia. La scena, su due piani, presenta a terra la hall dell’albergo con l’accettazione e il bar, mentre al piano superiore (a cui si accede per scale chiocciole laterali mobili) sono disposte tre stanze, collegate fra loro da un ballatoio invisibile sul retro che permette ai due giovanotti di passare dalla camera di una signora a quella dell’altra attraverso la finestra. Lo spazio delle stanze, mediante un gioco di pareti scorrevoli, si dilata e si restringe a seconda delle situazioni, come in un’alternanza di zoom. Alternanti sono anche i colori delle luci di Gerardo Modica, che passano dal rosa, all’azzurro, al violetto, cui si adeguano, nei diversi quadri, anche gli elegantissimi costumi degli attori, disegnati da Jaques Reynaud. Non meno raffinata è la scenografia di Marco Rossi nella sua allusiva essenzialità, che rimanda per associazione alla linearità scarna e priva d ogni fronzolo decorativo di Adolf Loos. Bravi gli interpreti, che nelle pose e nella recitazione stigmatizzano l’inconsistenza di un mondo dove il “declino dei valori” è al suo apice e il raggiro – concreto ed emotivo – è ormai l’unico parametro che regoli lo scambio fra le persone.

 

Gabriella Rovagnati

 

 

Inventato di sana pianta
ovvero gli affari del barone Laborde

di Hermann Broch
regia Luca Ronconi
scene Marco Rossi
costumi Jacques Reynaud
luci Gerardo Modica
musiche a cura di Paolo Terni
traduzione di Roberto Rizzo
con (in ordine di locandina)
Massimo De Francovich, Pia Lanciotti, Massimo Popolizio, Anna Bonaiuto, Giovanni Crippa, Giacinto Palmarini, Pasquale Di Filippo, Andrea Germani, Gabriele Ciavarra, Marco Brinzi, Paolo Garghentino, Andrea Coppone
 

Produzione Piccolo Teatro di Milano - Teatro d’Europa - Milano

Teatro Grassi
dal 5 marzo al 5 aprile 2007

 

 

Qui per sapere e vedere di più


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